mercoledì 21 marzo 2012

Bernardo Cavallino, il pittore poeta

9/11/2007


Bernardo Cavallino (Napoli 1616 - 1656) è il più napoletano tra i «nostri» pittori, nato e morto nella capitale vicereale, luminosa stella cadente nel firmamento della pittura non solo partenopea, ma italiana, europea, del suo secolo, ed oltre, fino ai nostri giorni.
Anche i suoi maestri ed i suoi ispiratori più significativi, da Stanzione ad Andrea Vaccaro, sono l’espressione più genuina della napoletanità. La sua vita si consuma in un breve lasso di tempo, come la sua frenetica attività, durata poco più di un ventennio, per fermarsi nel 1656, anno della peste. Nessuna notizia di viaggi di istruzione fuori da Napoli, non pervenutaci una produzione grafica, che pur dovette esistere ed essere cospicua, assenza di qualsiasi informazione riguardo l’esistenza di una bottega o di allievi. Le poche cose che sappiano sulla sua vita le dobbiamo al De Dominici, come sempre condite da molti particolari fantasiosi. Il biografo settecentesco, pur includendolo tra gli allievi di Stanzione, gli dedica un capitolo a sé stante, avendo intuito l’autonomia del suo linguaggio e la grandezza della sua arte, della quale fu il primo estimatore.

De Dominici narra, e bisognerà crederci, che nel 1640, quando giunse a Napoli, presso la dimora del banchiere Roomer, il celebre «Banchetto di Erode» del Rubens, il Cavallino fu tra quelli che più ammirarono la grande opera «e tanto bella gli parve, che quasi incantato dalla magia di que’ vivi e sanguigni colori, con meravigliosa maestria adoperati, si propose imitarla».

Oggi la critica riconosce più di ottanta dipinti al Cavallino, pochissimi siglati, uno soltanto firmato e datato, 1645, la Santa Cecilia, che funge da spartiacque tra l’attività giovanile e la maturità dell’artista. I pochi elementi certi sulla sua vita, frutto di ricerche d’archivio, ci fanno apparire il pittore come una figura ancora misteriosa, eppure tanto vicina alla nostra moderna sensibilità per la sua lettura laica dei fasti e dei miti del passato, per l’indifferenza ad ogni remora chiesastica, osservanza liturgica o amplificazione devozionale. Egli rifiuta l’affresco, ed è attento ed appassionato lettore di storia antica e delle sacre scritture, così come del Tasso, di Ovidio e della letteratura mitologica. Le sue favole antiche si sublimano a riprova di una universalità atemporale dei sentimenti. I suoi soggetti sacri, santi o sante che fossero, sono umanizzati e ridotti, anche grazie alla sua pittura di piccolo formato ed a figure terzine, in chiave familiare, con nel volto il segno delle passioni umane, anche se sublimate dall’amore e dalla bellezza. Sacro e profano trovano così una sintesi ideale in un sottile e raffinato gioco di cadenze interiori.

Le sue sante, tutte espressioni di una terrena beatitudine, sono «fiorite come gemme di miniera, fiori di serra inattesi e sconosciuti, nella loro bellezza tutta profana» (Causa).
L’idea del martirio e della penitenza è sottintesa ad un malizioso compiacimento e venata da una appena percettibile punta di erotismo. Queste eterne bellezze mediterranee dal volto sensuale ed accattivante fanno mostra del loro martirio con indifferenza e con lo sguardo trasognato, incuranti degli affanni terreni e con gli occhi che, pur fissando lo spettatore, sembrano proiettati fuori dal tempo e dallo spazio. Dalle tele promana una dolcezza languida, serena, rassicurante, che ci fa comprendere con quanta calma queste sante, avvolte nelle sete rare delle loro vesti acconciatissime, abbiano affrontato il martirio, sicure della bontà delle loro decisioni, placando e spegnendo ogni sentimento e sensazione negativa quali il dolore, la sofferenza, lo sdegno ed esaltando la calma serafica, la serenità dell’animo, la certezza di una scelta adamantina. La pittura in queste immagini dolcissime e sdolcinate cede il passo alla poesia, che si fa canto soave anche nella rappresentazione delle «flessuose signorine napoletane del suo tempo e per le loro fogge lussuose, fresche di seriche gale o pingui di velluti, che la luce coglie furtiva come fiori dalla notte» (Ortolani).

Anche se incluso dal De Dominici tra gli allievi di Stanzione, il Cavallino fu influenzato nei suoi primi anni di attività dalle esperienze del Ribera, che già volgeva attenzione al nascente pittoricismo in area napoletana e da quelle del Maestro degli annunci ai pastori, con il quale collabora in qualche opera giovanile come nei pendants, già in collezione Gualtieri. Anche Aniello Falcone e la sua cerchia catalizzeranno gli iniziali interessi del Cavallino verso il naturalismo, pur al di fuori di qualsivoglia riferimento ad episodi di crudo realismo.
Le sue prime esperienze vanno ricondotte ad opere di grandi dimensioni e di moderata tensione naturalista, come il Martirio di San Bartolomeo di Capodimonte, l’Incontro di Sant’Anna con San Gioacchino del Museo di Budapest e l’Adorazione dei pastori conservata a Braunschweig; «ma lo scenario prediletto da Cavallino non è né quello dei duri campi di battaglia di Falcone, né quello dei torvi martirî di Ribera, ma è un ambiente rarefatto e raffinato dove figure regali elegantemente vestite ostentano i colli e le caviglie più snelle, dove le teste delicate si piegano graziosamente in avanti e si librano le mani dei danzatori, dove tutto si concentra sulle interrelazioni intensamente emotive delle dramatis personae» (Percy).
A partire dagli anni Quaranta il Cavallino, recependo gli esiti del neovenetismo in chiave grechettesca e gli insegnamenti impartiti dal Van Dyck attraverso il suo periplo tirrenico, propone soluzioni cromatiche più accese ed esaltanti, con un raffinato gioco di trapassi chiaroscurali e di luci risplendenti, in un getto veemente di bagliori improvvisi, che tagliano le forme in un lampeggiare di lame argentee, che sgorgano come in sogno in un’atmosfera irreale di estasi liriche espresse con una raffinata emotività.

Il colore, steso in maniera fine e ricercata e spesso esaltato dal rame adoperato come supporto, una scelta tecnica che giova ad ulteriori impreziosimenti cromatici, diventa il mezzo espressivo attraverso il quale l’artista si esprime in maniera personale.
La gamma cromatica, dai gialli dorati ai marroni profondi, dai serici azzurri agli iridescenti argenti, diventa un timbro originalissimo con il quale il Cavallino canta a pieni polmoni e si impone con aperta baldanza; e quelle stesse tinte che adoperate da altri producono appena un labile tintinnio, trasfuse nel suo pennello è come se acquisissero una prodigiosa cassa armonica che le perora e le avvampa.
La variazione di luminosità nella resa degli incarnati con ombre più trasparenti mostra gradualmente il passaggio dalle sue prime opere, intrise di tenebrismo, alla delicata tastiera cromatica della metà degli anni Quaranta, quando è collocata l’unica sua opera datata, la Santa Cecilia, che possiede una pennellata più fluida e l’abbandono dei fondali rigorosamente scuri in favore di quinte più rischiarate, contraddistinte da una modulazione tonale e da un trattamento delle ombre più delicato e traslucido.

«Il colore si impreziosisce in puri accenti lirici, carpiti da reconditi raggi all’ombra» (Ortolani), mentre l’artista tenta nuove corde e registri, prendendo ispirazione anche fuori della cultura napoletana da artisti come il Vouet, Poussin e Charles Mellin.
Le sue figure allungate, sinuose, dai volti teneri e patetici esprimono un’atmosfera raccolta e familiare, sospesa tra l’idillio e l’elegia. Giunto alla piena maturità il Cavallino ci fa dono di immagini delicatissime «di intenerita grazia sentimentale e di raffinata eleganza formale. Una pittura di solare luminosità, dalle tinte calde e preziose, dai modi eleganti e contenuti, che esprimeva ideali di raffinata grazia mondana e di una coltivata emotività» (Spinosa).
Nelle composizioni di questi anni il Cavallino è abile anche nel calibrare le figure nello spazio e nell’articolare gli sguardi ed i gesti dei protagonisti, che vengono spesso effigiati in pose teatrali, toccati da una luce dal timbro argentino ingegnosamente collocata allo scopo di accentuare gli effetti drammatici e riscattare volumetricamente l’immagine. Anche nel cromatismo vi è uno studiato contrasto tra l’uso di colori pallidi o brillanti e tonalità più sorde o terrose. Le ultime opere del Cavallino sono i tre piccoli rami oggi dispersi tra i musei di Mosca, Fort Worth e Malibu, il David e Abigail ed il Ritrovamento di Mosè conservati a Braunschweig e la spettacolare Giuditta con la testa di Oloferne del museo di Stoccolma. Queste ultime fatiche sono caratterizzate da un ulteriore allargamento della gamma cromatica: blu chiari e tersi, acidi timbri di verde pallido, rossi vivi, grigi argentei, gialli oro e tenui arancioni. «Le ombre cupe delle prime opere si sono gradualmente trasformate in ombre trasparenti e luminose ed il naturalismo di resa di figure ed oggetti è più leggero e più fluente nel tocco, ma non meno efficace» (Percy), mentre il registro espressivo acquisisce la massima individualità.
Il livello di rifinitura delle tele assume una compattezza di tessitura pittorica quasi vetrosa, da simulare la consistenza della porcellana, in una «visione di archetipi di irraggiungibile nitore», (Causa) in cui si prelude già al Settecento, al mondo dell’Arcadia e del melodramma.
Poi, all’improvviso, nel ’56 a Napoli scoppia la peste e Cavallino, assieme ad una intera generazione di pittori, scompare, mentre era nel pieno del suo svolgimento artistico, solitario uccello di paradiso, in volo verso le vette più alte dell’arte e della poesia.

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