sabato 10 marzo 2012

IL NAPOLETANO È UNA LINGUA, NON UN DIALETTO

Dedicato a tutti coloro che hanno continuato ad amare Napoli, nonostante tutto

Tempo fa un europarlamentare napoletano, Enzo Rivellini, ha pronunciato un discorso a Strasburgo, ad una seduta dell’europarlamento, in perfetto vernacolo, scatenando il panico tra gli interpreti e lo stupore dei colleghi. Intervistato dalla stampa internazionale candidamente ha affermato che il napoletano non può essere assolutamente considerato un dialetto, bensì una lingua a tutti gli effetti, con la sua grammatica e la sua letteratura ed, aggiungeremo noi, con un suo patrimonio canoro conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo, grazie ad alcuni celebri ambasciatori, tra i quali, negli ultimi anni, il compianto Pavarotti.

Migliaro - Primavera

La parlata di Basile, di Viviani, di Eduardo non è certo sottocultura, perché essa è stata definita nei secoli da Vico ”lingua filosofica”, da Galiani ”il volgare illustre d’Italia degno degli ingegni più vivaci”, da Croce “gran parte dell’anima nostra” senza parlare della poesia animata da vivacità e fantasia, passione ed amore, in grado di essere intesa anche da chi non ne riconosce correttamente le parole.
Sarebbe quanto mai opportuno che a Napoli finalmente si pensasse ad un museo della canzone partenopea, il quale, con gli opportuni ausili audio visivi, riesca a preservare per le future generazioni un patrimonio inestimabile da Bovio e Caruso a Di Giacomo, Viviani, Murolo, Bruni, fino a Pino Daniele e gli Almamegretta.
Ed in attesa che le istituzioni si muovano, un ottimo spettacolo “Novecento napoletano” gira da anni per i teatri di tutta Italia.
Esso ricapitola, con rigore filologico in tre ore di musica, la ricca tradizione della canzone popolare napoletana, la cui produzione raggiunse l’apice nella seconda metà dell’Ottocento, per decadere tristemente con la seconda guerra mondiale.
Di fronte allo spettatore si apre una messinscena complessa con oltre cinquanta interpreti ed una sontuosa coreografia ricostruita grazie alle opere di artisti come Scoppetta, Matania e Dal Bono.
Il musical debuttò al Politeama nel 1992 e per anni ha incantato le platee di Tokyo, Parigi e Buenos Aires.
L’insieme di emozioni, atmosfere, ricordi, poesia diventa repertorio popolare di una napoletanità autentica e rituale e ci permette di apprezzare la festa di Piedigrotta, le folli corse dei fuientes, la forza espressiva della sceneggiata, le figure mai dimenticate del pazzariello e dei posteggiatori e soprattutto il dramma dell’emigrazione, che in alcuni decenni ebbe la dimensione di un vero e proprio genocidio dimenticato, con milioni di uomini e donne che partivano dal porto di Napoli con i famigerati bastimenti, carichi di disperazione e di nostalgia, di ansia di riscatto e di antica dignità.
La tradizione canora partenopea costituisce il cuore della napoletanità, una sorta di preghiera accorata e rappresenta una perfetta simbiosi tra ragione e sentimento, infatti essa piace a tutti, ben oltre le distinzioni sociali, economiche e culturali.
Costituisce una straordinaria tradizione con un infinito repertorio da sempre ispirato a Napoli, la grande città di luci e tenebre, di miseria e nobiltà, di amori solari e sconfinate malinconie, di passioni struggenti e di ardenti rancori, di incredibili generosità e di penose furberie. La canzone napoletana con la sua lingua universale nasce dal coagulo di opposti elementi, dal luminoso inno al sole al reverenziale timore del magma di lava e di fango, rappresentando perfettamente gli stati d’animo di coloro che sono nati all’ombra del Vesuvio e sanno di poter contare su di un patrimonio musicale sempre vivo e vivace.
La canzone attraverso i suoi interpreti ha raccontato la storia della città, soprattutto a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, con melodie indimenticabili come Africanella, ‘A marina ‘e Tripule, ‘A retirata, ‘O surdato nnammurato, fino a Tammurriata nera e Maradona è meglie e Pelè.
La straordinaria diffusione internazione ed il successo planetario della canzone napoletana ha ricevuto conferma nel corso dei concerti in mondovisione tenuti dai tre celebri tenori Carreras, Domingo e Pavarotti, che hanno eseguito ad un pubblico di oltre un miliardo di telespettatori, brani della tradizione partenopea da ‘O sole mio a Funiculì funiculà, riscuotendo ovazioni memorabili.
Un altro terreno fertile che ci permette di apprezzare la nobiltà del napoletano sono i numerosi proverbi, frammenti di saggezza antica, come li definiva Aristotele, che mettono in evidenza come il napoletano sia una lingua, non un dialetto, con la sua grammatica e la sua letteratura, ma come tutti gli idiomi ha debiti verso le parlate precedenti, principalmente il latino. Per molti proverbi napoletani corrisponde un’antica dizione nella nobile lingua di Cesare e di Cicerone.

Concertino popolare

Nel folclore napoletano, pregno di filosofia e di sentenze ammonitrici esiste un immenso patrimonio di modi di dire, spesso in rima, frequentemente dedicati alla donna, che rappresentano l’espressione di una civiltà prevalentemente contadina. Questi motti sono assurti a dignità letteraria soprattutto nel Seicento ed affrontano con occhio bonario le infinite sfaccettature dell’esistenza e per la donna esaltano i piaceri ed i dolori della vita coniugale, le tentazioni della carne, il rapporto con i figli ed il marito, il rispetto di un ferreo codice morale. _ Alcune immagini posseggono un’icastica potenza, mentre il linguaggio, spesso scollacciato e pittoresco, garantisce una meditazione comica ed accattivante. _ Dagli adagi napoletani traspare, rispetto a quelli toscani, un’impostazione più benevola e meno graffiante ed una maggiore considerazione delle qualità muliebri, dall’illibatezza alla fedeltà, dal maternità alla riservatezza.
La lingua napoletana non è altro che il volgare latino della regione, come il toscano per la Toscana, al quale si sono poi sovrapposte le parlate degli invasori. _ Una vera novità, infatti basta sfogliare qualsiasi vocabolario etimologico del nostro vernacolo per constatare come per la maggior parte delle parole sia stata ipotizzata una radice spagnola o francese.
Proviamo a recuperare per molti proverbi e modi di dire napoletani l’etimo latino, partendo da alcuni esempi che risalgono alla Bibbia come ” qui parcit virgae, odit filium suum”, che in napoletano recita” chi se sparagna ‘a mazza, nun vò bbene ‘e figlie” ; chi non educa i figli non vuole il loro bene oppure “A àceno a àceno s’appara ‘a macena” un detto derivato da “ multae guttae implent flumen” che in italiano vuole ammonire che le cose importanti si fanno con pazienza, una virtù sconosciuta ai giovani di oggi.
Sorprendenti i collegamenti con Totò, che nella sua celebre canzone Malafemmena diceva ”te voglio bene e t’odio” come Catullo diceva della sua Lesbia “odi et amo” ed addirittura il concetto espresso nella sua più famosa poesia “a morte è ‘na livella”, già espresso dal poeta Claudiano due millenni prima nel De raptu Proserpinae “omnia mors aequat”.
Ed infine una miscellanea di detti sulla donna: “ ’a femmena aggraziata vo’ essere priata”, “ ‘a femmena bona si è tentata e resta onesta nun è stata bona tentata”, “ femmena baffuta sempe piaciuta”, “ chi nun è buono p’’Re nun è buono manco pe’ me”, “ ‘o buono marito fa ‘a bona mugliera”, “ essere nu figlio ‘e bona mamma”, “ essere corta e male ‘ncavata”, “ si ‘e vase facessero pertose ‘e facce d’’e guaglione sarriano gratta case”.
Al fianco dei proverbi, che furoreggiarono nel Seicento, gli indovinelli caratterizzarono il Settecento, secolo della grazia arcadica e della saggezza sottile. Gli autori anonimi di questi indovinelli, sempre segnati da umorismo e spensieratezza, furono più letterati che popolani, ma danno l’esatta misura di quella prorompente fantasia e di quella innocua malizia che ha sempre contraddistinto lo spirito e l’anima immortale della napoletanità.

Locandina Piedigrotta

Ne citiamo qualcuno breve:

“tutt’efemmene ‘a teneno sotta, 
chi ‘a tene sana e chi ‘a tene rotta 
chi ‘a tene doie dita 
chi a tene quatt’ dita” 
(la piega inferiore della veste) 
“papa ‘o ‘ntosta_ e mamma l’ammoscia” 
(il sacco di farina) 
“ tuosto e liscio o calai 
cavere e muscio mo tirai 
‘ncuorpo mammete so chiavai” 
(il maccherone)

Considerazioni che mettono in evidenza l’importanza delle tradizioni napoletane e che deve ammonirci a conservare il nostro passato e i nostri dialetti, anche se tutti dobbiamo oramai parlare la stessa lingua, con buona pace di Bossi e dei suoi scriteriati colonnelli.
Un’altra caratteristica pregnante del vernacolo è la presenza di molte parole onomatopeiche, cioè termini che già dal suono rendono l’idea dell’oggetto rappresentato, come il cannarone, che dà la chiara sensazione del passaggio dei liquidi o, volendo essere un poco trasgressivi, la osannata pucchiacca, una vera e propria melodia di rumore.
Vorrei approfittare di questo capitolo dedicato alla lingua per cercare di dirimere un’antica questione: singolare o plurale, Borbone senza pace. Forse la discussione esula dalla napoletanità, ma la necessità di fare chiarezza sul nome di una dinastia che per tanto tempo è stata arbitra dei destini del sud, mi farà perdonare le mie considerazioni.

Carlo di Borbone

La recente scomparsa di Alfonso Scirocco, celebre storico specialista di alcuni protagonisti del nostro Risorgimento, mi ha fatto tornare alla mente la sua partecipazione, alcuni anni orsono, in veste di relatore, nel salotto culturale di donna Elvira, quando, nel corso del dibattito, gli fu posta la domanda se lui ritenesse più corretta la dizione Borbone o Borboni ed il professore, senza esitazioni, si pronunciò per la forma al plurale. _ Un parere in linea con quello del professor Galasso, come ebbi modo di constatare nel corso di una presentazione di un libro alla Saletta rossa Guida a Portalba, mentre Paolo Mieli, allora direttore del Corriere della sera, sposava la tesi del singolare. _ Ne seguì un colto articolo sul Mattino di Titti Marrone, presente come moderatrice, molto equilibrato, che aveva una conclusione equidistante tra le due ipotesi.
In seguito ebbi il privilegio di accompagnare come guida Umberto Eco in una visita al museo di Capodimonte e così approfittai per chiedere il suo parere, che fu decisamente per il singolare. _ Convenimmo di comune accordo che Benedetto Croce era all’origine di questa confusione, perché aveva scritto sull’argomento più volte adoperando il plurale.
Spesso viene citata una lettera di Ferdinando II con la firma Borboni, naturalmente non fa testo, ben conoscendo il livello culturale del sovrano, come pure la lunga disquisizione sulle famiglie europee che acquisiscono la dizione Bourbon al plurale, essendo nozione elementare che alcune lingue, ad esempio inglese o francese, a volte hanno il plurale per i cognomi, errore gravissimo per l’italiano.
A conferma di ciò che pensavo richiesi tempo fa un parere all’ancora attiva ed autorevolissima Accademia della Crusca, la quale si espresse senza esitazioni per la forma singolare, conclusioni che comunicai alla stampa e pubblicata da numerosi giornali, anche non napoletani.


Kauffmann - La famiglia reale di Napoli

Nonostante questa autorevole dichiarazione, che dovrebbe chiudere definitivamente la questione, sono certo che la lunga diatriba linguistica continuerà certamente immutata, avendo sulle opposte sponde autorevoli personaggi, da un lato i professori Scirocco e Galasso, dall’altro Mieli ed Eco e troverà una soluzione definitiva solo nel tempo, essendo l’italiano una lingua viva, come il napoletano, che macina lentamente le parole.

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