domenica 25 marzo 2012

Le mani dello Stato sulle banche

16/3/2009



Nazionalizzare necesse est

La disastrosa crisi finanziaria che ha sconvolto le borse di tutto il mondo ed ha provocato un collasso dell’economia planetaria ha indotto i governi, sia negli Stati Uniti che in Europa, ad intervenire attivamente sul mercato nazionalizzando numerose banche, un comportamento contrario ai principi basilari del capitalismo che ha spaventato gli investitori tradizionali, provocando un ulteriore caduta  del valore nominale delle azioni.
La parola nazionalizzare incute un sacro timore nel piccolo risparmiatore, memore di quei trasferimenti forzati di ricchezza che furono nei secoli: l’esproprio dei beni della Chiesa a seguito della Rivoluzione francese nel 1789 o l’abolizione della proprietà terriera decisa dai bolscevichi in Russia nel 1918, decisione seguita poi anche da Mao Zedong in Cina nel 1949.
Oggi (O tempora o mores) i banchieri americani corrono ansimanti verso i funzionari governativi, chiedendo disperatamente di essere nazionalizzati, con la benedizione dello stesso Alan Greenspan, pontefice della banca centrale dai tempi di Reagan e tra i maggiori responsabili della Caporetto attuale. Una scena paradossale descritta dall’Economist in un magistrale articolo dal titolo emblematico: La notte dei morti viventi.
Esiste una sostanziale differenza tra un’azienda nazionalizzata ed una partecipata, nella prima lo Stato è l’unico proprietario e spesso si pone degli obiettivi diversi da quelli di un’impresa privata: acquisire il controllo di materie prime o prodotti indispensabili per l’economia del Paese, salvaguardare l’occupazione in momenti di crisi; nel secondo caso vi è maggiore attenzione al profitto, soprattutto se non si agisce in regime monopolistico, bensì in concorrenza con altre aziende del settore.
La differenza che in Italia ha marcato per decenni  la sostanziale diversità tra Enel ed Eni.
Non mancano esempi di interesse dei cittadini all’esistenza di forti raggruppamenti monopolistici nelle mani dello Stato, come nel caso della Francia, divenuta punto di riferimento mondiale nel nucleare e nell’alta velocità grazie ad una visione proiettata nel futuro, in contrasto con la logica del profitto immediato caratteristica delle imprese private, che spesso non stilano programmi se non fino all’anno del pensionamento del Grande capo.
L’ideale sarebbe che lo Stato intervenisse solo quando è necessario, capitalizzando l’attività in sofferenza con denaro dei contribuenti, pronto però a lasciare non appena possibile, ricollocando quanto acquisito precedentemente di nuovo sul mercato. Un’utopia virtuosa, poche volte realizzatasi, ma necessaria alla sopravvivenza del capitalismo.
Oggi gli Stati Uniti, alfieri indiscussi della concorrenza, si vedono obbligati ad intervenire drasticamente per non far fallire colossi del credito quali la Bank of America e la Citigroup, con un impiego di capitali enormemente superiore a quanto sarebbe bastato a salvare la Lehman, il cui crollo ha fatto deflagrare il sistema.
Un comportamento simile a quello che fu adottato da Roosevelt, quando nel 1929, durante la Grande crisi, intraprese la via di alcune fondamentali nazionalizzazioni, come la creazione della Tennessee Valley Authority, che inglobò tutte le aziende elettriche private, influenzando positivamente distribuzione e tariffe.
Il celebre presidente non si ispirò all’epoca all’Unione sovietica, ma guardò con interesse a quanto avveniva in Italia, dove Mussolini divenne proprietario delle banche e creò l’Iri, un originale modello di sviluppo durato oltre 50 anni. 
Tutti avvertono la delicatezza delle decisioni prese freneticamente in questi giorni di difficile assestamento, con bollettini quotidiani di guerra scanditi dall’aumento della disoccupazione, dal crollo delle borse e dalla diminuzione dei consumi. Si sente la necessità di una linea di pensiero che ridisegni il nostro futuro, nel frattempo l’idea del capitalismo sta subendo senza reagire l’oltraggio delle nazionalizzazioni, una improcrastinabile medicina per salvaguardare interi pezzi del sistema economico che si stanno liquefacendo come neve al sole.

di Marina della Ragione 

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