sabato 17 marzo 2012

Un grande genio «compreso»

30/11/2006


Musicista, musicologo, regista, etnologo, uomo di teatro, riscopritore dell’enorme patrimonio dell’opera buffa e della musica folcloristica; un vulcano inarrestabile dotato di una vastissima cultura e di una fervida fantasia, che gli consente di portare avanti un discorso teatrale legato alle matrici più profonde e complesse della cultura napoletana senza mai cadere nell’erudizione o nella rievocazione archeologica. Questo è Roberto De Simone napoletano insigne nato nel 1933 in una vecchia casa della Pignasecca.

Il maestro non è soltanto figlio d’arte, bensì anche nipote, pronipote, lontano discendente di artisti sia dal lato paterno che materno, che hanno abituato sin da piccolo Roberto a masticare una grande varietà di linguaggi teatrali, facendogli respirare sin da bambino un’atmosfera artistica.

Il nonno lavorava nel teatro con la compagnia di De Muto e nel cinema ne «L’oro di Napoli» e nell’«Arcidiavolo», la nonna cantava le operette più in voga negli anni Venti, zia Marietta ammaliava il pubblico del Bellini con le arie di «Carmen» e del «Trovatore» mentre il papà di Roberto, Attilio, oltre che attore è stato suggeritore di professione.
Dal lato materno l’inclinazione è tutta per la musica classica. Uno zio suonava nell’orchestra del San Carlo il violoncello, mentre la cugina Laura studiava pianoforte e cantava e sarà proprio lei a dare le prime lezioni al maestro, all’età di otto anni. In seguito studierà con la maestra Tita Parisi che lo accoglie in Conservatorio e lo ricorda come «un allievo magnifico, un musicista nato, studioso ed intelligente».

Lo studio del pianoforte è per un po’ interrotto durante la guerra, perché la famiglia De Simone padre, madre e sei figli, tre maschi e tre femmine, deve sfollare per alcuni mesi prima ad Ariano Irpino e poi a Somma Vesuviana.

Tornato a Napoli ricomincia a frequentare il Conservatorio al quale negli anni affiancherà gli studi al liceo classico preparandosi da privatista e sostenendo gli esami al Vittorio Emanuele ed al Genovesi.
Le giornate scorrono tutte eguali: studio ed esercitazioni, esercitazioni e studio. Unica distrazione qualche passeggiata a piedi per il centro antico della città prospiciente il Conservatorio di San Pietro a Majella. Molte ore a frequentare la famosa biblioteca della scuola con un amore per la ricerca che non verrà meno negli anni a seguire.

A 14 anni debutta in pubblico eseguendo il concerto in re minore di Mozart alla Sala Scarlatti, ottenendo un lusinghiero successo e la prima recensione da parte del critico Achille Longo.
Nel 1956 esce diplomato dal Conservatorio con il voto più alto in pianoforte: un brillantissimo dieci e lode, rarissimo a quei tempi. Sembrava più che spianata una grande carriera di concertista, ma l’inattesa scomparsa del padre a soli 46 anni, costrinse il giovane De Simone a cercarsi un lavoro. Ed i lavori nei primi mesi saranno molti: compone la colonna sonora di lavori radiofonici, impartisce lezioni private, suona più di uno strumento nella Scarlatti ed addirittura lo vediamo in via Acton in un club per americani interpretare brani di Gershwin e Cole Porter o partecipare come organista alla trasmissione televisiva «Senza Rete». Durante questi anni appena il lavoro gli lascia un po’ di tempo libero intraprende un’affascinante serie di viaggi nella cultura popolare meridionale. Da ognuno di questi viaggi torna sempre, oltre che arricchito nello spirito, con la borsa zeppa di materiale di studio. Cominciano a svilupparsi le sue numerose collezioni che affollano oltre misura la sua casa: strumenti musicali, pastori del presepe, statuine delle anime del purgatorio, libri esoterici. E su tutto questo materiale studia, legge e scrive per ore e ore interrompendo soltanto per passare alla tastiera del pianoforte; una vita da certosino, da sgobbone, facilitata dalla scarsa necessità di dormire.

Gira in lungo e in largo per la campagne del meridione, affascinato dalle favole dei contadini, dalle antiche parlate dei cafoni.
Approfondisce le opere di De Martino e gli studi antropologici di Carpitella; raggiunge i paesini più sperduti e prende appunti su tutto: canti, favole, preghiere, duetti, cantilene, proverbi, dicerie popolari. Compie un viaggio straordinario nel linguaggio sotterraneo della gestualità e della ritualità pagana, che, scopre, come Levi, essere la religione che pregna la vita delle campagne meridionali. Il risultato di queste continue esplorazioni è un’immensa documentazione e raccolta di dati e materiale, che negli anni seguenti si concretizza in incisioni, opuscoli e cofanetti. Tali incessanti peregrinazioni sono anche la spina di uno stile di vita che non cambierà più nel futuro del maestro e gli farà sempre prediligere il contatto con le tradizioni popolari attraverso le persone. Egli scopre che il luogo dove si agisce è sempre il centro dell’azione, ove si assiste alla ritualizzazione della vita. Si appassiona al problema della follia e prende in esame come essa venga considerata nelle antiche culture e tradizioni e quale enorme potere catartico essa possegga. Scopre che il folle spesso è anche saggio, possiede virtù ordinatrici e nello stesso tempo dirompenti, operando con la sua pazzia, a volte lucida, ampi varchi nelle certezze del prossimo da cui spesso è perseguitato con grande collera.

Esamina alcune grandi feste popolari quali le antiche celebrazioni del Carnevale, in cui la follia viene rappresentata come un rovesciamento della condizione normale, in cui la comunità assurge ad un rituale liberatorio collettivo, o la tradizionale festa di Piedigrotta di Napoli che fino a pochi anni fa veniva vissuta con grande partecipazione da quasi tutta la popolazione e che si manifestava con mascheramenti, con danze violente e con una serie di atteggiamenti e di manifestazioni trasgressive in cui la violenza però non si esprimeva in aggressioni verso la comunità o all’esterno della stessa, ma veniva scaricata all’interno di un gioco con profondi affetti catartici come nei riti cibelici di ispirazione pagana da cui derivava.
E giungiamo alla metà degli anni Sessanta quando attraverso l’incontro che De Simone ha con Eugenio Bennato, Carlo D’Angiò e Giovanni Mariniello si viene a creare il nucleo storico della Nuova Compagnia di Canto Popolare. Il gruppo comincia ad approfondire il repertorio campano di musiche antiche ed ai tre si aggiungono ben presto Beppe Barra e Fausta Vetere.

Tutte le sere si prova nella casa del maestro, si fanno i primi spettacoli all’Instabile dove un giorno va a vederli Eduardo De Filippo, il quale entusiasta della loro carica vitale li segnala a Romolo Valli che li invita al Festival di Spoleto nel 1972 dove la NCCP ottenne un lusinghiero successo ripetuto nel 1974 sullo stesso palcoscenico con la «Canzone di Zeza» e con la «Cantata dei Pastori» al teatro San Ferdinando di Napoli.

La Nuova Compagnia di Canto Popolare si proponeva, in una società che tutto consuma vorticosamente e non ha memoria del passato, neanche di quello recente, di riprodurre filologicamente, confrontandosi con linguaggi diversi, delle espressioni musicali di tempi lontani, rendendole comprensibili a chi vive oggi e le ha dimenticate.
Dopo queste esperienze De Simone approda al teatro musicale, forma espressiva che usa tutto, che mescola linguaggi, tecniche, che confonde le carte, che gioca, si diverte, canta, balla, ride, scherza, infrange convenzioni, suggerisce lacrime, suppone angosce. Un’espressione brutale, un’esperienza interiore che si proietta in gioco, in rito, in festa, oppure un gioco, una festa che proietta sulla scena l’esperienza interiore di ciascuno.

Ed è in questo periodo di attività frenetica che nasce il capolavoro del maestro «La Gatta Cenerentola», un’opera nella quale l’autore si collega in parte al teatro antico e in parte a quello settecentesco. De Simone sceglie una favola perché è così più facile fornire elementi ritualizzanti alla gestualità dell’attore il quale può assegnare un significato alla rappresentazione, spingendo in alcuni casi la stessa rappresentazione fino alla più delirante fantasia. Nel 2° e nel 3° atto vi è la ricerca e l’incontro tra mondo maschile e mondo femminile vista con l’occhio della cultura mediterranea. Alcune scene come «Il canto delle lavandaie» hanno una forza e sprizzano un’energia travolgente che entusiasmano il pubblico in maniera totale.

L’opera presentata per la prima volta a Spoleto nel 1976 è stata replicata all’infinito raccogliendo sempre un successo travolgente di critica e di pubblico.
La Gatta cenerentola è un’opera lontana dal gusto napoletano ancorato ai lavori di Viviani e di Scarpetta nei quali la comicità è dovuta ad una visione distorta del mondo partenopeo prodotta dalla borghesia, dove però manca del tutto l’elaborazione del simbolo e della metafora teatrale.

Gli attori interpreti di questa opera spesso, pur essendo delle splendide «macchine teatrali» sono fini a se stessi e ripetono pedissequamente un modello culturale superato senza alcun addentellato con la realtà attuale.
De Simone più volte si lamenta che nell’allestimento di uno spettacolo teatrale mancano buoni attori per le parti minori oltre che buoni elettricisti e costumisti. Come pure mancano buoni macchinisti e direttori di scena, oppure attori che fanno una carriera di seconde parti. Oggi tutti vogliono fare i protagonisti, tutti vorrebbero essere il regista o il divo.

Dopo il 1979 De Simone mette in scena, con la collaborazione di Mico Galdieri una serie di opere tutte di grande successo dalla «Festa di Piedigrotta» di Viviani alle «Zite ’n galera» di Leonardo Vinci, dall’«Opera buffa del giovedì santo» al «Eden Teatro», da «Lucilla Costante» alla «Donna del bell’umore» una «Messa in memoria di Pasolini» uno straordinario omaggio al grande scrittore da poco scomparso, ed infine «Mistero Napoletano» che presentato anche all’estero ottiene anche nei teatri tedeschi con un pubblico «prussiano» un grande successo, segno che anche degli spettatori con una mentalità così diversa dalla nostra, possono essere presi e permeati da una storia così profondamente e arditamente napoletana.

Nel frattempo scrive, instancabile, numerosi saggi e collabora con Sergio Bruni nell’allestimento di una antologia della canzone napoletana.
Pur producendo divisioni e polemiche, De Simone nel suo campo non ha rivali e come giusto riconoscimento ha anche la nomina a direttore artistico del San Carlo. Seguirono numerose regie liriche con incursioni sempre più frequenti nel melodramma. Egli esplora in maniera esaustiva tutti gli autori del Settecento, tra i quali predilige Pergolesi. Confessa che sarebbe attirato dalla regia di grandi autori come Pirandello, Shakespeare o Brecht ma non sarebbe soddisfatto della sola prosa, essendo in lui troppo viva la dimensione ritmico sonora della lingua per poter prescindere dalla musica. In ogni caso studia a fondo la drammaturgia in quel periodo dibattuta tra tradizione e nuove tendenze.

Prepara nel centenario della sua nascita un omaggio a Viviani, ricavando dai suoi brani più corali un pannello sonoro poetico musicale intitolato «Carmina vivianea».
Cerca a lungo le radici del linguaggio di Pulcinella, studiando tutto ciò che si conosce sulla maschera di Acerra.
Dal pozzo senza fondo costituito dai cassetti e gli scaffali della sua biblioteca, piena di carteggi, pentagrammi cassette registrate e quaderni zeppi di appunti ricava una raccolta di commedie tutte inedite, scritte dal 1629 al 1724 giocate sul personaggio di Pulcinella.
Il lavorio intellettuale è incessante, la sua curiosità filologica lo fa muovere a meraviglia tra le commedie di Goldoni e gli scritti di Galilei, la storia del teatro comico napoletano di Altavilla, la topografia di Napoli di Capasso, l’intera raccolta di Cerlone, le opere di Tommaso e di Jung, ma egli non dimentica mai di essere un artista che vive nel suo tempo e che le indagini più importanti sono quelle sul linguaggio dei giovani di oggi, per capire come nasce un nuovo gergo come quello dei «paninari» e soprattutto quali sono i percorsi linguistici dei ragazzi che lo usano.

Nel 1990 una delusione gli viene dalla mancata nomina di direttore artistico del Mercadante, carica in cui per un gioco politico gli viene preferito Maurizio Scaparro. Il maestro da tempo stava lavorando alacremente ad un piano di rilancio del teatro, una struttura carica di gloria, ma ridotta allo sfascio per una cattiva gestione amministrativa.
Era perciò sicuro che quella carica spettasse a lui, ma pare che la guida del palcoscenico più prestigioso della Campania debba essere vietata agli esperti carismatici del settore. Per curiosità neanche Eduardo De Filippo riuscì mai, anche al colmo della gloria, a raggiungere la direzione dello «Stabile».

Nello stesso anno giungono però due grandi riconoscimenti: l’assegnazione del Premio Napoli come più illustre napoletano ed il trionfo alla Scala con Muti nella direzione del «Nabucco».
Nella regia del Nabucco, De Simone esegue una rilettura dell’opera in tono romantico medioevale facendo divenire vero protagonista dell’opera il rapporto tra gli uomini ed il Sovrumano, così che quando gli Dei si allontanano crollano gli imperi.

Per un impegno così importante, che per ogni uomo di spettacolo equivale ad una sorte di consacrazione, De Simone pensò di creare un quartetto di napoletani, volendo al suo fianco, oltre a Muti, gli amici di sempre Carosi autore delle scene e Odette Nicoletti ideatrice dei costumi.
Un grande impegno profuso nelle prove, con De Simone, presente sempre in ogni luogo, col pianoforte come punto di riferimento, suonando di continuo prima tutta l’opera e poi le parti dei protagonisti, dei comprimari, dei coristi e delle comparse, una per una a scaglioni, a ondate.

Dopo ogni successo teatrale Roberto tornava a studiare, studiare ancora studiare, in questo l’antico allievo del Conservatorio di San Pietro a Majella non si è mai smentito. Egli legge e scrive durante le ore del giorno, ma per comporre la musica predilige le ore notturne, perché vi è più tranquillità e col silenzio l’ispirazione e la concentrazione sono più intense e si possono percepire con più chiarezza voci che giungono da lontano e soprattutto voci che provengono dal passato o dalla propria coscienza.

E così, giorno dopo giorno, notte dopo notte, il maestro col suo ostinato lavoro e la sua ferrea determinazione produce sempre nuovi capolavori per la sua gioia e per la gloria di tutti i napoletani.

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