domenica 18 marzo 2012

Un folle ordinatore

12/1/2007

La camorra rappresenta, da tempo immemorabile, una realtà tangibile della vita sociale napoletana, da cui non si può prescindere in nessuna analisi sociologica.
In molti quartieri rappresenta l’antistato, poiché amministra in alcuni casi perfino la giustizia, per via della cronica latitanza dei poteri istituzionali; in assoluto manovra una quantità di denaro talmente cospicua da rappresentare l’industria principale dell’area napoletana. Alcuni modelli culturali sono talmente assimilati dalla mentalità popolare da costituire un qualcosa di imprescindibile nel giudicare e nell’orientare il comportamento dei singoli.
Tutto ciò potrà anche costituire un modello nefasto di società, in ogni caso per molti anni ancora ci saranno profonde resistenze culturali al cambiamento, per questo corre l’obbligo di raccontare le storie di un personaggio simbolo dell’antistato.
Parleremo di Raffaele Cutolo, che, riteniamo appartenere alla categoria dei folli ordinatori, cioè quei personaggi che, sotto l’effetto di una pazzia lucida, costituiscono un sistema di potere, che in certa misura, stabilisce una forma di ordine nella società, creando per un periodo di tempo abbastanza lungo una sorta di «pax camorristica», durante la quale si possono anche osservare dei fenomeni positivi, come l’abolizione di alcuni tipi di reato di maggiore allarme sociale, quali i sequestri di persona e gli atti terroristici.
Non si può, poi, prescindere dall’aspetto principale del potere camorristico cioè quello economico, che manovra migliaia di miliardi e che si è particolarmente sviluppato negli anni successivi al terremoto che, nel 1980, ha colpito la Campania.
In un particolare momento storico in cui una diabolica alleanza tra potere politico e potere camorristico ha fatto affluire un fiume di 50-60.000 miliardi nella nostra regione, creando dal nulla ricchezze colossali, ma distribuendosi in ogni caso in innumerevoli rivoli, dando così respiro ad una economia che, mortificando le naturali inclinazioni delle nostre popolazioni, portate verso l’agricoltura, l’artigianato, ed il turismo, ha cercato di imporre l’industrializzazione forzata, che si è dimostrata un fallimento e che ha prodotto effetti devastanti sull’ambiente e sulle abitudini dei cittadini.
Raffaele Cutolo nasce nell’ottobre del 1941 ad Ottaviano, una cittadina dedita ufficialmente all’agricoltura e posta alle pendici del Vesuvio, dove il 15% della popolazione gira con in tasca la pistola, che viene regalata ai ragazzi al momento della cresima e dove esiste anche il più alto indice di motorizzazione individuale. Il padre è un contadino, buona persona detto dai compaesani «o monaco» perché molto religioso; la mamma è una tranquilla casalinga.
Raffaele frequenta con scarso profitto la scuola conseguendo la licenza elementare. Da bambino con la sua faccia da prete sognava di diventare papa. Quindi dopo aver bighellonato per alcuni anni senza arte né parte, come tanti giovani del suo paese, debutta a 22 anni con il suo primo omicidio, uccidendo in una rissa scoppiata per futili motivi un compaesano Mario Viscido, che aveva osato prendere le difese di una ragazza, redarguita da Cutolo perché aveva osato ridere al suo passaggio.
Subito arrestato trascorre a Poggioreale, che sarà il suo feudo personale, gli anni della carcerazione preventiva che scadono nel maggio del 1970. Don Raffaele ottenuta la libertà provvisoria comincia a gettare le basi della Nuova Camorra Organizzata (NCO), principalmente aiutando economicamente le famiglie dei carcerati, a cui fornisce anche i migliori avvocati.




A marzo del 1971 il processo Viscido si conclude con la condanna di Cutolo all’ergastolo. I carabinieri lo rintracciano a San Gennaro Vesuviano, un paesino alle falde del Vesuvio, ove il futuro «professore» ritiene di essere intoccabile. Nel tentativo di arresto Cutolo ferisce due carabinieri, ma il giorno dopo viene catturato e, dichiarato infermo di mente, viene condotto nel manicomio di Sant’Eframo a Napoli. Dopo alcuni mesi viene trasferito nel manicomio giudiziario di Aversa, dal quale il 7 febbraio 1979 fuggirà in maniera rocambolesca, entrando nella fantasia popolare con lo stesso carisma di Superman.
L’evasione avviene di domenica, intorno alle 15, mentre tutti i ricoverati, gli infermieri ed il personale di custodia è intento a seguire la partita di calcio alla radio. Un commando di fedelissimi, capitanato dal luogotenente Antonino Cuomo, opera una breccia nel muro di cinta del manicomio con la dinamite. Don Raffaele, che nel frattempo stava tentando di estorcere ai medici fiscali la semi-infermità mentale, può evadere indisturbato, ed appagare la sua sete di libertà, affermare la vittoria del suo io, e la capacità di poter beffare, quando vuole, le istituzioni che gli si contrappongono.
Saranno arrestate due guardie carcerarie per favoreggiamento, ma si scatenerà l’ira dei duecento colleghi dei due agenti incriminati, che metteranno in risalto, attraverso una manifestazione di protesta, l’impotenza dello Stato, il quale si illude che con del personale disarmato ci si possa opporre efficacemente ad un attacco eseguito da delinquenti, decisi a tutto, ed armati con tritolo e fucili mitragliatori.
Una volta liberato Cutolo si dedica anima e corpo alla creazione di una aggregazione di fedelissimi, il cui scopo però non sarebbe quello di commettere delitti, bensì la lotta contro le ingiustizie. La Nuova Camorra Organizzata per il «professore» dovrebbe essere formata soltanto da uomini veri, che combattono per togliere ai ricchi e dare ai poveri.
Tutti i gregari sono dominati psicologicamente dal suo grande carisma, che, come tutti i veri capi egli impone ai malavitosi con il suo sinistro fascino, che riesce ogni giorno a fare nuovi proseliti. Molti delinquenti si sentono onorati di andare in galera per don Raffaele, perché lo ritengono un amico, un padre e non un delinquente.
Molti altri, sperano, diventando suoi vassalli, di passare da «pezzenti» a «signori». La camorra pur con gli opportuni collegamenti, non deve subire alcun rapporto di sudditanza con la mafia e con la ’ndrangheta. Organizzata in modo autonomo deve permettere a Napoli di «giocare» in serie A nel panorama delle grandi famiglie criminali mondiali, perché il ruolo subalterno non si addice ai napoletani.
Il «professore» promette «libera impresa in libera criminalità» e si proclama tutore di questa libertà, che, naturalmente ha un prezzo da versare puntualmente ai suoi esattori.
Le più importanti famiglie napoletane dai Giuliano di Forcella ai Bardellino di Caserta dovevano versare tangenti di centinaia di milioni a Cutolo nel suo periodo di massimo splendore.
Don Raffaele durante il periodo della sua latitanza si vanta di avere carteggi con Sottosegretari agli Interni e Ministri della Difesa ed inoltre lancia spesso clamorosi proclami, come quello in cui intima ai rapitori di un ragazzo, Gaetano Casillo, di liberare immediatamente l’ostaggio.
I sequestratori obbediscono al dictat e dopo poco scompare misteriosamente un commerciante di San Gennaro Vesuviano, che forse era implicato nel rapimento.
Cutolo si dimostra tenero verso la ragazza povera che gli chiede aiuto perché non ha i soldi per il corredo o per il giovane latitante disperato, ma non ci pensa due volte a far uccidere in carcere il suo luogotenente e la sua vedova depositaria di pericolosi segreti.
Nel maggio del 1979 termina la latitanza di Cutolo. Cento carabinieri circondano la villetta di tale Giuseppe Lettieri ad Albanella vicino Paestum, ove aveva trovato rifugio il boss. Il «professore» per quanto armato fino ai denti, prudentemente si arrende senza opporre resistenza ed al colonnello Bario, comandante dei carabinieri di stanza a Napoli, esclama: «è giusto che per arrestare un capo si muove un altro capo»: inoltre senza ironia elogia i militari per l’efficacia della loro impresa.
Dal carcere Cutolo continua a comandare i suoi «guaglioni» di Napoli ed il suo potere invece di diminuire tende ad aumentare, a tal punto che sarà lo stesso Stato a rivolgersi a lui nel carcere di Ascoli Piceno, attraverso i servizi segreti, per facilitare la liberazione di  Cirillo, rapito dalle brigate rosse. Tale interessamento, su richiesta della DC, è stato confermato il 15.7.1993 dalla Corte di Appello di Napoli.
Un carcere di massima sicurezza diviene per alcuni mesi un porto di mare per terroristi, camorristi latitanti, ufficiali dei servizi segreti, i quali entrano ed escono falsificando i registri e mettendosi in coda per essere ricevuti dal boss onnipotente.
Cutolo fa pubblicare dal quotidiano «Il Mattino» un minaccioso proclama con cui ordina alle brigate rosse di liberare immediatamente l’assessore Cirillo e di lasciare subito il territorio della Campania, che rappresenta un suo feudo personale. Avverte che in caso di diniego migliaia di amici onorati uccideranno subito i brigatisti rinchiusi nelle carceri ed i loro parenti che si trovano in libertà.
L’«invito» viene accolto subito e l’anziano politico con i suoi ingombranti segreti viene rilasciato.
Il professore si ritiene, senza presunzione, felice di avere salvato le istituzioni, come Vito Genovese che fu chiamato in aiuto dallo Stato o Lucki Luciano, che favorì lo sbarco degli anglo-americani in Sicilia.
L’Italia in quei mesi raggiunge il livello di guardia come credibilità istituzionale.
Napoli nel frattempo si trasforma in un immenso campo di battaglia con 160 assassini in 10 mesi, un morto ogni 36 ore; 500 morti in tre anni.
Cutolo per disposizioni di Pertini, viene trasferito nel supercarcere dell’Asinara, ove per anni ed anni viene sottoposto ad un regime di totale isolamento in una cella-stalla.
Nel frattempo le sorti della NCO tendono verso il peggio, i suoi nemici coalizzati acquistano sempre più fette di potere e Napoli ed il suo circondario cadono in preda ad un caos ancora più profondo senza un capo riconosciuto e con una continua, ferocissima lotta di bande per una nuova supremazia delinquenziale.





Cutolo sottoposto ad un regime carcerario durissimo, che non ha eguali in Italia, lentamente perde la sua grinta ed a suo dire si pente del suo passato, un pentimento profondamente sentito, non di quelli che ora vanno tanto di moda. Un pentimento da uomo d’onore, quale egli è, che ritiene giusto di dover scontare la pena dell’ergastolo, ma che pensa che se la sua vita debba finire in carcere, debba però essere vissuta con dignità. Un pentimento che lo spinge a ritenere per lui sciolta la NCO, la quale per colpa dei suoi gregari, lasciati senza capo, ha tradito gli ideali per cui era stata fondata.
Egli lancia un accorato appello ai giovani che si preservino dal flagello della droga, attraverso una semplice e genuina poesia «La polvere bianca» che incisa su cassetta gira per tutti i vicoli ed i bassi napoletani. «Polvere bianca ti odio! Sei dolce e sei amara ... come una donna ... sei luce e sei buio. Giovani! Odiatela! La polvere bianca si! vi fa volare per poi farvi ritornare nel buio più cupo. Vola per l’aria lembi di un’anima fatta a pezzi. Si tocca il fondo, i prati diventano voragini buie ed i fiori hanno i petali neri. Poi di colpo i dolori si placano. È il cielo. È un’esplosione di luce. Poi più nulla. L’indomani solo un trafiletto sul giornale. Ennesimo giovane “morto per droga”. Polvere bianca ti odio. Cutolo. Belluno 27.7.88».
In Sardegna Cutolo trascorre sei anni durissimi in una ex stalla per maiali, senza luce, senza giornali, senza acqua corrente, in compagnia di guardie mute sempre con il mitra spianato ed il colpo in canna; costretto a dialogare con degli amici di fortuna come una mosca o delle formiche attirate nella cella con lo zucchero. Senza poter usare un fornellino con il quale scaldare l’acqua allo scopo di alleviare i suoi problemi di artrosi, sciatica e gengivite. Senza il conforto di poter assistere neanche alla santa messa, tanto da spingere il Santo Padre, a cui Cutolo si rivolge, a disporre che ne venisse celebrata ogni giorno una apposta per lui.
Numerose perizie psichiatriche a cui Cutolo è stato sottoposto, hanno stabilito che egli è pazzo, soprattutto quando hanno giudicato alcune affermazioni del «professore» come quella in cui egli asserisce che ciò che fece Cristo ai suoi tempi non può reggere al paragone con ciò che ha fatto lui ai nostri giorni, perché Cristo ebbe grande aiuto da parte degli apostoli che magnificarono all’esterno le sua gesta, mentre lui ha sempre avuto una stampa avversa, che ha messo in risalto soltanto i lati negativi della sua personalità.
Noi lo riteniamo un folle ordinatore, un appartenente cioè a quella categoria di uomini, che tenta di stabilire un suo ordine «particolare» nella società in cui vive e che viene giudicato pazzo dagli uomini del suo tempo.
Riteniamo inoltre che abbia diritto ad un più umano trattamento carcerario da parte di uno Stato, che ha avuto in passato da lui dei servigi e che negli ultimi anni ha messo in libertà tanti terroristi e tanti delinquenti comuni. Nessun detenuto in Italia ha trascorso tanti anni in prigione quanto Cutolo e nessuno è sottoposto ad un regime carcerario più duro.
Tutto questo ci sembra discriminatorio ed ingiustificato.





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