lunedì 19 marzo 2012

Aniello Falcone, l’indiscusso oracolo delle battaglie

8/6/2007


Il costante interesse di Aniello Falcone per la grafica ci testimonia, al di là del racconto del De Dominici, che anche lui fu a bottega dal Ribera per qualche anno prima di divenire a sua volta punto di riferimento certo per numerosi suoi allievi.
Pittore, anzi Oracolo di battaglie, di soggetti sacri e profani, di tele a passo ridotto e secondo le fonti anche di natura morta, il Falcone è una complessa personalità che attende ancora dalla critica una corretta valutazione ed una consacrazione più adeguata al suo ruolo di caposcuola.


Giovanissimo, la sua pittura manifesta elementi di naturalismo di derivazione riberiana combinati con suggestioni derivanti dai Bamboccianti, attivi con successo a Roma, ma notevole è anche l’influenza del Velazquez, che il Falcone conosce a Napoli nel 1630 e dal quale apprende l’essenzialità del racconto ed i sottili giochi di luce sulle armature dei soldati.
Negli anni successivi vi è una svolta nella sua produzione artistica, che si orienta verso il classicismo romano bolognese, per arricchirsi in seguito delle conoscenze della scuola neoveneta, della pittura del Grechetto, delle ricerche del Poussin e per ultimo, inevitabile a Napoli, per risentire dell’influsso di Massimo Stanzione e di Artemisia Gentileschi.


La grande notorietà del Falcone è legata alla pittura di battaglia, un genere che ebbe molto successo a Napoli nel Seicento, con una grande domanda da parte di una committenza laica e borghese ed una benevolenza da parte della Chiesa, con alcuni ordini, come i Domenicani, che richiedono agli artisti dipinti raffiguranti episodi di vittorie della Cristianità contro gli infedeli.
L’Oracolo fu il soprannome che si meritò il Falcone, autore  di un particolare tipo di battaglia senza eroi, estrema personalissima interpretazione del messaggio caravaggesco in cui la mischia è la vera dominatrice della scena, ove si esprime sovrana l’inestinguibile ferocia degli uomini, il tutto espresso con una tavolozza dai colori vivi e marcati, che danno l’impressione che il nostro artista abbia voluto con essi ricalcare l’asprezza dei combattimenti e l’animosità dei cavalieri.


Il suo successo internazionale fu favorito dall’opera di Gaspare Roomer, il suo mercante, grande collezionista d’arte, che inondò l’Europa con le sue battaglie, facendo crescere a dismisura la sua notorietà, il che gli permise di ottenere una prestigiosa commissione di una serie di tele con scene dell’antico mondo romano, oggi conservata al Prado. L’ordine gli fu affidato dal viceré, duca di Medina, per conto di Filippo IV e con lui collaborò la sua bottega quasi al completo: De Lione, Codazzi, Micco Spadaro, De Simone, nonché Cesare Fracanzano. Le tele seguendo un non ben identificato progetto iconografico, rappresentano l’apice del classicismo napoletano e risentono dell’influsso del Poussin e della sua cerchia romana.
Il riconoscimento e l’onore furono pari a quelli ottenuti alcuni anni prima da artisti del calibro di Lanfranco, Stanzione, Romanelli e Domenichino, chiamati ad abbellire il complesso del Buen Ritiro a Madrid.


Nell’ambito della pittura di battaglia molto ancora è il lavoro che la critica deve svolgere per datare con precisione molte tele e per discernere la produzione falconiana da quella di altri famosi battaglisti, quali il suo allievo De Lione, il Borgognone e lo stesso Salvator Rosa. 
Tuttora dibattuta è la questione di Falcone pittore di natura morta, che da taluni critici è stata sollevata, a tal punto che in passato si è creduto che potesse essere lui l’artista celato sotto la denominazione di Maestro di palazzo San Gervasio. Oggi questo anonimo pittore è ritenuto non più di area napoletana, per cui cade anche l’ipotesi che possa essere stato un frequentatore della sua bottega. Numerosi sono gli inserti di natura morta che si ammirano nei suoi quadri, anche molto belli come quello celebre del Concerto del Prado.
L’esame dettagliato delle sue opere ci permette di seguire gradualmente lo svolgimento della sua attività artistica.


La Maestra di scuola, già presso le prestigiose collezioni Spencer ad Althorp House e Wildestein a New York ed oggi finalmente a Capodimonte, è forse la sua opera più antica nella quale è tangibile, come già rivelò Longhi, la conoscenza del Velazquez e lo stile dei caravaggisti a passo ridotto.
Di poco successiva la Battaglia del Louvre, datata 1631, costituisce un’autentica silloge della pittura naturalistica del terzo decennio a Napoli.


Dopo il 1635 l’influsso del Grechetto, presente in città, mutò notevolmente lo stile del Falcone, tanto che il suo famoso Concerto fu a lungo creduto opera dello stesso Castiglione.
La Fuga in Egitto del Duomo di Napoli, firmata e datata 1641, ci rivela l’influsso stanzionesco, anzi più precisamente guariniano stanzionesco come ben rivelò il Causa, che nell’Elemosina di Santa Lucia di Capodimonte ravvisò “un unicum della pittura napoletana, quasi un Le Nain di più smagliante e decantata tessitura cromatica, oltre che di ben diversamente marcata qualificazione plastica”.


E poi il Martirio di San Gennaro nella Solfatara, ricordato dettagliatamente dalle fonti, solo da poco ricomparso sul mercato antiquariale ed oggi in collezione privata napoletana. Dipinto di eccezionale qualità, tra i più importanti del Seicento napoletano, per la monumentalità dell’impianto compositivo, per la definizione dei personaggi e per la ricchezza dei particolari.
Abile e prolifico come disegnatore, il Falcone è stato inoltre l’artefice a Napoli di numerose serie di affreschi: nel 1640 lavora nella cappella Sant’Agata in San Paolo Maggiore con risultati stilisticamente vicini alla Battaglia del Louvre; quindi esegue una serie di combattimenti e Storie di Mosè sulle pareti della villa Bisignano a Barra, in passato sfarzosa dimora estiva del suo mecenate Gaspare Roomer, il ricchissimo banchiere fiammingo, mercante di opere d’arte. Ed in tali affreschi, datati al 1647 e di recente riportati all’antico splendore, evidente è l’influsso del Poussin, a rafforzare l’ipotesi, in passato avanzata dalla critica, della presenza ispiratrice di numerosi lavori dell’artista francese nelle più famose collezioni napoletane. Il ciclo di affreschi con la Storia di Sant’Ignazio nella sacrestia del Gesù Nuovo, purtroppo gravemente danneggiati da un incendio del 1963, è collocabile nella piena maturità dell’artista entro il 1652 ed infine recentissima la scoperta nella chiesa di San Giorgio Maggiore, nascosto per quasi tre secoli dietro vecchi teloni settecenteschi di uno splendido affresco raffigurante San Giorgio che, in groppa ad un cavallo impennato, lancia alla mano, affronta ed uccide il perfido drago.

La bottega del Falcone, in cui dal 1638 si tenne anche una vera e propria accademia di nudo, fu fucina di talenti e frequentata da quella folta schiera di artisti che divennero specialisti nella tematica del martirio dei santi a figure terzine, nei capricci architettonici, nei quadri di paesaggio e di battaglia e, secondo studi recenti, fu importante anche per la nascita e lo sviluppo della natura morta napoletana, perché frequentata oltre che dal Porpora, anche da Luca Forte. Un gruppo molto unito sia sul lavoro che fuori di esso, intrecciato da rapporti di amicizia e di parentela e che, secondo il fantasioso racconto del De Dominici organizzò nei giorni antecedenti la rivoluzione di Masaniello la cosiddetta Compagnia della morte, una setta segreta sorta con lo scopo di vendicarsi degli spagnoli che avevano abusato delle giovani donne napoletane.
Numerosi erano gli artisti che componevano questa allegra e variegata brigata: Andrea ed Onofrio De Lione, Carlo Coppola, Niccolò De Simone, Salvator Rosa, Marzio Masturzo, Domenico Gargiulo, Paolo Porpora, Giuseppe Marullo, Cesare e Francesco Fracanzano, Andrea e Nicola Vaccaro e il bergamasco Viviano Codazzi. I componenti di questo gruppo avrebbero,”armati di spada e di pugnale”, vendicato i torti subiti dalle giovani pulzelle napoletane, mentre di notte”ritirati in casa a dipingere con forza di lume artificiale, per lo quale Carlo Coppola ne restò cieco” (De Dominici).
Il racconto del biografo settecentesco è molto probabilmente inventato o quanto meno esagerato, però testimonia dello spirito di corpo che animava questo gruppo di pittori, che lavorava in un settore non trascurabile della committenza laica cittadina, che richiedeva in gran copia quadri di genere, stanca di soggetti religiosi e devozionali.

Foto di Dante Caporali

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