martedì 18 dicembre 2012

Morale e diritto penale




Sconcezze, nudità, divieti ed ipocrisie attraverso i secoli

Un articolo su quest’argomento, se fosse scritto da un giurista per acquistare un titolo accademico, avrebbe ben pochi lettori, ma l’autore fortunatamente è un eclettico intellettuale, grande esperto di morale e sufficientemente erudito nel diritto penale, in condizione perciò di partorire un breve saggio sull’argomento per il lettore colto, ma la cui lettura è consigliabile anche per lo specialista.
Dobbiamo necessariamente definire cosa si intende per morale e diritto penale, facendo nostre le definizioni del dizionario Zanichelli, ed. 2011.
Per morale si considera un complesso di consuetudini e norme che un singolo o una collettività considerano come giuste e necessarie, di conseguenza accettano e propongono come modello da seguire nella vita pubblica e privata.
Per diritto viceversa si intende l’insieme delle norme legislative che regolano la vita sociale ed in particolare il penale è quel ramo che si interessa di tutelare la sicurezza dei cittadini, irrorando sanzioni, il più delle volte detentive.
Noi limiteremo la nostra indagine unicamente ai rapporti tra morale e diritto penale senza interessarci di rapine, droghe ed omicidi, lasciando al legislatore ed alla magistratura il compito di reprimere queste forme di delitti.
Esamineremo il rapporto tra morale e diritto penale restringendo l’analisi all’Occidente che ha sempre rispettato canoni comportamentali diversi dall’Oriente, dall’antica Roma in poi e dedicando particolare attenzione a partire dal XV secolo, quando comincia ad imperversare la Santa Inquisizione, la quale, nata in Spagna, si diffonde in tutta l’Europa cattolica e si interessa ufficialmente del delitto di eresia, acquisendo un potere di intimidazione quasi assoluto nell’eseguire indagini con metodi arbitrari e crudeli ed irrorando quasi sempre sanzioni mostruose e raccapriccianti.
In seguito per secoli potere politico e religione, giudici e preti, educatori e sbirri, come sottolineato da Michel Foucault, lavoreranno in sintonia nel controllare, sorvegliare e punire.
In nome del peccato e della morale vi è sempre stato qualcuno che si è arrogato il diritto di stabilire cosa sia consentito e cosa no, cosa sia lecito e cosa osceno.
Per morale, a partire dal Medioevo, prima per la Chiesa e poi per il potere, si è inteso principalmente l’analisi dell’esposizione dell’anatomia del corpo femminile, nonostante i vari attributi muliebri abbiano avuto differenti valutazioni nel corso dei secoli.
Nel Cinquecento il seno prorompe prepotentemente da scollature abissali, viene tollerato nelle corti e costituisce motivo di vanto e di attrazione fatale, immortalato dai più celebri pittori dell’epoca, mentre in epoca vittoriana era considerato osceno esporre anche una semplice caviglia a tal punto che la regina impose di imbavagliare le basi delle sedie nella sua sfarzosa corte.
Anche gli artisti possedevano una doppia morale come Pietro Aretino, da un lato autore di sonetti licenziosi, dall’altro profondamente indignato per la raffigurazione del modesto pisellino di Adamo nel Giudizio Universale di Michelangelo ed anche El Greco affermò perentoriamente che i più stupendi affreschi mai realizzati dall’uomo dovessero essere cancellati per sempre da una mano di calce, nonostante già nel 1545 il Concilio di Trento avesse esplicitamente condannato le nudità della Cappella Sistina e dato incarico di renderle più che caste, ricoprendo i corpi ignudi del Giudizio, a Daniele da Volterra, detto poi per questo incarico il Braghettone. Per chi volesse contemplare la celebre opera in versione originale, nel Museo di Capodimonte è conservata una tela eseguita da un abile copista, prima dell’opera devastatrice del Braghettone. 
L’esposizione del corpo femminile avviene cautamente nel tempo: caviglia, gamba, coscia, seno. Per i primi casti bikini comparsi in Italia negli anni ’50-’60 si rischiava di essere trascinati davanti al pretore (ignaro che, come dimostrano i mosaici di Piazza Armerina, le antiche romane lo usassero con disinvoltura) e vedersi condannate per atti osceni in luogo pubblico. Negli stessi anni a St. Tropez trionfava sulle spiagge à la page il seno al vento.
Il limite supremo è stato a lungo il pelo pubico, che non poteva addirittura nemmeno essere descritto, a tal punto che un giudice della Corte Suprema americana nel 1966 condannava l’editore di un libro “Memorie di una donna di piacere” scritto nel 1748 da John Cleland.
Il pelo femminile avrà il suo trionfo nel 1866 quando Gustave Courbet nel suo straordinario capolavoro “L’origine del mondo” immortalerà un pube ispido e senza veli in primo piano ed a gambe aperte.
Ma se torniamo indietro di mezzo secolo e ci trasferiamo a Napoli, nel 1819 assisteremo ad una gustosa scenetta con Francesco I, futuro re che porta ad istruirsi la figlia Carlotta nella zona del Palazzo degli Studi dedicata ai reperti archeologici di Pompei ed Ercolano: “Guarda, osserva, impara”. Ma mentre gli occhi della fanciulla si illuminano di morbosa curiosità, quelli dell’austero genitore si posano inorriditi tra nani con falli smisurati, femmine in pose lascive, accoppiamenti plurimi ed amuleti a forma di membri virili.
Il re infuriato ordinò l’immediata chiusura del reparto, che per la riapertura ha dovuto attendere il 1999 (per chi volesse approfondire l’argomento consiglio di consultare sul web il mio scritto con numerose illustrazioni dal titolo “Il gabinetto segreto”).
Ma torniamo al pelo pubico che troverà la sua esaltazione negli anni Settanta del Novecento, grazie a riviste come Playboy e Penthouse, mentre per il maschio nudo sorgeranno giornali specializzati per la gioia di signore, signorine ed appartenenti al terzo sesso.
Negli ultimi decenni, mutati i costumi, sarà un diluvio tra le cosce delle ballerine del can can, agli striptease integrali, mentre anche al cinema comincia a comparire il seno nudo. In Italia sarà Clara Calamai la prima ne “La cena delle beffe”.
E poi un tripudio generale dall’ingenuo spogliarello politico e sociale di “Full Monty” all’esplosione della volgarità di massa.
Da Michelangelo a Lele Mora, da Francesco I a Silvio il cavaliere ed al suo burlesque con ragazzine travestite da Obama o da Ilde Boccassini, tutto si trasforma in una storia dell’oscenità ed ecco di nuovo il potere giudiziario tralasciare i reati più gravi ed accanirsi sui palpeggiamenti senili di un cittadino libero, grazie al Viagra ed al Cajerget, di trastullarsi a casa sua.  


lunedì 17 dicembre 2012

« Una dolce morte »


Lettera pubblicata il 7 dicembre 2012 su "il Venerdi di Repubblica"
 nella rubrica "questioni di cuore" di Natalia Aspesi

Per le coppie anziane, dopo tanti anni passati assieme sorge il desiderio anche di morire insieme. 
A me e mia moglie questa rara occasione capitò anni fa in un aereo in avaria, che tentò un atterraggio di fortuna senza carrelli, ma riuscimmo fortunatamente a salvarci. Da allora tanto tempo è passato: Gli occhi si cercano sempre, le mani si accarezzano più di prima. Il desiderio si trasforma, i corpi stanchi e rugosi, diventano il soffice cuscino cui adagiarsi.
Il vecchio desiderio di Filemone di essere trasformato con l’amata Bauci in una quercia e in un tiglio uniti per sempre nel tronco e nelle radici è una mera utopia. In un paese che non permette l’eutanasia, non resta che bere assieme una tazza di dolce veleno, regalandosi vicendevolmente la morte.

Achille Della Ragione
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Natalia Aspesi
André Gorz, scrittore, filosofo, uno dei fondatori del settimanale francese Nouvel Observateur, si uccise nel 2007 assieme alla moglie malata, non potendo immaginare di vivere senza di lei,
erano insieme da 58 anni. Di lui, Sellerio ha pubblicato nel 2008 Lettera a D. inno: d'amore a Dorine, la compagna di tutta la vita da cui non ha voluto separarsi.
Mi perdoni se le ricordo che altri hanno fatto ciò che lei immagina, se segnalo ancora una volta il film Amour che racconta una storia simile.
Mi perdoni anche se le dico che, se ovviamente penso che l'eutanasia sia un diritto per chi vuole porre fine alla sofferenza o per chi sopravvive con le macchine come un vegetale, non posso pensare che si rinunci alla vita, perché muore una che sino a quel momento l'ha divisa con noi. Davanti saranno anni vuoti, tristi, ma varrà sempre la pena di viverli anche in solitudine, perché comunque la morte non unisce, cancella soltanto e non ci sono dei, che, come racconta Ovidio nelle sue Metamorfosi, premino Filemone e Bauci facendoli morire insieme e trasformandoli, per sempre, in alberi.

Natalia Aspesi





venerdì 14 dicembre 2012

Un calendario per salvare Napoli


Sant' Aspreno ai Crociferi
Santa Maria della Sapienza
Santa Maria della Scorziata



Chiese famose da salvare al degrado


Il terremoto del 1980 inferse un colpo mortale al patrimonio artistico napoletano. Da allora molte, moltissime chiese, anche di primaria importanza, sono negate alla fruizione del pubblico e dei turisti.
Le chiese di una città sono la testimonianza del suo glorioso passato, ma soprattutto possono costituire un potente volano di sviluppo perché in grado di attirare, come ai tempi eroici del Grand Tour, un esercito di forestieri.
Il calendario realizzato con tanto amore dal fotografo Listri e sponsorizzato dalla Sovrintendenza può determinare uno scatto d’orgoglio e può far capire, anche al grande pubblico, la necessità di provvedere all’incuria che si trascina con tracotanza ormai da troppo tempo.
E’ un grido di dolore che si leva disperato affinché questi sacri templi possano tornare alla stupefatta ammirazione dei visitatori.
Si tratta di edifici più o meno noti come Sant’Agostino alla Zecca o Santa Maria delle Grazie a Caponapoli, come la Sapienza o Santa Maria del Popolo agli Incurabili, ma anche le altre, prima di essere depredate ed abbandonate a vandali e ladri, hanno costituito un tassello fondamentale nella storia della città: Sant’Aspreno ai Crociferi, l’Immacolata a Pizzofalcone, San Giuseppe a Pontecorvo, la Scorziata, la Disciplina della Croce, i Santi Severino e Sossio, i Santi Cosma e Damiano ai banchi Nuovi, Santa Maria Vertecoeli.
Bisogna mobilitarsi per salvare e soprattutto bisogna fare presto.

Santa Maria delle Grazie a Caponapoli
Santa Severino e Sossio


mercoledì 5 dicembre 2012

Cronistoria di un amore folle


Una voce disperata che parla da Rebibbia

Continuamente ricevo libri da autori novelli che vogliono un parere o, i più audaci, una recensione. Purtroppo dovrei passare gran parte del mio tempo a leggere libri autobiografici che spesso non hanno alcun valore letterario per cui, anche se imbarazzato, sono costretto a dire di no.
Credevo fosse un caso simile a quello del libro scritto da Pasquale, un mio amico al quale non potevo rifiutarmi, ma dopo aver letto le prime pagine della sua “Cronistoria di un amore folle” mi sono dovuto ricredere perché le frasi d’amore, le descrizioni delle emozioni, le sensazioni voluttuose, spinte fino ad un erotismo esplicito quanto accattivante, sgorgano impetuose come un fiume in piena che appassionano il lettore, il quale brucia il libro tutto di un fiato.
Il protagonista della narrazione è l’amore, il più bel regalo che il Creatore ha fatto all’uomo; un sentimento che ci fa dimenticare la nostra condizione di animali, anche se intelligenti e ci avvicina alla spiritualità delle entità celesti.
Non possiamo credere che tutto si riduca ad un gioco di ormoni e mediatori chimici. I ferormoni, così efficaci nel regolare la riproduzione dei mammiferi scompaiono di fronte al profumo che emana prepotente dalla donna che si ama, la quale diventa il centro dell’universo e senza di lei la nostra esistenza non è degna di essere vissuta.
Il volume racconta l’amore tra Pasquale ed Elisabetta, che si dipana nel corso di vari anni e nasce come tutti gli amori: uno sguardo interessato, un sorriso di complicità che dà luogo in breve ad una passione folgorante, condita di frasi mielose, di baci appassionati, di tenere poesie recitate dall’autore nei momenti topici e che sono riportate nel testo, ma soprattutto di amplessi acrobatici e ripetuti da far invidia ai patiti del Kamasutra.
“Ci baciamo intensamente, ci graffiamo, ci mordiamo ed eccoci in un attimo nell’apoteosi dell’orgasmo che esplode dentro di te e ancora e poi ancora per tutta la notte. L’amore non è materia, è qualcosa che ti esplode dentro e ti annienta, ti fa impazzire di gioia … E’ un cosmo a sé che ti perfora l’anima, ti coinvolge, ti droga, ti penetra nel sangue, ti logora, ti dà forza, ti dà pazienza, si impossessa di tutto il tuo essere.” 
La “love story” nasce a Mergellina, in un ristorante di lusso e poi si sviluppa tra Roma, dove Pasquale ha la sua attività della moda, e Napoli, dove vive Elisabetta, ma i week-end sono di fuoco.
Un brutto giorno Pasquale riceve una telefonata dal suo avvocato, il quale, imbarazzato, lo informa che per un lungo periodo deve prepararsi a divenire ospite dello stato per un vecchio procedimento andato in giudicato.
Il mondo sembra cadergli addosso, ma quando riferisce dell’intoppo ad Elisabetta, lei gli giura amore eterno e gli promette che non l’abbandonerà mai, soprattutto in un momento così difficile, non mancherà ad un colloquio, continuerà a scrivere lettere grondanti tenerezza e compassione e tutto sembrava continuare come prima, fino all’arrivo di un telegramma …. E qui non vogliamo togliere ai lettori il piacere di scoprire il finale istruttivo anche se pieno di amarezza.
E’ un libro che incontrerà, ne siamo certi, un grande successo e sarà sicuramente seguito da altri, perché Pasquale mette in mostra uno stile ed una fantasia che gli permetteranno di scrivere altre storie in grado di interessare un pubblico anche dal palato raffinato.

lunedì 3 dicembre 2012

UNA VOLTA PARTIVANO I BASTIMENTI. OGGI ARRIVANO GLI ULTIMI DELLA TERRA



Riflessioni sul fenomeno dell’emigrazione. Ricordi sulla storia italiana e considerazioni sui nuovi flussi che interessano il nostro paese



Dopo la repressione del brigantaggio l’economia meridionale subì un vistoso tracollo e per molti, quasi tutti, l’unico modo per sopravvivere fu quello di lasciare la propria terra per procacciarsi il pane quotidiano e dare un futuro ai propri figli. Lo stato sabaudo, dopo aver combattuto la rivolta con metodi militari, rendendosi responsabile di eccidi spaventosi , incoraggiava questo silenzioso genocidio del quale invano cercheremo notizie nei libri di storia.
La meta preferita era l’America e nel corso di pochi decenni oltre 25 milioni di Italiani sono stati costretti all’emigrazione oltre oceano e soltanto pochissimi sono ritornati; la maggior parte di questi disperati proveniva dalle regioni meridionali salvo una sparuta pattuglia di veneti. Il punto di partenza era il porto di Napoli da dove partivano i famosi “bastimenti” carichi fino all’inverosimile di un’umanità lacera e spaventata.
“Ah, ce ne costa lacrime st’America a nui napulitane …“ è il primo verso di una celebre canzonetta: “Lacrime napulitane”, composta nel 1925 da Libero Bovio, in cui l’autore cercò di sintetizzare il dolore e la paura di un giovane emigrante sperduto nell’immensa solitudine di New York. Il protagonista, bisogna precisarlo, si era deciso ad attraversare l’oceano per un tradimento della donna amata, un motivo futile rispetto a quello che aveva spinto al grande passo milioni di connazionali.
Un’altra celebre canzonetta del 1919 “Santa Lucia lontana” parte proprio con: “Partono i bastimenti”. L’autore è E. A. Mario, celebre per aver scritto “La leggenda del Piave”.
L’abbondanza di composizioni canore sull’argomento non deve sorprendere perché l’emigrante, scorrendogli la melodia nelle vene, reggeva una valigia di cartone ma quasi sempre portava a tracolla una fisarmonica.
Continuavano a celebrare le proprie feste come la processione di San Gennaro ed organizzavano la festa di Piedigrotta, nella quale fu lanciata “Core ingrato” composta nel 1911 da Cordiferro e Cardillo.
Straordinaria è poi la vicenda di Gilda Mignonette che, nel 1926, si trasferì dalla natia Duchesca alla rumorosa Little Italy e venne eletta a furor di popolo “La regina degli emigranti” grazie al successo planetario della sua “’A cartulina ‘e Napule”.
I nostri connazionali, dopo un interminabile navigazione vissuta nel degrado, venivano muniti di cosiddetto “Passaporto rosso” e venivano sbarcati nell’isolotto di Ellis Island, posto davanti a New York, dove la polizia li sottoponeva ad un controllo simile a quello che si riserva al bestiame. Chi superava la selezione, lentamente con l’aiuto di parenti o amici già da tempo sul posto, riusciva ad arrangiare una sistemazione ed a trovare un lavoro, sempre faticoso e sfibrante.
A qualcuno la fortuna arrideva ed ecco alcuni diventare magnati, artisti, persino santi, ma anche gangster e mafiosi. Ma a fronte di un’organizzazione criminale come la Mano nera, di origine siciliana, a combatterla vi era un super poliziotto, Joe Petrosino, figlio di emigranti originari di Padula.
E se Al Capone era figlio di emigranti campani egualmente erano di origine italiana Fiorello La Guardia, che diventerà sindaco di New York, o Frank Sinatra, celebre cantante, o Frank Capra, uno dei più celebri registi, oltre a tanti altri scrittori, poeti e saggisti di altissimo livello. Generazioni di italiani che, inclusi coloro che avevano scelto come meta Argentina e Brasile, sono stati una notevole fonte di ricchezza per il nostro paese. Valga un solo esempio: tra il 1900 e il 1922 i soli meridionali, tramite il Banco di Napoli e quello di Sicilia, spedirono ai loro parenti rimasti in patria ben 20 miliardi di lire oro e si calcola che una eguale quantità di denaro sia stata spedita per posta o consegnata a mano. Un fiume di soldi che ha permesso di sopravvivere a milioni di diseredati.
Con il fascismo il fenomeno rallentò vistosamente per riprendere negli anni ’60 e ’70 nel periodo del boom economico, questa volta verso il Nord e le ricche regioni europee: Germania, Belgio, Svizzera, dove la manodopera meridionale veniva maltrattata non solo all’estero ma anche nella civile Padania, dove abbondavano i cartelli “Non si affitta ai meridionali”, definiti sprezzantemente terroni.
Oggi esportiamo cervelli e sono i migliori ad andarsene, regalando conoscenze ed energie vitali ad altri paesi, dopo aver speso cifre ingenti per farli studiare e specializzare.
A fronte di questa emigrazione di lusso da alcuni decenni l’Italia è divenuta la terra promessa per milioni di disperati in fuga dalla fame, dalla siccità e dalle guerre. Un fiume in piena che fra poco sarà difficile da arginare, fino a quando l’Europa, nel suo miope egoismo, non deciderà di varare un gigantesco piano Marshall per creare, soprattutto in Africa, condizioni di sopravvivenza investendo nell’irrigazione, nella sanità e nell’istruzione. Sono disperati che rischiano al vita tra le onde, dopo aver percorso a piedi centinaia se non migliaia di chilometri nel deserto per raggiungere la costa libica dove vengono taglieggiati da autentici negrieri che li spogliano di ogni oggetto prezioso, oltre a pretendere cifre vergognose per fargli rischiare la vita su barconi rattoppati, pronti ad affondare alla prima onda più alta del solito. Nessuno saprà mai le dimensioni di quel gigantesco cimitero sottomarino che raccoglie pietosamente i resti di decine di migliaia di uomini, donne e bambini che sognavano la terra promessa.
Per i fortunati che toccano il territorio italiano sono pronte strutture simili più ad un lager che a centri di accoglienza dove, stipati fino all’inverosimile, attendono per mesi sotto al sole e se non sono profughi lo Stato tenta in tutti i modi di rimpatriarli.
Un’altra porta d’ingresso è quella orientale, preferita dalle popolazioni slave e dagli ucraini. Molti vengono con visti turistici e poi scompaiono nel nulla, cercando a qualsiasi prezzo un lavoro per sopravvivere: badante, manovale, contadino.
Una serie di leggi scriteriate ha cercato negli anni di reprimere unicamente il fenomeno invece di tentare di regolarlo, attraverso quote annuali secondo le richieste del mercato, come si comportano molti paesi dagli Stati Uniti all’Australia.
Questo stolto comportamento, oggi che la storia si ripete all’incontrario con legioni di disperati che vedono nelle nostre città e nelle nostre campagne una sorta di paradiso terrestre, dipende dall’aver rimosso gli anni in cui l’Italia era terra di migranti e di non aver avviato un serio programma di integrazione, addirittura nemmeno per i figli degli stranieri in regola nati in Italia ai quali non viene riconosciuta la cittadinanza.
Il problema dell’integrazione tra italiani ed il fiume di stranieri che, anno dopo anno, sempre più affluiscono nel nostro paese, in un solo luogo ha trovato piena applicazione: nei penitenziari, soprattutto delle grandi città: Roma, Napoli, Milano, nei quali ormai gli “alieni” (ma sono nostri fratelli) costituiscono la maggioranza.
Nel buio delle celle vigono regole di solidarietà sconosciute nel mondo esterno cosiddetto civile; tutti si considerano membri di una grande famiglia e chi non conosce la nostra lingua la impara in fretta acquisendo anche la cadenza dialettale locale.
Un esempio virtuoso di cui tenere conto e da perseguire perché non si può andare contro il corso della storia.
Noi abbiamo bisogno della loro energia e voglia di conquistare il benessere ed è una fortuna non una calamità che molti scelgano l’Italia, antica terra di emigrazione, divenuta oggi la terra promessa.
Il nostro passato è dimenticato, seppellito nel più profondo inconscio complici le istituzioni che non hanno realizzato un museo che ci rammenti gli anni in cui eravamo carne da macello, pronta a qualsiasi lavoro, anche il più umile e pericoloso. Un museo dell’emigrazione per ricordare il passato e per spegnere in noi qualsiasi seme di razzismo e di becero leghismo. E quale sede più degna del porto di Napoli dove per un’eternità sono partiti i bastimenti carichi di disperazione e di nostalgia, di ansia di riscatto e di antica dignità.

domenica 4 novembre 2012

In ricordo di Gerardo Maruotti


Un professore di altri tempi


Gerardo Maruotti era un professore straordinario di quelli che non siedono più sulle cattedre della disastrata scuola italiana.
Pugliese, grande letterato, iniziava le sue spiegazioni in si bemolle per terminarle con acuti poderosi, con pugni sul tavolo, infarciti di parolacce, e poiché soffriva di emorroidi, gli ultimi minuti erano per noi studenti un esaltante godimento e per lui un gradevole supplizio.
Dopo 30 minuti di eloquio i personaggi da lui evocati sembravano rivivere in mezzo a noi, lasciando momentaneamente l’empireo dove vivono in eterno: Paola e Francesca, Achille ed Ulisse, don Chisciotte, Amleto e tanti altri immortali creati nei millenni dalla fertile fantasia di scrittori e poeti di ogni nazionalità.
Lui stesso era poeta ed aveva curato un’antologia della letteratura italiana ad uso dei licei.
Una mia compagna di classe, Letizia Petré, conosceva a memoria molti passi dei suoi canti dauni, mentre Achille Morena gli procurava gli inviti alle conferenze che si tenevano nella mitica saletta rossa della libreria Guida.
Lo abbiamo avuto come docente al liceo scientifico Galilei di Napoli, per molti anni nella mitica sezione C, nota per essere quella alla quale era assegnati i professori più preparati e più motivati.
Egli possedeva una casetta con giardino al villaggio Coppola, da poco costruito e, all’epoca, ambito luogo di villeggiatura; una domenica dell’ultimo anno, quando già alcuni di noi possedevano l’auto, ci invitò a trascorrere assieme un giorno di festa. Ad ora di pranzo ci recammo in un ristorante della zona e poi tutti sotto al patio a spegnere le candeline di un compleanno con tanti “anta”.
Oggi, andato in prescrizione il reato, posso confessare un piccolo peccato di gioventù. Spesso, quando con gli amici si faceva molto tardi, usciti dalla discoteca, chiamavamo al telefono il professore il quale, per il suo carattere irascibile, andava su tutte le furie, vituperando le divinità delle principali religioni monoteiste.
Le telefonate notturne sono state per anni una mia specialità. Ogni anno allo scoccare della mezzanotte, chiamavo immancabilmente il professore oltre ad una certa Assunta Aspettapesce, che alle mie avances, mi bombardava di parolacce in perfetto vernacolo.
Ritornando al nostro amato Gerardo, del quale conservo religiosamente a casa tutte le foto della classe nella quale egli compariva immancabilmente ed alcune foto scattate al villaggio Coppola, voglio raccontare alcuni sfiziosi aneddoti.
Il primo, innocente, quando praticai un buco in corrispondenza con la classe attigua, frequentata da una classe superiore alla nostra, i cui compagni, dopo pochi minuti, ci fornivano le soluzioni dei compiti assegnati in classe, soprattutto di matematica.
Il secondo, più birichino, fu quando, nottetempo, misi del cemento nella serratura della scuola, provocando un filone generale.
Il terzo è il più birbante: una sera misi nello sciacquone dei bagni una bottiglia colma di urina, simulando una molotov. Poi, mentre tranquillamente mi facevo vedere davanti all’ingresso, un amico avvertì la  polizia: ”attenti c’è una bomba nella scuola”. Arrivarono gli agenti e fu un altro giorno di allegro filone di massa.
Qualche anno fa, leggendo i necrologi del Mattino, appresi della triste dipartita. Confesso che piansi; professori come Maruotti non esistono più e per questo che ho accettato volentieri l’invito della figlia Valeria di ricordare l’estroso personaggio.

giovedì 1 novembre 2012

IN BARCA NEL TUNNEL DEI BORBONE


Una nuova attrazione turistica per Napoli



Napoli è piena di attrazioni turistiche, paesaggistiche e culturali, ma da qualche mese se ne è aggiunta una nuova che rappresenta una novità assoluta, unica ed irripetibile.
Tutti sapevamo che, per motivi di sicurezza, Ferdinando II aveva incaricato Enrico Alvino di costruire un percorso sotterraneo, rapido e protetto, che congiungesse Palazzo Reale con la Caserma Vittoria. L’opera non fu conclusa e rimase circondata da condotte idriche seicentesche con le relative cisterne.
Nelle vicinanze si trova una galleria scavata negli anni Ottanta, attraverso la quale doveva transitare una linea tranviaria rapida, presentata come una rivoluzione interna ai trasporti e che fortunatamente non ha mai visto la luce, limitandosi a dilapidare decine di miliardi con relative tangenti, altrimenti Napoli avrebbe potuto vantare un altro record negativo: il primo affondamento di un treno.
Nel frattempo tutto era stato sommerso da tonnellate di immondizia ed invaso dalle acque, mentre una parte asciutta è stata adoperata per anni dal Comune come deposito giudiziario per le auto sequestrate.
Poi vi erano sotto Monte di Dio vaste grotte collegate ai palazzi, che venivano adoperate come ricovero durante gli oltre cento bombardamenti che hanno martellato Napoli. Ci sono tuttora sorprendenti testimonianze: da borracce a materassi sfondati oltre a vasini per una pipì d’emergenza. La guerra si faceva sopra le nostre teste e molti, risalendo, avevano l’amara sorpresa di trovare la propria casa distrutta.
In più punti sta sgorgando un’acqua rossastra, ricca di ferro e minerali, come quella che una volta sgorgava al Chiatamone ed i Napoletani raccoglievano nelle caratteristiche mammarelle sale da falde che si credevano esaurite ed è un simbolo di speranza in un’epoca di siccità nella quale il modo rischia di sprofondare.
Su questo magma scomposto si è esercitato con tenacia il lavoro di due speleologhi, Minin e De Luzio, che in dieci anni, scavando a mano e servendosi di carrucole artigianali hanno permesso queste visite guidate, che ci permettono di conoscere Napoli nella sua realtà di città pluristratificata con luoghi invisibili che nascondono tracce di storie, di vite, di uomini.
Il percorso tradizionale di 530 metri prevede di visitare le grotte che diedero riparo nei bombardamenti, dove si trovano le auto sequestrate e le antiche condotte idriche, mentre nel nuovo percorso “avventuroso” si scende nel tunnel moderno invaso dall’acqua per una profondità di tre metri, dove vi è una piccola banchina ove attracca una piccola zattera a remi, che permette di percorrere il fiume alla fioca luce di due lampade ad olio, guidati ogni cento metri da altre tenui fiammelle che indicano il percorso. Non si vede e non si sente niente, si naviga nel nulla sotto terra. Un’esperienza emozionante che ci fa vivere tempi lontani quando la mitologia dominava sulla razionalità.
A breve partirà anche un’opzione “speleo” per i più audaci che potranno, opportunamente imbracati calarsi nei pozzi, ovviamente assistiti da speleologhi esperti. Quindi un nuovo motivo per trascorrere un fine settimana all’ombra del Vesuvio, anche in pieno inverno, perché sottoterra la temperatura è stabilmente a 18°.


venerdì 19 ottobre 2012

Una storia della pasta per antonomasia




UN POPOLO DI MANGIA MACCHERONI


Parlare di pizza o di maccheroni nel mondo significa rievocare Napoli. Orgoglio e vanto della cucina italiana, la filante e tubulare pasta ha affascinato e continua ad attirare personaggi di ogni paese, età e condizione.
Nati come metodo povero e pratico per conservare la farina di grano e renderla rapidamente commestibile, i maccheroni hanno conosciuto il destino di diventare un piatto internazionale e quasi l’emblema della gastronomia italiana all'estero.
Ma chi ha inventato i maccheroni? Le loro origini sono misteriose, ma oggi sappiamo con certezza che paste alimentari, atte alla conservazione, come maccheroni e vermicelli, fossero diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo tra i secoli XIII e XVI. Ne troviamo traccia in documenti genovesi del Duecento e del Trecento ed anche in un atto notarile del 1279. Mentre ancora prima in Cina esisteva un impasto di acqua e farina molto simile agli gnocchi.
Probabilmente la loro origine è araba o persiana e fu la Sicilia a farsi mediatrice tra Oriente ed Occidente in un periodo nel quale i napoletani erano famosi come mangia foglie.
L’ipotesi della nascita a Napoli dei maccheroni è dunque una leggenda di cui parleremo diffusamente, propagandata da Matilde Serao alla fine dell’Ottocento, rinforzata dal parere di un dotto come Carlo Tito Dalbono, grande conoscitore delle abitudini dei napoletani nella prima metà dell’Ottocento.
Napoli cominciò ad identificarsi con i maccheroni che si trasformarono in un cibo europeo quando vari viaggiatori cominciarono a descrivere quei folkloristici personaggi che li avviluppavano con tre dita e li mandavano giù, soprattutto quando divenne costume di cucinarli e venderli all’aperto in spacci ambulanti diffusi in ogni angolo della città.
Per tutto l’Ottocento il “maccaronaro” divenne uno degli aspetti più salienti del colore napoletano e l’icona indiscussa di mangiarli con le dita e addirittura conservarli nelle tasche è costituita dalla memorabile interpretazione di Totò nel film “Miseria e nobiltà”.
Ma la favola della Serao è talmente ben congegnata che merita di essere ricordata.
Durante il regno di Federico II viveva a Napoli un certo Chico, il quale possedeva antichi libri di ricette, una serie di alambicchi e faceva comprare al domestico una serie variegata di alimenti che poi mescolava in vario modo.
Accanto a lui abitava una donna maliziosa e linguacciuta di nome Jovannella, che spiava giorno e notte il mago, finchè un giorno disse: “Ho scoperto tutto; fra poco saremo ricchi”. La perfida donna riuscì a farsi ricevere dal re al quale fece assaggiare la sua pietanza.
Federico rimase entusiasta e gli diede un grosso premio. In seguito tutti i nobili ed i ricchi borghesi mandarono il loro cuoco ad imparare la ricetta e nell’arco di sei mesi tutta Napoli si cibava dei maccheroni, mentre Jovannella divenne ricca.
Fu poi Pulcinella a diffonderli dappertutto con la sua abitudine di portarli in tasca già caldi e fumanti.
Nascono poi i tanti tipi di pasta diversa, grazie a fabbriche specializzate localizzate tra Torre Annunziata e Gragnano, che grazie ad un’acqua leggerissima e priva di calcio e ad un’accorta tecnica di ventilazione, producono formati di gusti diversi, oltre a vermicelli e maccheroni, lasagne, paccheri e trenette, rigatoni ed orecchiette, che costituiscono il fondamento della dieta mediterranea che anni fa, con una decisione votata all’unanimità dall’Unesco, sono stati considerati patrimonio dell’umanità.
Non si può concludere un discorso sulla pasta senza parlare del ragù, reso celebre dalla poesia di Eduardo e che a Napoli si prepara in un modo particolare, la quale richiede molte ore di preparazione, cuocendo per ore la carne di bovino in umido col pomodoro il cui sugo serve per condire alla grande maccheroni in grado di resuscitare i morti.
Facciamo questa precisazione perché di recente una multinazionale anglo-olandese ha registrato la parola ragù negli Stati Uniti, costringendo in futuro le aziende italiane a pagare un dazio per commercializzare all’estero un prodotto tipico della nostra cucina.
Il ragout di origine francese è un intingolo con frattaglie di pollo finemente preparato che serve a condire riso e verdure, ben diverso da quello nostrano che solo a Napoli sanno fa’.

mercoledì 17 ottobre 2012

I primati di Napoli




Inaugurazione della ferrovia Napoli Portici 

Negli ultimi decenni i mass media, tutti di proprietà monopolistica del Nord, hanno non solo falsificato i libri di storia, ma hanno cercato di diffondere lo stereotipo di un Meridione costituito da fannulloni e parassiti, alle cui esigenze debbono provvedere le regioni settentrionali, prospere e laboriose. 
Solo di recente alcuni seri ricercatori, come Gennaro De Crescenzo, assiduo frequentatore di archivi ed alcuni scrittori come Pino Aprile, autore di un pamphlet di successo, che coniuga dati storici inoppugnabili ad una travolgente vena polemica, hanno cercato di rileggere con onestà gli avvenimenti del passato, soprattutto il fenomeno del brigantaggio, che vide un tacito accordo tra i notabili latifondisti e la borghesia imprenditoriale del Nord. 
Le campagne erano in rivolta ed il brigantaggio faceva del Sud un vero e proprio Far West.
Furono i soliti gattopardi, padroni dei voti delle masse popolari, ad aderire alle scelte politico-economiche post-unitarie, privilegiando finanziariamente lo sviluppo delle industrie padane a costo di penalizzare per sempre ogni possibilità di sviluppo del Meridione, i cui abitanti si videro costretti, a decine di milioni, ad abbracciare la scelta dell’emigrazione. 
Fu una diaspora di dimensioni bibliche, un vero e proprio genocidio del quale vanamente troverete anche un accenno nella storiografia ufficiale. 
Il dato più importante da cui bisogna partire è che all’ indomani del plebiscito, quando il nuovo regime cominciò ad assumere i primi provvedimenti finanziari, si rese conto che il Regno delle due Sicilie aveva in cassa 443 milioni, più del doppio dei bilanci di tutti gli altri Stati della penisola che, tutti assieme, raggranellavano 220 milioni. 
Tutto ciò a dimostrazione lampante che l’economia era più che florida, esportando legname, grano, frutta, olio, primizie, vini pregiati, carne, uova, pasta, latte ed agrumi, garantendo un costante flusso di valuta estera.
E se passiamo dall’ agricoltura all’ industria il divario era ancora più accentuato, dalla produzione di pelletteria agli strumenti di precisione, mentre la grandiosa fabbrica di Pietrarsa sfornava a getto continuo colossali macchinari, dalle locomotive alle macchine a vapore, dalle gru ai ponti di ferro alle rotaie, a parte pezzi di artiglieria, bombe e granate. 
Nel frattempo i cantieri di Castellammare producevano centinaia di navi che facevano della flotta borbonica una delle più importanti del Mediterraneo, oltre a molte altre commissionate dall’ estero. 
Nella zona di Amalfi era tutto un susseguirsi di cartiere e di opifici tessili e non poche erano le risorse minerarie; a parte lo zolfo in Sicilia, si estraeva ferro, piombo, antracite e talco.
Ma i veri primati di Napoli indiscussi sono nel campo della cultura, dell’edilizia e della scienza. Accenniamo ai principali:

  • Nel 1738 si diede inizio ai lavori per la Reggia di Capodimonte.
  • Nel 1751 Ferdinando Fuga ebbe l’incarico per la costruzione dell’Albergo dei Poveri, una struttura gigantesca destinata ad accogliere tutti i poveri del Regno.
  • Nel 1737, in soli sei mesi, quarant’anni prima della Scala di Milano, si completò il Teatro San Carlo, che divenne l’indiscusso tempio della lirica europea.
  • Nel 1738 vennero alla luce i parchi archeologici di Ercolano e di Pompei, che attirarono per decenni gli entusiasti visitatori del Grand Tour.
  • Nel 1743 fu fondata la celeberrima Fabbrica di porcellane di Capodimonte.
  • Nel 1771 fu affidato il compito a Luigi Vanvitelli di costruire a Caserta una reggia più bella e sfarzosa di quella di Versailles.
  • Nel 1778 cominciò a funzionare a Palazzo Reale la celebre Fabbrica degli arazzi. L’anno successivo nacque la manifattura di San Leucio, una singolare fabbrica governata da rivoluzionarie regole socializzatrici.
  • Nel 1798 la spiaggia di Chiaia si trasformò in una splendida Villa Reale. L’anno successivo sorsero i colossali Granili.
  • Nel 1818 prese il mare il primo battello a vapore e l’anno successivo fu edificato a Capodimonte il primo Osservatorio astronomico d’Europa.
  • Nel 1837 Napoli fu la prima città italiana ad avere l’illuminazione a gas. Ma la grande impresa fu il 3 ottobre 1839 l’inaugurazione della linea ferroviaria Napoli-Portici, la seconda al mondo, alla quale in breve si aggiunsero altri tratti che misero in comunicazione la capitale con Caserta, Capua, Cancello, Nola e Sarno. La rete stradale nel 1855 era di ben 4587 miglia.
  • Nel 1841 sorse ad Ercolano l’Osservatorio Vesuviano. Nel 1852 nacque la prima linea telegrafica Napoli-Gaeta ed in breve furono in contatto tutte le principali città, comprese Reggio Calabria e Messina attraverso una linea sottomarina.
  • Nel 1845 si tenne il VII Congresso degli Scienziati. I presidi sanitari erano all’avanguardia in Europa ed importante fu anche la funzione dei Monti di Pietà che contrastarono attivamente il fenomeno dello strozzinaggio.
  • In campo culturale ricordiamo l’Accademia delle Belle Arti, il famoso Conservatorio di Musica e una prestigiosa Università.
  • Molteplici furono le attività artigianali, dalla coniazione di monete alla legatoria di lusso, dalla lavorazione del corallo e della maiolica all’intaglio dell’avorio e all’elaborazione di gioielli d’oro e argento.

Potremmo continuare a lungo, ma vogliamo concludere con i tanti teatri, più di Parigi, che erano sempre stracolmi e testimoniavano la gioia di vivere di un popolo che scaricava così i suoi timori e le sue insoddisfazioni. 
Ricordiamo il Fiorentini, il Mercadante, il San Ferdinando, il San Carlino, dove la famiglia Petito immortalò in spassosissime commedie la celeberrima maschera di Pulcinella.

sabato 6 ottobre 2012

Spes ultima dea



Sara' sottoposto al vaglio della Corte dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo e anche al Giudizio di Revisione il caso del noto ginecologo napoletano Achille della Ragione, arrestato nell'ottobre del 2011, dopo due anni di latitanza, per una sentenza passata in giudicato del 2008 in quanto ritenuto responsabile di avere praticato un'interruzione di gravidanza senza consenso, commercio e somministrazione di medicinali guasti/scaduti, e falsita' ideologica in atti pubblici. A renderlo noto e' il figlio del professionista, Gian Filippo della Ragione, membro del pool difensivo del medico, raggiunto telefonicamente dall'Ansa. Il ginecologo, ormai da un anno detenuto a Rebibbia, si e' sempre proclamato innocente e ora, fa sapere il suo legale, e' in uno stato di salute precario: ha perso 25 chilogrammi, e' affetto da una grave sindrome depressiva e, soprattutto, ha problemi cardiaci determinati dall'occlusione di tre coronarie, come certificato da una coronarografia dell'ospedale San Raffaele. 
I fatti che hanno portato in carcere il medico riguardano, appunto, l'interruzione di gravidanza non consensuale praticata in una clinica privata di Caserta a una paziente sua accusatrice. Il legale di Della Ragione, dopo minuziose ricerche, ha allegato agli incartamenti sul caso una annotazione di servizio della Squadra Mobile di Potenza, risalente al 6 aprile del 2000, nella quale l'ex convivente della donna riferisce di un tentativo di estorsione da duecento milioni di vecchie lire da parte della donna nei confronti di Della Ragione. 
L'avvocato Della Ragione intende portare davanti ai giudici anche la testimonianza della segretaria della clinica casertana nella quale e' stato praticato l'aborto: una dichiarazione non ammessa in primo grado ma che accerterebbe la ferma intenzione da parte della paziente di volere abortire. La donna, infatti, avrebbe fatto specifica richiesta, firmato il consenso informato per poi sottoporsi all'operazione.
L'avvocato del professionista, inoltre, intende portare ai giudici anche la richiesta di una perizia fonica sulle registrazioni delle telefonate intercorse tra la paziente e il ginecologo che, a suo parere, non sarebbero autentiche ma frutto di manipolazione. Telefonate registrate proprio dalla paziente.
Infine, fa sapere l'avvocato del ginecologo, il suo assistito non avrebbe potuto commettere il falso ideologico relativo alla manipolazione delle cartelle cliniche in quanto per accedervi era necessaria un'autenticazione informatica attraverso una password sconosciuta al professionista e nota solo ai dipendenti amministrativi della clinica. 
''Per febbraio e' stata fissata la discussione del ricorso a Strasburgo, - dice l'avvocato Della Ragione -, davanti alla Corte dei Diritti dell'uomo, che e' stato accettato. E capita a meno del 3% dei ricorsi. La Corte - ha poi concluso il legale del ginecologo - ha recepito nel corso del procedimento otto violazioni del diritto di difesa.La Revisione, invece, sara' presentata entro 30-40 giorni.

il Roma 3 ottobre 2012

il Mattino 3 Ottobre 2012
Il giornale di Napoli 3 ottobre 2012



giovedì 20 settembre 2012

POMPEI. L’ARTE D’AMARE




L’affascinante libro di Cinzia Dal Maso: ci accompagna in un intrigante passeggiata tra lupanari, orge e festini licenziosi, che caratterizzano la vita della città licenziosa per antonomasia: Pompei.
Siamo debitori ai Borbone, che organizzarono una minuziosa campagna archeologica, per la riscoperta di una città rimasta per quasi due millenni sotto la lava del Vesuvio.
Manovali ed operai, scavando, ritrovavano in continuazione falli di ogni foggia e dimensioni, di bronzo, di pietra, di ceramica, una vera e propria invasione, mentre statuette e mosaici mostravano Mercurio, Dioniso e naturalmente Priapo con attributi virili smisurati (figg. 1-4).





I campanelli delle case: i Tintinnabula erano costituiti da una serie di falli assemblati con armonia. (fig. 5)
I costumi e la cultura erano agli antipodi della nostra, sessuofobica e repressiva, dovuta a due millenni di mortificazione del corpo, di divieti religiosi e di senso del peccato, che ci fanno sbirciare con occhio malizioso le gioiose manifestazioni di esuberanza erotica che la lava ci ha restituito intatti.
Percorrendo le vecchie case sembra che dal nulla compaiano satiri eccitati e ninfe focose, checche patrizie e giovani marchettari.


Il mito di Pompei attrasse a migliaia i viaggiatori del Grand Tour, fino a quando Francesco I di Borbone non decise di rinchiudere gli oggetti più licenziosi, dando luogo al mitico Gabinetto Segreto, deludendo le torme di archeologi e raffinati voyeurs, che dovevano contentarsi di apprezzare nella casa dei Vetti o nei pochi lupanari rimasti aperti la conturbante visione di prorompenti amplessi plurimi (figg. 6-10).
A Pompei vi erano più bordelli che panifici, tenendo conto che oltre alle esigenze degli indigeni, la città era meta di villeggiatura di ricchi patrizi dediti alla crapula e di marinai che scendevano a terra dopo mesi di astinenza forzata.
Si possono ancora leggere significative scritte: "Ballerine e danzatrici cantano tra gemiti e sussurri e si abbassano a terra agitando le natiche".
Un libro divertente ed istruttivo da leggere sotto l’ombrellone e per chi volesse approfondire l’argomento consiglio di leggere "Curiosità nel Gabinetto Erotico" un mio piccolo saggio sul tema riportato di seguito.







Curiosità nel Gabinetto Erotico

Se vogliamo conoscere le antiche abitudini sessuali dei nostri antenati dobbiamo visitare il Gabinetto segreto del museo archeologico, dove sono raccolti una serie di stupefacenti reperti recuperati in gran parte durante gli scavi effettuati a Pompei a partire dal Settecento.
Questi originali materiali a sfondo erotico sono stati sottratti per lungo tempo alla fruizione del pubblico perché considerati osceni e perciò divenuti famosi ed oggetto di morbosa curiosità.
La denominazione di Gabinetto Segreto ha una ragione storica: infatti con il termine "segreto" si indicarono spesso nel Rinascimento i luoghi, le stanze, i giardini in cui venivano raccolte le speciali collezioni che si cominciavano a formare con opere d'arte, antiche e moderne, ispirate al tema dell'amore e della sensualità.
Quando cominciò la campagna di scavi, la scoperta a Pompei ed Ercolano di tanti oggetti legati alla sessualità destò sorpresa nei contemporanei, che immaginavano le due città come dei tranquilli centri abitati, in tutto dissimili dalle lussuriose Capri e Baia, invece si scoprì che nelle cittadine vesuviane esistevano più postriboli che forni e che la richiesta, e di conseguenza l’offerta di sesso, era superiore alle esigenze alimentari: più sesso che pane, fornicare altro che mangiare.
A queste imbarazzanti testimonianze del nostro passato fu riservata una sala del museo Ercolanese di Portici, che poteva essere visitata a richiesta e con permesso speciale. Dopo il trasferimento del Museo da Portici al Palazzo degli Studi, la collezione venne esposta per alcuni anni senza particolari restrizioni, ma solo fino al 1819, quando il futuro re Francesco I, in occasione di una visita con la figlia Carlotta, che rimase particolarmente colpita dalla vista di tante immagini conturbanti, suggerì al direttore di formare una raccolta separata, che fu detta prima Gabinetto degli oggetti osceni, definiti poi riservati, visitabile solo da “persone di matura età e di conosciuta morale”, e comprendente all’epoca centodue “infami monumenti della gentilesca licenza”.
Negli anni successivi, a chi chiedeva una maggiore apertura del Gabinetto ed una più larga generosità nel rilasciare permessi di visita, si opponevano gli immancabili bacchettoni, che ritenevano opportuno di dovere proibire anche la visione delle Veneri e delle altre figure, nude e seminude, delle quali era ricco il museo di Napoli. Prevalse infine lo spirito reazionario, cosicché la raccolta fu trasferita al primo piano e ne fu murata la porta, perché “se ne disperdesse per quanto era possibile la memoria”.
Da allora il Gabinetto Segreto ha vissuto sorti alterne, a seconda degli avvenimenti politici. Negli anni che seguirono all’ingresso di Garibaldi a Napoli la collezione venne aperta a tutti tranne che ai fanciulli e, con particolare permesso, anche alle donne ed al clero; fu inoltre pubblicato il catalogo della Collezione Pornografica ad opera dell’allora direttore del museo, Giuseppe Fiorelli. Ma essa fu nuovamente chiusa dal governo sabaudo che prescrisse il permesso per tutti fino al 1931. Durante il ventennio fascista, la collezione fu completamente chiusa al pubblico e si dovrà aspettare il 1967 per poterla visitare di nuovo, sebbene per soli pochi anni. Richiuso per motivi di restauro e per la necessità di reperire una adeguata sistemazione, il Gabinetto segreto è stato riaperto in via definitiva nell’aprile del 2000, organizzato secondo la selezione a suo tempo fatta dal Fiorelli, con il solo aggiornamento dell’esposizione dei materiali vesuviani divisi secondo criteri cronologici, iconografici e funzionali: i materiali di età preromana, la pittura mitologica, la decorazione dei giardini, la pittura dei lupanari, l’erotismo nel banchetto, gli amuleti.
Tra gli esemplari più famosi è il gruppo marmoreo con Pan e capra, rinvenuto nella Villa dei Papiri di Ercolano nel 1752, a lampante dimostrazione che i nostri avi contadini e pastori non disdegnavano in caso di bisogno di soddisfare gli improcrastinabili impulsi sessuali anche con gli animali.
Le pitture sono distinte tra quelle mitologiche, più raffinate, che derivano dalla tradizione della pittura erotica greca ed ellenistica, e quelle realistiche, più popolari, destinate a decorare i lupanari e le stanze particolari delle case private. Abbiamo vasi estremamente espliciti nell’indicarci le posizioni preferite dai nostri progenitori e mosaici nei quali sono riprodotte volenterose cortigiane pronte a soddisfare le esigenze più varie della propria clientela, alla quale proponevano le specialità nelle quali erano più versate ed i relativi prezzi delle prestazioni all’ingresso del postribolo.
Numerosi sono pure i bronzetti, le lucerne e gli amuleti personali, portati da uomini e donne come protettivi contro il malocchio e le malattie. Nel mondo romano infatti il membro virile era considerato simbolo di fecondità ed augurio di prosperità ed allo stesso tempo teneva lontana la cattiva sorte; anche il rumore era ritenuto un potente talismano. I due rimedi apotropaici, combinati insieme, ebbero grande popolarità nei centri vesuviani, come testimoniano i numerosi campanelli di bronzo sorretti da falli o figure itifalliche, utilizzati nelle botteghe come auspicio di buoni affari, e forse anche nelle case come divertenti arredi da banchetto per chiamare le portate: di particolare rilievo in questa serie è una splendida figurina di gladiatore da Ercolano. Nasce in questi anni l’abitudine tutta napoletana di grattarsi le parti intime in presenza di una persona ritenuta malefica o di portare in tasca un corno, rimedio infallibile contro il malocchio.
In quanto potente amuleto il fallo era inoltre posto, in tutte le città antiche, sulle mura, sui marciapiedi e lungo le strade; a Pompei era spesso usato nei cantonali delle case a scopo protettivo, ma anche sulle facciate delle botteghe, spesso dei panifici, dov’era scolpito sugli architravi dei forni. Celebre è il rilievo in travertino con fallo e scritta “hic habitat felicitas” dal panificio nell’insula della Casa di Pansa.
Una sezione del “Gabinetto Segreto” è dedicata agli oggetti erotici della collezione Borgia, tra i quali si distinguono: uno specchio di bronzo etrusco con scena erotica incisa ed una serie di piccoli nani in pietra con falli enormi tra le mani, di provenienza egizia e di età tolemaica. La sala LXII, infine, ospita alcuni reperti non pertinenti propriamente alla collezione del “Gabinetto Segreto”, tra i quali il gruppo di Pan e Dafni, il sarcofago in marmo con scena di culto dionisiaco, entrambi della collezione Farnese, il mosaico in bianco e nero con Pigmei da Roma, mentre una piccola sezione illustra la storia della collezione nei documenti d’archivio.
Numerosi sono gli esemplari raffiguranti ermafroditi e maschi superdotati al punto di necessitare di opportuni sostegni per membri elefantiaci, approcci tra satiri e ninfe e come ciliegina finale una raccolta di apparati maschili completi di testicoli.
La sezione è più conosciuta all’estero che in Italia ed infatti visitandola ci si accorge dei numerosi stranieri che affollano le sale, mentre tanti napoletani non sanno nemmeno dell’esistenza di questo scrigno prezioso di priapei, quanto mai esplicativo dell’origine delle nostre abitudini sessuali.

Pan e la capra



mercoledì 12 settembre 2012

L’evasione ci salva




In Italia l’economia sommersa è talmente diffusa da fornire al Paese quella liquidità necessaria per sopravvivere pur producendo sempre meno ed oberata dal terzo debito pubblico al mondo.
Per rispondere a questo mistero basta esaminare la situazione della Campania, la regione con il reddito pro capite più basso d’Italia e con una densità urbanistica e demografica tra le più alte al mondo.
La risposta è semplice: riciclaggio.
Gran parte delle attività e soprattutto bar, pizzerie e ristoranti sono in mano alla camorra, la quale fa emettere una massiccia quantità di scontrini falsi, immettendo denaro nel sistema fiscale.
Per cui da un lato fornisce ossigeno ad una economia asfittica e soccorre nello stesso tempo il bilancio dello stato, evitando il crack.

Profezia apocalittica




Il giorno non molto lontano in cui finiranno i risparmi delle famiglie e la disoccupazione dilagherà, quando noi genitori non ci saremo più e scompariranno stipendi e pensioni, non ci sarà più alcuna differenza tra gli emigranti africani, che sfidano le onde dell’oceano alla ricerca della terra promessa ed i nostri figli viziati, svogliati e privi d’iniziativa.

lunedì 10 settembre 2012

Lettera sulle carceri





a Ferragosto si è ripetuto il mesto pellegrinaggio di onorevoli, per constatare lo stato miserevole in cui versano le carceri italiane. 
Molti sono rimasti inorriditi, alcuni con le lacrime agli occhi. 
Vorrei pregare loro ed i tanti colleghi che non hanno ritenuto di interrompere le loro vacanze, di impegnarsi alla fine di settembre, quando andrà in discussione in parlamento l'ennesimo decreto legislativo svuotacarceri, ad approvarlo velocemente, apportando alcuni significativi emendamenti, ispirati da legislazioni più avanzate delle nostre, che permetterebbero realmente di risolvere il problema senza allarmare l'opinione pubblica.
Portare il beneficio per buona condotta da 3 a 4 mesi ogni anno e calcolarlo appena il detenuto entra in carcere, in maniera tale che si possa pervenire in anticipo ai permessi, alla semilibertà, all'avviamento ai servizi sociali, ai domiciliari, senza dimenticare i tossicodipendenti, da avviare a strutture di recupero, ma soprattutto i pazienti anziani e gravemente malati, per i quali la detenzione domiciliare dovrebbe costituire un imperativo categorico.


venerdì 7 settembre 2012

FACITE AMMUINA


19/02/2011

Facite Ammuina (che in napoletano significa fate confusione) sarebbe stato un comando contenuto nel Regolamento da impiegare a bordo dei legni e dei bastimenti della Real Marina del Regno delle Due Sicilie del 1841. Si tratta, in realtà, di un falso storico, il cui testo così recita:

(Napoletano) 
« All'ordine Facite Ammuina: tutti chilli che stanno a prora vann' a poppa
e chilli che stann' a poppa vann' a prora:
chilli che stann' a dritta vann' a sinistra
e chilli che stanno a sinistra vann' a dritta:
tutti chilli che stanno abbascio vann' ncoppa
e chilli che stanno ncoppa vann' bascio
passann' tutti p'o stesso pertuso:
chi nun tene nient' a ffà, s' aremeni a 'cca e a 'll à".
N.B. da usare in occasione di visite a bordo delle Alte Autorità del Regno. »

(Italiano) 
« All'ordine Facite Ammuina, tutti coloro che stanno a prua vadano a poppa
e quelli a poppa vadano a prua;
quelli a destra vadano a sinistra
e quelli a sinistra vadano a destra;
tutti quelli in sottocoperta salgano,
e quelli sul ponte scendano,
passando tutti per lo stesso boccaporto (buco);
chi non ha niente da fare, si dia da fare qua e là. »

Di questo falso passo del regolamento in questione esistono copie, vendute ai turisti nei mercatini di Napoli anche oggi, che riportano a firma quelle dell'Ammiraglio Giuseppe di Brocchitto e del "Maresciallo in capo dei legni e dei bastimenti della Real Marina" Mario Giuseppe Bigiarelli.
Il motivo dell'assenza di copie ufficiali è dovuto semplicemente al fatto che il regolamento della Real Marina del Regno delle Due Sicilie non ha mai annoverato un tale articolo e né di Brocchitto né Bigiarelli risultano menzionati tra gli ufficiali della marina delle Due Sicilie. Tali cognomi sembrerebbero del tutto inventati poiché il primo non risulta esistere in nessun archivio dell'intera Italia, mentre il secondo è del tutto estraneo all'onomastica delle Due Sicilie. Peraltro, il regolamento della Real Marina, come tutti gli atti ufficiali, era redatto in perfetto italiano, e perfino l'esame del testo in napoletano lascia dubbi di genuinità, soprattutto perché usa l'indicativo per degli ordini: per esempio, invece che «chilli che stanno abbascio vann' ncoppa e chilli che stanno ncoppa vann' abbascio», ci si aspetterebbe «... jessero ncoppa...». In particolare il presente congiuntivo nell'ultima frase, s'aremeni era certamente scomparso nell'uso popolare ottocentesco della lingua napoletana e sostituito dalla forma ottativa s'ar(r)emenasse.
Si tratta quindi di uno dei tanti aneddoti denigratori sulle forze armate borboniche (nel loro insieme spregiativamente definite esercito di Franceschiello) confezionati a fine propagandistico dai piemontesi per screditare il Regno delle Due Sicilie e la dinastia dei Borbone. Altre invenzioni simili, riguardanti questa volta l'esercito, sono il facite 'a faccia feroce e il facite 'a faccia fessa che sarebbero stati gli ordini impartiti alle reclute durante l'addestramento.
Tra l'altro, la Real Marina del Regno delle Due Sicilie era particolarmente efficiente, tanto che nell'Italia appena unificata, che si trovò imposte tutte le istituzioni e la legislazione piemontese, la Marina adottò proprio divise, gradi e regolamenti di quella napoletana.

Sebbene il facite ammuina non nasca affatto da un regolamento della marina borbonica, esso trae origine da un fatto storico realmente accaduto (anche se dopo la nascita della Regia Marina italiana). Un ufficiale napoletano, Federico Cafiero (1807 - 1889), passato dalla parte dei piemontesi già durante l'invasione del Regno delle Due Sicilie, venne sorpreso a dormire a bordo della sua nave insieme al suo equipaggio e messo agli arresti da un ammiraglio piemontese, in quanto responsabile dell'indisciplina a bordo. Una volta scontata la pena, l'indisciplinato ufficiale venne rimesso al comando della sua nave dove pensò bene di istruire il proprio equipaggio a "fare ammuina" (ovvero il maggior rumore e confusione possibile) nel caso in cui si fosse ripresentato un ufficiale superiore, con lo scopo di essere avvertito e nello stesso tempo a dimostrare l'operosità dell'equipaggio.


Un suono napoletanissimo è quello fragoroso della pernacchia che i puristi definiscono un suono derisorio, ironico e in genere considerato volgare, eseguito soffiando con la lingua protrusa all’infuori in mezzo alle labbra serrate, oppure premendo con il dorso della mano sulla bocca per ottenere un rumore simile a quello di una flatulenza (alias scorreggia).
Lo spernacchiamento può essere eseguito mediante due tecniche di disposizione labiale a scelta. Si può poggiare la lingua sul palmo della mano e soffiare facendo vibrare il labbro inferiore. In questo caso si ottiene un suono aperto, cosiddetto a “squacchio”, oppure raccogliere la mano a cono e far vibrare contemporaneamente entrambe le labbra. In questo caso si ottiene un suono più acuto che può essere modulato dall’esecutore mediante la crescita progressiva del volume d’aria emesso; questa tecnica consente anche di variare la nota di escussione della pernacchia maggiore sia verso gli acuti che verso i gravi.
Quando la pernacchia non viene eseguita da uno specialista (sono tutti napoletani) e senza il dovuto trasporto si trasforma in una fetecchia che può essere definita il tentativo fallace di emettere un peto vibrato e roboante, che invece poi riesce afflosciato e calante, una scorreggia non riuscita, quindi, potremmo concludere un mezzo aborto di pereta, che, se consultiamo il dizionario scopriamo trattarsi di un sinonimo di peto, fetumma, loffa o siluro e qui ci fermiamo perché dai suoni siamo agli odori, anzi ai fuochi di artificio.
Questo suono così esplicativo pare nasca durante il dominio spagnolo e si manifestasse spontaneo all’arrivo degli esattori delle tasse, che i popolani salutavano con particolare affetto.
La pernacchia più celebre nella storia del cinema è quella di Eduardo De Filippo, contro un nobile arrogante. Era un suono altamente modulato e studiato, in concorso con la plebe del rione. Oltre all’irrisione, cioè, esprimeva una protesta sociale. Con un suo stile classista, dal basso, nazionale più ancora che napoletano.
Di recente anche Bossi, l’immarcescibile ministro padano, si è voluto esibire con il nobile suono della Terronia, ma il suo gesto è stato un fiasco sotto il profilo acustico, al punto che avrebbe meritato un riscontro di eguale entità da parte di un napoletano doc, ma gli è stato risparmiato tenuto conto della sua incapacità di intendere e di volere.

martedì 4 settembre 2012

LA PUNIZIONE FUORI DAL CARCERE



Incrementare le misure alternative



A fine settembre il Parlamento dovrà decidere sul decreto legislativo riguardante la penosa situazione della Giustizia, ma soprattutto dovrà cercare un rimedio all’esplosiva situazione dei penitenziari con la prepotente urgenza del sovraffollamento, con un surplus attuale di 23.000 detenuti.Una situazione più volte sottoposta dal Presidente Napolitano all’attenzione dei politici e dell’opinione pubblica, senza sortire alcun effetto, mentre continuano a fioccare senza sosta le sanzioni europee, somme notevoli che vanno ad aggiungersi ai 250 euro di costo giornaliero per lo Stato per ciascun detenuto, di cui appena 12 centesimi destinati ad attività di recupero, mentre dall’inizio dell’anno vi sono stati 37 suicidi e 5.073 gesti di autolesionismo.
Mancano i fondi? Niente affatto! Sono stati mal adoperati per incompetenza e per corruzione.
Come si spiegherebbe altrimenti che sono stati elargiti 110 milioni di euro alla Telecom per realizzare solo 14 braccialetti elettronici?
Da tempo il dibattito anima le pagine dei giornali, inoltre sono numerosi i libri di esperti che cercano di identificare nella pena, non solo una necessaria espiazione, ma anche un mezzo per preparare il detenuto a reinserirsi nella società, redento e pronto a procacciarsi da vivere attraverso l’onesto lavoro.
E’ una nobile battaglia di idee tra chi considera utile la reclusione e chi vuole abolirla, riaprendo la diatriba che parte da Beccaria per arrivare a Foucault.
Partirei da “Detenuti” di Melania Rizzoli, che fotografa una galleria di personaggi famosi e da “Il perdono responsabile” di Gherardo Colombo. Fondamentale poi “Perché punire è necessario” di Winfried Hassemer ed “Il collaboratore della giustizia penale” di Vittorio Mathieu.
Abbiamo citato i titoli più importanti, ma la bibliografia è vastissima, segno dell’attenzione della cultura allo spinoso problema.
Una notizia clamorosa che è passata sotto silenzio dalla stampa è che per la prima volta i magistrati in tirocinio, nella didattica della nuova scuola di magistratura, saranno obbligati a vivere in prima persona l’esperienza del carcere per alcuni giorni ed alcune notti. Una novità travolgente che permetterà di valutare come va vissuta la pena.
Per Montesquieu o Beccaria la pena viene riconosciuta come un “ male necessario ad impedire al reo dal fare nuovi danni ai cittadini ed a rimuovere gli altri da farne eguali” (Beccaria – Dei delitti e delle pene – 1764).
Concetti oramai superati dai nuovi operatori della giustizia che affermano perentoriamente come il carcere, se risposta esclusiva a qualunque violazione, si riveli inutile e controproducente, divenga scuola di criminalità, non riesca a fare scendere il tasso di recidiva e, all’uscita, restituisca più insicurezza di quanta ne abbia imprigionata all’entrata.
Un’intuizione che già Michel Foucault nel suo celebre “Sorvegliare e punire” aveva stigmatizzato sottolineando che la detenzione, producendo l’effetto di rinnovare e moltiplicare i comportamenti delinquenziali aveva tradito la sua principale finalità.
Gherardo Colombo sottolinea come il concetto del perdono sia il presupposto per una possibilità di collegare alla trasgressione il recupero. Colombo è convinto che far male insegni solo a far male e la sofferenza imposta serve solo a produrre obbedienza anziché consapevolezza.Ai reclusi spesso il nostro sistema carcerario non toglie solo la libertà, ma anche la dignità. E questo non solo per ragioni affettive come il sovraffollamento, l’assenza di riservatezza per le necessità e la cura del proprio corpo, l’inedia e l’ozio coatto che non consentono di esprimersi in una qualche attività in cui poter riconoscere le proprie capacità, ma anche per una serie di micro umiliazioni inflitte ai detenuti che devono subire per non compromettere il loro curriculum di buona condotta che li priverebbe di quei piccoli vantaggi ad essa connessi. E qui viene da pensare che molti suicidi in carcere, che accadono frequentemente nell’indifferenza generale, non siano da imputare solo alla soppressione fisica della libertà, ma anche e soprattutto alla perdita di dignità, che fa percepire la propria vita come insignificante.
Se la perdita della libertà è inevitabile, quella della dignità è una pena supplementare che può e deve essere evitata, educando il personale carcerario ed affidando a tutti i detenuti un’attività occupazionale.
Se lo scopo della detenzione non è solo quello di scontare una pena, ma anche il reinserimento, come solennemente sancito dal dettato Costituzionale, dobbiamo considerare i detenuti come persone degne di rispetto al di là del reato commesso.
Non si tratta di illusioni, ma costituivano l’anima ed il motore di progetti bipartisan di riforma del codice, come le commissioni ministeriali Nordio nel 2005 e Pisapia nel 2008, che, per i reati di minor allarme sociale, prevedevano lavori di risarcimento e servizi alla comunità.Alla fine di settembre in Parlamento si discuterà un decreto delegato sull’argomento, speriamo con serenità e ragionevolezza, e noi ci permettiamo di suggerire alcuni emendamenti quali: il computo per l’applicazione dei mesi di premio fin dal momento dell’ingresso in carcere, così da poter giungere presto ai benefici, senza dimenticare la possibilità di telefonare quando si vuole, come accade in tutta Europa, e di poter utilizzare Internet e Skype.