lunedì 19 marzo 2012

La grafica napoletana seicentesca

21/9/2007


A differenza della pittura, che ha raggiunto grande successo e notorietà in tutta Europa, la grafica napoletana è stata a lungo negletta dalla critica, per cui era parere consolidato tra gli studiosi che il disegno in tutta l'area meridionale non si fosse mai espresso ad alti livelli, tanto da superare appena un modesto discorso di cronaca locale.
In parte questa minore propensione verso il disegno dipendeva anche dalla circostanza che i nostri pittori, più che un modello cartaceo, erano usi predisporre, per le opere più impegnative, un bozzetto che nel gergo era denominato macchia, ed era questo che veniva proposto al committente per l'approvazione.
Di questa abitudine ci è data conferma dal racconto del De Dominici: "il dipinger i bozzetti, che da noi macchie vengon nominate è la sicura scorta a ber condurre l'opera".
Della predisposizione psicologica a bruciare le tappe da parte dei nostri artisti ci soccorre la testimonianza di un biografo forestiero, il Passeri: "li pittor napoletani non sono molto dediti, per proprio costui me, ad una lunga applicazione al disegnare, ma prim del tempo, a dar di mano alli pennelli, et alli colori come essi dicono a pintar".
Ad un disinteresse degli artisti corrispondeva, forse ne era la causa, una scarsa attenzione da parte dei collezionisti, a parte poche eccezioni, tra cui degne di nota per ricchezza e rappresentatività le raccolte Crozat e del Mariette, due raffinati intenditori stranieri innamorati del nostro disegno.
Il Crozat possedeva trentuno disegni del Ribera, diciassette di Luca Giordano, sedici del Solimena, cento di Salvator Rosa e addirittura duecento di Filippo Napoletano. Nella raccolta vi erano inoltre opere Preti, del Corenzio e del De Matteis.
Altra prestigiosa collezione fu quella del Meriette, che possedeva una miscellanea completa della nostra grafica antica, dal Corenzio e dal Santafede fino agli ultimi allievi del Solimena, per un totale oltre cento esemplari rappresentativi di ventiquattro artisti. 
Presso il cardinale Leopoldo De' Medici, come ci riferisce il Baldinucci, si trovavano accanto a disegni del Corenzio, del Santafede e di Filippo Napoletano, ben diciassette fogli dello Spinelli, quasi tutti firmati o siglati, a conferma di un'autonomia che l'artista riconosceva alla sua opera grafica.
Nella stessa famosa collezione di Filippo Baldinucci erano rappresentati soltanto tre artisti napoletani: Ribera, Falcone e Salvator Rosa, ma non bisogna meravigliarsi di questa scelta che può sembrare riduttiva, perché questi tre pittori sono ancora oggi i riconosciuti epigoni, che ben illustrano il livello della nostra grafica.
Su questa situazione, sulla quale aveva inciso senza dubbio il carisma del Caravaggio, forgiatore della nostra pittura seicentesca, del quale è notoria l'avversione per il disegno, si era steso un velo d'oblio, a stento squarciato da qualche intervento marginale del Voss e del De Rinaldis, autori di qualche volenteroso contributo al disegno napoletano in età barocca.
E bisogna giungere alla grande mostra del 1938, tenutasi a Castel Nuovo, per vedere una intera sala dedicata alla grafica, con 72 fogli riferentisi ai tre fatidici secoli ai quali la rassegna era consacrata.
Le opere provenivano, salvo qualcuna privata, da importanti collezioni pubbliche: la Società di Storia Patria, il museo di San Martino e l'Accademia di Belle Arti.
La rassegna, pionieristica, fu possibile grazie all'impegno di Roberto Pane, ma non diede i fecondi risultati che tutti auspicavano, perché fu seguita dai tristi avvenimenti della guerra, che produsse il criminale bombardamento sul Maschio Angioino, col crollo della torre ove si trovavano le cartelle con i disegni della Società di Storia Patria, che rimasero per mesi seppelliti sotto l'infuriare della pioggia e si salvarono, anche se in parte distrutti ed in parte danneggiati, grazie alla perseveranza ed all'abnegazione di Alfredo Parente. Il materiale salvatosi fu in ogni caso precluso all'attenzione degli studiosi per oltre un decennio.
La conoscenza dei disegni dei maestri barocchi a Napoli e nell'Italia meridionale deve moltissimo all'opera meritoria di un italiano naturalizzato, Walter Vitzthum, che ha fatto della nostra grafica il campo preferenziale dei suoi studi, conducendo per decenni quotidiane ricerche presso le principali raccolte pubbliche e private in ogni angolo della terra, coniugando mirabilmente la sua tenacia teutonica con l'amore sviscerato verso il nostro disegno.
Negli anni Cinquanta una ripresa di interesse fu rappresentata dall'inizio di un lavoro di classificazione e di restauro del patrimonio grafico del museo di San Martino, che, con periodicità mensile, fu oggetto di dodici piccole mostre, volute dal Causa a cui fecero seguito negli anni Sessanta due importanti esposizioni tenutesi negli Stati Uniti, ad ulteriore dimostrazione della crescente importanza riconosciuta dalla critica internazionale alle nostre tradizioni grafiche.
Queste rassegne si svolsero a Sarasota in Florida nel 1961, presso il Ringling Museum, a cura di Creighton Gilbert e l'anno successivo a Bernard Castel, nel Bowes Museum a cura di Tony  Ellis.
Le opere presentate furono poi oggetto di un'accurata analisi filologica e di profonde riflessioni da parte del Vitzthum sulle prestigiose pagine della rivista Napoli Nobilissima, puntuale testimone degli sviluppi delle nostre arti figurative, fondata dal Croce nel 1892.
L'impegno a far riemergere dall'oblio dei secoli il cospicuo materiale grafico conservato nel museo di San Martino è stato proseguito, scomparso il Causa, dalla moglie, la professoressa Marina Causa Picone, alla quale da pochi anni è stata assegnata anche la prima cattedra universitaria di storia del disegno, al corso di Conservazione dei beni culturali istituito presso il Suor  Orsola Benincasa.  Un lavoro immane di schedatura e catalogazione che ha impegnato ed impegna la studiosa, solo da poco affiancata in questa impresa titanica da una giovane storica dell'arte, Rossana Muzii.
Volendo percorrere ora, anche se brevemente, una cronistoria degli sviluppi del disegno prima dell'arrivo a Napoli del Caravaggio, dobbiamo come al solito partire dal 1600, un termine cronologico che ci siamo imposti di rispettare in questa nostra rassegna, un inizio di secolo che vede soltanto quattro artisti con una produzione grafica tale da giustificare la nostra attenzione. Essi sono Francesco Curia, Belisario Corenzio, Giovanni Balducci e Giovan Battista Caracciolo.
Del Curia di recente è stato identificato un vasto gruppo di disegni a Stoccolma, che ci ha permesso di apprezzare le caratteristiche dello stile grafico dell'artista, il più colto ed il più raffinato dei manieristi napoletani, "l'unico pittore di interesse e di stimolo prima che l'arrivo del Caravaggio facesse di colpo sparire tutta una generazione di paccottiglia partenopea" (Vitzthum).
Egli si differenzia nel disegno nei riguardi del prolifico Belisario, dalla più alta quotazione, infatti «là dove Corenzio decora a larghe pennellate, inchiostrature, senso della composizione. Curia quasi si chiude in fini cesellature di segno, riuscendo a raggiungere un suo stile ben differenziato e personale. elegante ed aristocratico ... figure arrotondate, grazia nella composizione, occhi a punta di spillo» (Causa Picone).
Il Balducci è più rappresentato, ma la sua opera grafica, incompletamente collocata cronologicamente, è meno significativa per gli sviluppi delle arti figurative napoletane, perché egli è presente in città da poco prima del 1600.
Il Corenzio possiede viceversa una cospicua produzione, già a partire dal 1580, che richiede ancora un'opera di definitiva classificazione, perché alcuni lavori sono confusi sotto la paternità di altri artisti.
Nella sua straripante produzione si distingue una fase manieristica, più antica, quando è difficile distinguerlo dai disegni del fiorentino Balducci, seguita da un periodo riformato, caratterizzato da larghe pennellate acquerellate in azzurro.
Il Caracciolo fu l'unico pittore che, nonostante l'incontro con il Caravaggio, conservò immutato il suo interesse per la grafica.
Per molto tempo l'unico foglio che la critica gli assegnava con certezza era uno studio di tre figure maschili, conservato nel cabinet des dessins del Louvre. In seguito, proveniente dalla collezione Tessin, fu individuato un cospicuo gruppo di disegni che potevano essergli attribuiti, di proprietà del National Museum di Stoccolma.
Secondo il De Dominici una fonte ispirativa fondamentale per il Caracciolo fu Annibale Carracci, dal quale egli derivò in maniera cristallina nei disegni a carboncino una semplicità grafica ed una nettezza nel tratto, che è privo di complessità calligrafica. Negli anni giovanili il Caracciolo si espresse con una tecnica che faceva uso del tratteggio, mentre negli anni della piena maturità il suo ductus divenne dolce ed appena accennato, pur senza perdere il vigore che egli espri¬meva nel delineare le figure, pregne di forma ed emananti una forza scultorea.
Del Caravaggio, indiscusso maieuta della nostra pittura, e della sua ostinata avversione al disegno, parlano senza ombra di dubbio i suoi dipinti, pieni di pentimenti e carichi di violenza realistica e di esasperati giochi di luce una caratteristica che lo accomuna ad un altro grande nel panorama figurativo napoletano, punto fermo di riferimento per gli altri artisti non solo per la pittura, ma anche per le arti grafiche: il Ribera. che nella sua bottega pontificò per decenni il culto della verità tenendo alta la fiaccola del caravaggismo, fino alle soglie del barocco.
Per il Ribera l'interesse per il disegno fu una costante che accompagnò tutta la sua attività e la sua produzione grafica costituendo un modello per un'intera generazione di artisti napoletani, fino al suo ultimo e più geniale allievo: Luca Giordano.
Egli adoperò un poco tutte le tecniche a disposizione, dalla penna al lapis, dalla matita alla sanguigna, eseguendo studi di figure e di particolari, come pure intere composizioni.
Il valenzano eseguì nei quaranta anni di permanenza nella nostra città un grande numero di disegni. molti dei quali ci sono pervenuti, tra cui nel 1622 una serie di tavole con illustrazioni anatomiche.
Egli fu molto attento nelle sue figure a delineare attentamente espressioni e gestualità. La sua attività grafica fu del tutto autonoma, infatti ben pochi disegni possono associarsi ai suoi dipinti.
I suoi fogli sono tutti di elevata qualità ed evidenziano l'assoluta maestria e la collaudata sicurezza di chi si serve assiduamente della penna o della matita. Studi rifiniti con effetti di morbido chiaroscuro, di grande libertà espressiva e tematica.
Il De Dominici era proprietario di numerosi disegni del grande spagnolo, del quale ci descrive la maniera con cui usava la penna, a larghi tratti senza sollevare la mano dalla carta, eseguendo teste allungate dalla chioma sottile e leggera il cui principale valore è nella espressione. Il biografo settecentesco non fu l'unico a lodare l'artista per questa sua attitudine, perché anche altre fonti storiche sottolineano la sua attività di disegnatore indefesso ed avvalorano, a sostegno delle loro tesi il grande successo che il Ribera incontrò tra i collezionisti della sua grafica.
Il ductus caratteristico del Ribera, che ci permette di distinguere i suoi lavori, è evidenziabile nei rapidi tratti di contorno continuamente interrotti e contorti, il cui esempio più esplicativo si può osservare nel foglio di «Apollo e Marsia», eseguito a penna ed inchiostro nero, conservato a Roma all'Accademia nazionale dei Lincei. Questa grande abilità del Ribera nell'uso velocissimo della penna fece esclamare ad un suo celebre studioso ed estimatore, il Brown: "Produce linee irregolari che pulsano come se fossero caricate elettricamente".
Dalla costola del Ribera si dipartono le esperienze di due artisti, Domenico Gargiulo e Salvator Rosa che, pur compagni a lungo nella stessa bottega falconiana, nella grafica esprimono di Napoli, dei suoi abitanti e del suo panorama due posizioni diverse, quasi antitetiche: l'uno spinto alla rappresentazione di una cronaca quotidiana spesso spietata che vede nei suoi disegni e nei suoi schizzi nervosi il preciso illustratore, ma anche l'acuto testimone di tante ingiustizie, mentre l'altro, pur lontano dalla sua patria, mai dimenticata e sempre amata, conservò nella mente e nel cuore i suoi ammalianti panorami, i suoi tramonti scintillanti, le coste. le isole, i paesaggi animati da piccole figurine che  richia¬mano un virgiliano clima bucolico.
Esteriorità ma anche accesa e scoppiettante fantasia, che il Rosa trasferì nei suoi fogli, spesso disegnati con creatività autonoma, accurati, sovente firmati o siglati. Non solo panorami e paesaggi, ma anche eroi ed animali fantastici che popolano prodigiose foreste abitate da streghe e folletti, infestate da serpenti, zeppe di fossili e di ricordi del passato. La sua grafica, più che la sua stessa pittura, trabocca dei risultati di una sfrenata fantasia, che non si stanca giammai e sempre ricerca nuove e meravigliose creazioni.
La grafica del Gargiulo fu presa in considerazione dagli studiosi la prima volta in occasione della mostra di Sarasota nel 1961 e si imperniava su un gruppo di fogli conservato presso la Cooper Union di New York. di cui uno era datato 1638, mentre altri provenivano dal Metropolitan Museum e dal fondi della Smithsonian Institution di Washington, che in passato aveva acquistato la collezione napoletana del Duque de Durcal. 
Nella monografia sull'autore, pubblicata nel 1994. vi è un ampio capitolo sulla grafica, in cui vengono presentati numerosi inediti ed un cospicuo gruppo di fogli conservato a Berlino nel Kupferstichkabinett, proveniente dalla collezione Pacetti.
Studiando gli esiti del Gargiulo ci si avvede, oltre che contatti con il Rosa, delle forti influenze riberiane anche in assenza di quelle caratteristiche sottigliezze calligrafiche. Egli ama una esecuzione scabra, senza fronzoli, con linee fortemente marcate, che definiscono rapidamente le figure con tratti sovrapposti. Micco "Scarnifica l'immagine, si tormenta nel segno nudo, interiorizzato, quasi ridotto all'osso, decalcificato nel suo esasperato accento intimistico. L'immagine desolata di una situazione popolare tristissima, il presagio di un dolore, di una miseria, di una condizione umana e sociale che egli persegue con la crudezza di una cronaca vera" (Causa Picone).
Salvator Rosa è senza dubbio il più prolifico disegnatore dell'età barocca, con oltre 800 fogli, con tecniche e formati diversi, che ci sono pervenuti. La sua produzione grafica è stata studiata in maniera esaustiva da critici stranieri quali il Wallace ed il Mahoney, autore nel 1965 di un ampio repertorio, che approfondisce in particolare i disegni eseguiti in funzione dell'utilizzo per l'incisione, attività alla quale l'artista si dedicò assiduamente nel settimo decennio del secolo.
Il Rosa, oltre a studi preliminari all'esecuzione di incisioni, soprattutto acqueforti, realizzò anche numerosi disegni  destinati ad essere venduti come opere d'arte indipendenti, nei quali amò rievocare quei misteriosi paesaggi, aspri di rocce e densi di vegetazione con alberi morenti ed i classici rami spezzati, animati da figure di eremiti e da candide creature di un irragiungibile epos virgiliano.
Egli si espresse con la più ampia libertà di esecuzione e pur riprendendo dal Ribera alcuni elementi, quali la rapidità del tratto e la semplicità del modellato, raggiunse apici sconosciuti al pur grande valenzano. Nell'acquerello, tecnica prediletta dal Rosa, riuscì ad ottenere effetti di luce di inusitata ampiezza; elevati livelli qualitativi gli erano altresì congeniali attraverso l'uso della penna e del gessetto. Fecondo ed apprezzato come incisore e come grafico, affidò alla diffusione dei suoi fogli gran parte della sua fortuna, che fu pari alla sua fama di pittore.
Il Falcone riveste una posizione centrale nel panorama della grafica partenopea, non solo per la sua ampia produzione, della quale ci sono pervenute molteplici testimonianze, ma principalmente per aver istituito nel 1636 per tre mesi presso la sua abitazione una vera e propria accademia di studio del disegno del nudo dal vero sulla falsariga di quelle esistenti in altre città italiane come Bologna, Firenze o Roma. Dell’argomento  è prodigo di informazioni il De Dominici che parla del suo "studio dell'accademia e dei buoni modelli per impossessarsi perfettamente del nudo" e "volentieri copiava alcune belle teste di Guido, di fresco venuto a Napoli, come si osserva da molte teste verginelle  disegnate su quello stile, la qual cosa troppo piaceva al Ribera". Una precisa testimonianza di un interesse profondo per il disegno, come espressione autonoma da parte di un artista napoletano. documentata  inoltre dal riferimento di un contratto stipulato con un modello.
Per il Falcone la pratica del disegno costituisce una essenziale esecuzione che lo impegna quotidianamente, sia per studi preliminari ai suoi dipinti ed ai suoi affreschi, sia per realizzare fogli, spesso a sanguigna, destinati ad essere commerciati. I soggetti rappresentati erano i più vari, dalle accademie alle battaglie ed anche disegni di paesaggio, molti dei quali vennero acquistati da don Gasparo De Haroy Guzman che possedeva ben trenta volumi di grafica antica e contemporanea.
Il De Dominici mostra di conoscere e di apprezzare i disegni del Falcone quando afferma che "aggiunge alla forza di Ribera la dolcezza di Guido". Alcuni esiti della sua applicazione possiedono uno straordinario vigore ed uno stupefacente impatto visivo come il famoso "Ritratto di Masaniello", conservato alla Pierpont Morgan Library, un adattamento di un disegno di Leonardo da Vinci, eseguito in vista della realizzazione della "Battaglia di Anghiari".
Alla figura dell'”Oracolo" va strettamente riferita quella di Andrea De Lione, anch'egli valente battaglista, interessato alla grafica nella stessa ottica falconiana ed a sua volta possessore, come si evince dal suo testa¬mento, di numerosi disegni dei suoi colleghi.
"La linea di demarcazione tra gli elaborati grafici del Falcone e del De Lione si presenta più evidente e sensibile negli studi per i dipinti, impercettibile invece nelle accademie di nudo" (Causa Picone).
Tale sottile distinguo non è stato ancora affrontato dalla critica anche se si può affermare che i disegni del Falcone sono più dinamici ed impregnati di vigore naturalistico, mentre il De Lione appare più compendiario e con un'eco più flebile.
A distinguere i due artisti ci aiutano le immancabili dichiarazioni del De Dominici che del De Lione riferisce "fu molto studioso del disegno, e massimamente del nudo. E infatti vanno a torno molte sue accademie assai ben disegnate, come altresì molte teste, e parti del corpo, a somiglianza del maestro (Falcone) che simil faceva". A conferma di queste parole, nel museo di Capodimonte sono conservate due splendide sanguigne rappresentanti ben dotati nudi virili, firmate, ed illustrate dal Blunt già prima dell'ultima guerra.
Il ductus grafico del De Lione si basa su "un contorno netto con angoli ben delineati e sulle linee che spiccano delle figure e le ombre rese col tratteggio di segni paralleli" (Sestieri). La resa dell'immagine è immediata, mentre il movimento è esplicato con contorni appena accennati ed ombreggiature che definiscono le forme.
Bernardo Cavallino come disegnatore rimane a tutt'oggi un continente inesplorato ed i pochissimi fogli che gli possono essere attribuiti con certezza, anche se di raffinata fattura, realizzati con un tocco rapidissimo ed animati da una vibrante agitazione superficiale, costituiscono la punta di un iceberg che stenta ad emergere.
L'altissima qualità dei fogli pervenutici e la rarità dei pentimenti nei dipinti del Cavallino, ci fa supporre che la sua produzione sia stata ben più cospicua ed anche se alcune realizzazioni probabilmente giacciono non identificate nelle collezioni private o nelle anonime cartelle di qualche sezione di disegni di un lontano museo, la maggior parte probabilmente è andata persa.
Una possibile distruzione può essere avvenuta durante la peste del 1656, che colpì la nostra città e lo stesso pittore, ed un destino simile può aver interessato anche i disegni di altri artisti, ingenerando per secoli la convinzione che i pittori napoletani non si applicavano molto alla grafica, ma si dedicavano al più presto ai loro pennelli ed ai colori. Infatti bisogna tener presente che durante l'infuriare del morbo una commissione fu incaricata di segnare con una croce le case degli appestati, le cui cose indiscriminatamente venivano date al fuoco e per attizzare le fiamme cosa può esservi di meglio della carta!
Destino crudele, che in tempi recenti ha di nuovo danneggiato il patrimonio culturale della città, quando, dopo il sisma del 1980, i terremotati alloggiati nei locali attigui alla storica biblioteca dei Gerolamini, inconsapevoli nuovi barbari, adoperarono per mesi, senza che nessuno intervenisse né si indignasse, le pagine di antichi libri e di rari manoscritti per riscaldarsi nelle tiepide notti partenopee!!!  

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