venerdì 20 aprile 2012

Cambiare il regolamento carcerario



Vorrei chiedere ai membri del Parlamento se, attraverso una legge ordinaria, si possa migliorare le disastrose condizioni di vivibilità delle nostre carceri: cambiamento del regolamento penitenziario, ottuso ed antiquato, aumento del bonus per chi lavora o studia ed ha un comportamento ineccepibile, l’introduzione di Internet e Skype, aumentare il numero dei colloqui o quanto meno delle telefonate ai familiari, perché rimanere costantemente in contatto con i propri cari è l’unico rimedio che conosco per combattere la sofferenza, la tristezza, la solitudine, la malinconia.

domenica 8 aprile 2012

Il culto della resurrezione



La ricorrenza della Pasqua si perde nella notte dei tempi, anche se i nostri antenati intendevano festeggiare la fine dell’inverno ed il trionfo della natura che si risvegliava rallegrando le nostre giornate, donandoci frutta in abbondanza e rigogliosi raccolti.
Mentre noi festeggiavamo la resurrezione di un uomo fattosi dio per redimerci dai nostri peccati, gli antichi festeggiavano la rinascita di un dio della vegetazione. In Grecia lo chiamavano Adone, in Asia minore Attis; anche loro nascevano da una vergine come il nostro Gesù. La ricorrenza veniva celebrata non solo con riti, ma anche con abbuffate pantagrueliche di dolci e pietanze a base di uova e grano. L’uovo come emblema universale di vita, il grano come simbolo di morte e rinascita della terra. Dall’uovo cosmico all’uovo pasquale, dal grano tenero alla pastiera il passo è breve.
Dopo l’austerità ed il digiuno della Quaresima, una proverbiale rivincita sulle privazioni. Abitudini culinarie poco comprensibili per noi che apparteniamo ad una civiltà dell’opulenza e che ancora in alcune città come Napoli o Palermo siamo soliti praticare lo struscio ed i sepolcri il Giovedì santo, ignorando la rievocazione di quando le nostre trisavole facevano crescere al buio del grano in piccoli vasi per porli poi sulla tomba di un dio.
Oggi in un mondo secolarizzato, preferendo alla meditazione una sana scampagnata, confondiamo il mito della resurrezione con una sagra della primavera.

sabato 7 aprile 2012

Il coraggio di aver paura



Il 30 marzo nell’area verde del penitenziario di Rebibbia si è svolta una grandiosa Via Crucis, con la partecipazione anche dei familiari dei detenuti, ad alcuni dei quali è stato assegnato il compito di commentare alcune delle stazioni.
Io, dopo un attento studio, ho ritenuto di sottolineare il sentimento della paura, l’iniquità della giustizia, la stessa partecipazione alla sofferenza.
Tra molte delle stazioni della Via Crucis e la condizione del carcerato ho trovato molte sorprendenti similitudini.
A partire dalla prima stazione, nella quale Gesù viene sottoposto ad un giudice e condannato a morte. 
Il giudice del mondo, che un giorno ritornerà a giudicare l’umanità, sta lì, annientato, disonorato e inerme davanti ad un giudice terreno. 
Innocente lui, innocenti tanti di noi che ci siamo visti condannati da una giustizia spesso fallace.
Nella decima stazione Gesù viene spogliato delle sue vesti, una forma di emarginazione e di disprezzo, un’amarezza e la vergogna di rimanere nudo davanti a tutti.
La stessa umiliazione che viene inflitta al detenuto al suo ingresso nel penitenziario, costretto a spogliarsi come un verme ed esplorato senza pietà nei più intimi orifizi.
Ma il sentimento che più accomuna la figura di Gesù a quella del detenuto è senza dubbio la paura, che sottende a tutte le 14 stazioni e che compare già nell’orto del Getsemani, quando egli si vede abbandonato e tradito da tutti con momenti culminanti nella 11 stazione, quando Nostro Signore viene inchiodato sulla croce e nella 12, quando dopo aver invocato disperato: “Padre mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato” muore, mentre si fa buio su tutta la terra.
La vita del detenuto è una continua paura, spesso si piange disperati, ma non vi è da vergognarsi, abbiamo paura come ha avuto paura Gesù e questo deve confortarci.

Lettera aperta al Ministro Severino





L'UNITA' di DOMENICA 22 GENNAIO 2012  pag.26


Gentile signora Severino,

sono napoletano come Lei, medico escrittore attualmente detenuto nel carcere di Rebibbia, ed ho molto apprezzato il Suo toccante discorso in occasione dellavisita del SantoPadre, per cui desidero ringraziarLa, anche a nome dei miei compagni di sventura.
Lei non ha potuto vedermi, perché la mia domanda (cattiva), per quanto condivisa dai cappellani, è stata censurata dalla segreteria del Pontefice.
In ogni caso è stata pubblicata da numerosi quotidiani sotto forma di lettera al direttore:
«Colgo l’occasione per sottoporLe una mia proposta che,nonostante abbia prospettato da tempo alla direzione, non ha finora ricevuto risposta. Ho la fortuna che mia figlia e mio genero siano commissari europei e, dopo aver consultato tutti i presidenti delle commissioni, mi hanno assicurato, in tempi brevissimi, la disponibilità di 100.000 euro per una o più iniziative a favore dei reclusi di Rebibbia.
Il mio sogno è che si possa permettere-a costo zero- l’opportunità di ricevere ed inviare mail a parenti ed amici,grazie al finanziamento della Comunità Europea.
Naturalmente la posta elettronica in arrivo ed in partenza,a differenza di quella tradizionale che gode della segretezza, potrebbe avere un filtro censorio .Rimanere in contatto costante con i propri cari è l’unico rimedio che conosco per sopportare la sofferenza, la solitudine,Se non la malinconia.
si ha l’energia per la realizzazione di un’iniziativa del genere,che ci porrebbe una volta tanto all’avanguardia in Europa, avanzo una seconda proposta: quella d’invitare i maggiori esperti internazionali del settore a tenere un ciclo d conferenze sulle metodiche più avanzate per meglio tollerare la detenzione, dall’ipnosi alla meditazione trascendentale, senza alcuna preclusione (ricorda la signora Ministra la scena relativa di Arancia meccanica?) e raccogliere poi i risultati in un volume da diffondere presso gli istituti di pena di tutto il mondo. Attualmente ho constatato che l’unica tecnica ampiamente attuata consiste nell’uso generoso di psicofarmaci, sconfinante nell’abuso,ch trasforma i detenuti in pallidi ectoplasmi, in automi, molto spesso in marionette impazzite.
Non mi dilungo, gentile signora, ma sarei onorato di un Suo riscontro

Non dimentichiamoci dell’infibulazione


23/9/2011

In passato quando ogni popolazione viveva nei suoi territori, il problema delle mutilazioni sessuali femminili era argomento di studio per gli etnologi, ma oggi, in un mondo in preda a sfrenati fenomeni di globalizzazione, mentre migrazioni di dimensioni bibliche interessano oramai decine di milioni di persone, non è più permesso disinteressarsi di queste tematiche. 
I seguaci di religioni che contemplano l’obbligo di infibulare indiscriminatamente tutte le ragazze sono tra di noi a milioni, aumentano continuamente ed essendo molto prolifici tenderanno a crescere sempre più in percentuale. Prima o poi chiederanno esplicitamente di poter continuare impunemente tali pratiche, approfittando di un vuoto legislativo sull’argomento e semmai vorranno usufruire gratuitamente del ginecologo della mutua. Probabilmente faranno opera di proselitismo presso di noi delle loro usanze, e forse non è lontano il,giorno in cui le nostre donne saranno costrette a sottoporsi alle mutilazioni sessuali da fanciulle e ad indossare da grandi lo chador o addirittura il burka. 
Il nostro clima politico, impregnato di lassismo da basso impero e di buonismo tardo marxista, è favorevole a queste colonizzazioni culturali. I mass media predicano quotidianamente il rispetto delle altrui usanze a discapito delle nostre tradizioni civili e religiose. 
Possiamo stare certi che se uno degli ultimi cannibali che abitano la nostra vecchia terra volesse trasferirsi presso di noi, come tanti extra comunitari e continuare le sue iperproteiche abitudini alimentari, il Papa per primo, nella sua omelia domenicale, incoraggerebbe ad accoglierlo fraternamente ed a lasciargli libero un semaforo, non già per esercitare la rispettabile e ben pagata professione di lavavetri, bensì per soddisfare le sue improcrastinabili esigenze alimentari. 


Una importante novità nella Difesa Scandinava


22/9/2011

A Londra si è svolto di recente  un accanito festival di scacchi che ha visto la partecipazione di 60 concorrenti, tra cui otto GM.
Propongo ai lettori una mia brillante vittoria contro il MI Fenisch, nella quale vi è 
una interessante novità teorica da me ideata, che incrementa le chances del nero nella Difesa Scandinava.
Fenish - della Ragione
Scandinava B-01 - 
1 e4 d5 - 2 e:d5 Cf6 - 3 d4 C:d5 - 4 c4 Cb6 - 5 Cf3 Ag4 - 6 c5 C6d7 - 7 Ac4 e6
8 h3 Ah5 - 9 Ae3 Cc6 - 10 Cc3 Ae7  - 11 a3 e5 - 12 d5 Cd4 - 13 g4 C:f3+
14 D:f3 Ag6 - 15 b4
Fin qui abbiamo seguito la variante principale dell’Enciclopedia delle Aperture (Byrne - Rogoff, Usa 1978, Informatore n 25/145), che fa proseguire il nero con 15…0-0 e 16 Td1 con chiaro vantaggio del bianco. Il nero però, rinunciando all’arrocco, gioca 15…e4!, ottenendo una grande attività dei pezzi con gioco superiore.      
15…e4 - 16 Dd1 Af6 - 17 Tc1 A:c3 - 18 T:c3 Df6 - 19 Tc1 Ce5 - 20 0-0 ? Cf3+
21 Rg2 De5 - 22 Th1 h5 - 23 Ae2 h :g4 - 24 h:g4 Th2+!! 0-1
Dopo questa miniatura la vecchia variante va in soffitta e si preparano per il Nero battaglie spettacolari e grande contro gioco.

Frammenti autobiografici tra serio e faceto

21/9/2011

Ricordi dell’ospedale di Cava de’ Tirreni

Fra poco saranno trascorsi 40 anni dal mio ingresso come assistente incaricato nella divisione di Ostetricia dell’ospedale S. Maria dell’Olmo di Cava de’ Tirreni. Il tempo è volato senza che me ne accorgessi, era il 1973, mi ero laureato nell’autunno del 1972 ed ancor prima della tesi, attraverso un’inserzione sul giornale medico Il polso, mi ero offerto agli ospedali italiani: giovane laureato, ottima votazione (ancora non la conoscevo, sarà 108/110) esaminerebbe proposte di lavoro. Erano tempi felici, la disoccupazione tra i medici era ancora lontana ed ebbi numerose proposte, soprattutto da ospedali del nord, che mi offrivano, oltre al posto a tempo pieno, anche vitto e alloggio. 
L’unica proposta in Campania venne dall’ospedale di Cava de’ Tirreni, ove mi recai a discutere col primario il dottor Clarizia, squisito gentiluomo d’altri tempi, al quale confessai che come medico non sapevo fare niente. “Non preoccuparti, all’inizio basterà che ti interessi della compilazione della cartelle, poi poco alla volta imparerai. Mi accompagnò dal direttore sanitario, il dottor Terracciano, burbero ma innocuo e dal presidente l’avvocato Clarizia suo cugino, i quali mi assicurarono che in pochi giorni avrebbero fatto un bando per un incarico da assistente e lo avrebbero tenuto segreto, in maniera tale che io fossi l’unico a presentare la domanda. In pochi giorni mi trovai assunto con uno stipendio di 492.000 mensili, per intenderci mia moglie, che insegnava matematica nei licei, ne prendeva 250.000. 
Nel reparto non si praticavano interventi ginecologici più audaci del raschiamento diagnostico o della polipectomia, poiché il primario e l’aiuto, dottor Violante, non erano propriamente delle cime, ma poco più che dei mammani. La routine era costituita dai parti, 1 – 2 al giorno, che venivano espletati per la quasi totalità per via naturale, con le donne assistite dalle ostetriche, i medici intervenivano solo a mettere quattro punti di sutura se la ferita vaginale era irregolare. A volte, se necessario si ricorreva al rivolgimento podalico ed al forcipe,(manualità che oggi, in epoca di sfrenato ricorso al taglio cesareo, farebbero tremare un luminare). per cui le possibilità di apprendere per un giovane erano alquanto limitate. Nello stesso periodo lavoravo anche al nuovo policlinico da poco aperto a Cappella Cangiani, perché agli specializzandi era offerto un contratto e la possibilità di proseguire poi la carriera come assistente. 
Anche lì le possibilità di imparare erano quasi nulle ed infatti quasi niente imparai, in compenso guadagnavo un secondo stipendio, che arrotondavo ulteriormente sostituendo i colleghi nei turni notturni, a tal punto che mia moglie, fresca sposa, si lamentava di passare più notti dormendo con la sorella che con il baldo quanto super impegnato marito. A Cava espletavo l’orario di 40 ore settimanali dal sabato pomeriggio al lunedì mattina, per non sottrarre tempo al mio studio privato che cominciava a funzionare a gonfie vele. Venivo adoperato prevalentemente come medico di guardia al pronto soccorso, che in un ospedale di provincia rappresenta una vera e propria trincea, un porto di mare, anzi spesso è mare aperto, esposto a venti procellosi e a devastanti maree. Il battesimo del fuoco avvenne durante l’epidemia di colera che colpì Napoli e la Campania nel 1973. 
Ci erano pervenute alcune centinaia di dosi, ma la mattina in cui cominciarono le vaccinazioni la paura aveva contagiato talmente la popolazione che in fila si accalcarono non meno di cinquemila persone, che urlavano e spintonavano. I colleghi erano terrorizzati:”Cosa succederà quando dovremmo dire a questa folla inferocita che non possiamo proseguire?”. Ho rivissuto quella emozione mista a terrore, vedendo di recente alcune scene del film Contagio, nel quale, all’annuncio che a breve si sarebbero interrotte le vaccinazioni per esaurimento del farmaco, centinaia di persone invadono l’ ospedale, dandosi ad atti vandalici e prendendosela con i malcapitati sanitari che vengono percossi ed insultati. Quel giorno a Cava non successe nulla del genere, perché mentre tutti erano paralizzati dal terrore, io ordinai alle infermiere di portare tutta l’acqua distillata e le soluzioni fisiologiche che avessero trovato e con quelle vaccinammo svariate migliaia di cittadini tra ringraziamenti e bacia mano. In un piccolo nosocomio quale era quello di Cava de’ Tirreni, dove ho cominciato la mia carriera di medico, i casi gravi, i cosiddetti casatielli, era opportuno dirottarli altrove, nell’interesse dei pazienti, ma soprattutto dei colleghi reperibili, che potevano tranquillamente continuare a fare studio privato o a dormire a secondo dell’ora del ricovero.
Si trattava unicamente di valutare la gravità del paziente e di convincere lui ed i parenti, sempre agitatissimi, che si faceva tutto nel suo esclusivo interesse, che lo avremmo volentieri curato, ma altrove sarebbe stato assistito meglio. Fratture scomposte, addomi acuti e crisi anginose venivano inviate a Salerno, i casi ancora più gravi verso il Cardarelli. I giorni festivi si indirizzavano altrove anche le crisi asmatiche e tutta la patologia chirurgica che andava trattata con urgenza. Quando io ero di guardia i colleghi reperibili delle varie branche potevano stare tranquilli. Molto frequenti erano poi i casi di baldi giovanotti che rimanevano con l’ uccello incastrato nella cerniera dei jeans e dopo alcuni disperati tentativi correvano impauriti in ospedale, spesso accompagnati dalla fidanzata in ansia quanto e più di loro. Bastava allora un colpo netto nel verso contrario all’ apertura ed il batacchio era di nuovo libero, con meraviglia dell’interessato e focosi complimenti da parte delle accompagnatrici per lo scampato pericolo. Un caso eclatante di cui si parlò a lungo fu l’incontro scontro con un delinquente, che aveva da poco, in un alterco, sferrato uno schiaffo ad una vicina di casa lasciandole ad imperitura memoria sul viso la traccia rossastra delle cinque dita. 
La sventurata giunse esanime al ospedale e pochi minuti dopo, mentre la stavo soccorrendo, giunse il malvivente che cominciò a minacciare: “Guai a te se fai il referto, ti sparo in bocca”. Uno sguardo alle dimensioni corporee dell’individuo, alquanto modeste, mi diede coraggio e lo invitai ad uscire altrimenti avrei chiamato la polizia. Addirittura lo prendevo in giro: “Ma se io non apro la bocca come fai?”. Non l’avessi mai detto lo scellerato, mentre parlavo telefonicamente col commissariato, cominciò a sferrare calci agli infermieri ed a bestemmiare le divinità delle principali religioni monoteiste. Trascorsi alcuni minuti giunge un agente, poco meno che sessantenne, il quale riconosce il furfante e prendendolo per un braccio cerca di portarlo fuori, ma scivola malamente e cadendo perde l’unico dente sul quale poggiava la dentiera. Il malvivente continuava a sbraitare per cui, aiutato da Michele, un infermiere robusto ed ubbidiente, lo immobilizzai e, sotto la minaccia di un bisturi, lo costrinsi a più miti consigli. Chiamai di nuovo al commissariato chiedendo un intervento più efficace e spiegando che l’agente da loro inviato era stato costretto al ricovero. “Che dite, facciamo subito intervenire delle pantere da Salerno”. 
Dieci minuti ed in contemporanea polizia e carabinieri sono sul luogo del misfatto, impacchettano il delinquente e lo conducono in gattabuia. Gli infermieri ed i portantini in coro mi assalgono: “Dottore voi siete un pazzo, Totonno è da poco uscito dopo aver scontato venti anni per un duplice omicidio”. Processo per direttissima, nessuno dei testimoni si presenta ad eccezione del sottoscritto, minacciato senza esito da un fratello dell’imputato, conferma della deposizione e quattro anni di pena, interamente scontati. Il Mattino dedicò nove colonne all’episodio e i colleghi fecero una gigantografia che fu appesa alle pareti del pronto soccorso e per anni, quando sorgeva una controversia con i parenti degli ammalati, pane quotidiano in un pronto soccorso di frontiera privo di drappello, io invitavo prima di continuare la questione a leggere l’articolo e poi eventualmente decidere di continuare: un prodigioso antidoto per qualsiasi diatriba.

Dopo alcuni anni di onorato servizio (anche se praticato solo nel fine settimana) il mio studio privato richiedeva oramai una mia presenza costante anche il sabato e la domenica fino alle cinque, per cui decisi, essendomi iscritto, dopo aver conseguito quella in Ginecologia, ad una seconda specializzazione (in Chirurgia Generale) ed avendone pienamente diritto, di chiedere un’aspettativa senza stipendio per due anni.
L’amministrazione oppose un inspiegabile rifiuto, asserendo che la mia collaborazione era indispensabile; un comportamento ingiustificato che solo dopo anni scoprii, dettato da un’antipatia nei miei confronti da parte del direttore amministrativo, il quale sospettava una tresca tra me e la moglie, tra l’altro brutta ed in trombabile(neologismo creato da Berlusconi per indicare il culone della Merkel). Al diniego non mi scomposi più di tanto e diedi appuntamento a dopo 24 mesi:” Se non volete concedermi un’aspettativa senza stipendio, vuol dire che da domani sarò malato e per guarire ci vorranno due anni!”. Scelsi come patologia l’ipertensione arteriosa e cominciai a spedire regolarmente dei certificati mensili.
Venni convocato più volte da svariate commissioni mediche, alle quali mi presentavo dopo aver assunto, un’ora prima, una o più dosi di Pressamina, un farmaco capace di innalzare pericolosamente la pressione, che risultava regolarmente e di molto superiore ai valori normali. Dichiaravo inoltre di avere vampate di calore, continui svenimenti ed un’ incipiente impotenza. Ricordo che in occasione di uno di questi controlli un membro della commissione bonariamente cercò di convincermi: “Collega ma non pensi di poter riprendere il servizio?”. La mia risposta fu lapidaria:” Si prende lei la responsabilità di affermare che io sono guarito e se poi al pronto soccorso si presenta infortunata la moglie di un camorrista ed io non sono in grado di soccorrerla per una perdita di coscienza?”.
Mi diedero altri tre mesi di prognosi ed oramai dovevo superare solo l’ ultimo ostacolo costituito da una commissione provinciale, che se avesse riscontrato che la mia patologia era stata contratta durante il lavoro, mi avrebbe proposto un pensionamento anticipato per causa di servizio, a tal punto che interruppi addirittura l’invio di certificati attestanti la mia infermità All’improvviso il mio nome comparve su tutti i giornali per l’attività che svolgevo privatamente e l’ospedale colse la palla al balzo per licenziarmi in tronco. Avrebbe dovuto invece inviarmi un invito a riprendere il lavoro pena decadenza; non lo fece e questo errore costò alla Asl un miliardo di risarcimento. Credo che per conoscere meglio questa vicenda sia utile rileggere questa intervista del giornalista Goffredo Locatelli, pubblicata dal mensile Albatros (luglio 2002) e ripresa parzialmente nei giorni successivi dai quotidiani Il Portico e Il Mattino Il medico che ha sbancato l’ASL L’azienda ospedaliera lo licenziò e ora gli deve pagare quasi un miliardo. E non è finita… Fu licenziato in tronco nel 1978 mentre era in servizio come ginecologo presso l’ospedale di Cava de’ Tirreni. Motivo: aveva fatto scandalo una sua intervista sull’aborto. Parte da quell’anno una lunghissima controversia giudiziaria per riottenere il posto di lavoro. Che dopo 24 anni, non si è ancora conclusa. Ma c’ è un fatto nuovo.
Due sentenze del Tar e del Consiglio di Stato hanno stabilito la nullità del licenziamento con relativo reintegro nel posto di lavoro e risarcimento del danno. E che danno! L’esborso degli stipendi non goduti per vent’anni con relativi interessi. Il datore di lavoro ha dovuto sborsare poco meno di un miliardo per risarcire il medico, cioè l’ingiusto licenziato. E la vicenda non si è ancora conclusa perché il dottor della Ragione non si accontenta della somma erogata. Vuole ottenere il doppio. Ma vediamo come stanno le cose. Dottor della Ragione a che punto è la sua ultradecennale controversia con l’ ASL Salerno 1? Si è conclusa solo parzialmente, perché dopo 24 anni di liti giudiziarie ed extra giudiziarie mi sono state liquidate le spettanze come dipendente a tempo definito, mentre il mio rapporto di lavoro con l’ospedale di Cava de’ Tirreni era a tempo pieno. E qual è la differenza? Una differenza sostanziosa, nel senso che a fronte di più ore di lavoro corrisponde quasi il doppio dello stipendio. Vogliamo essere più precisi e parlare un po’ di cifre? Certo, il commissario liquidatore dell’USL ha deliberato la somma di 636 milioni e 376mila320 lire per chiudere la mia vicenda, ritenendo così “di evitare ulteriori oneri” (parole testuali del provvedimento) se la stessa fosse proseguita nel tempo.
Di questi soldi, 65 milioni sono stati versati agli enti previdenziali ed i restanti 571 al sottoscritto, il quale ha dovuto pagare 26 milioni di oneri pensionistici e 110 milioni di acconto Irpef, senza contare gli onorari degli avvocati difensori che in oltre 20 anni sono ammontati a circa 50 milioni, tutti rigorosamente senza ricevuta, a fronte dei quali la sentenza mi ha riconosciuto appena 800mila lire per spese legali. Mi restano da pagare ancora altre cospicue quote di Irpef, per cui credo mi resterà molto meno della metà di quanto mi è stato dato. Come si è giunti a queste cifre? Interessi e rivalutazione monetaria hanno inciso per quasi il 70% nel determinare la cifra finale. Ciò significa che questo ritardo, oltre ad aver danneggiato lei che ha dovuto attendere anni, ha danneggiato anche la collettività, cioè tutti noi, facendo spendere centinaia di milioni inutilmente?
Esatto: lo scellerato comportamento dilatorio dell’ASL ha comportato un danno consistente per l’erario e se fossimo un Paese civile ed efficiente, se non la magistratura penale, almeno la Corte dei conti si dovrebbe interessare della vicenda sanzionando severamente i responsabili, colpendoli nel loro portafoglio. E’ contento che tutto si sia concluso? Non si è concluso proprio niente. Mi è stata riconosciuta solo metà delle mie spettanze, per cui ho già instaurato tramite i miei legali un “giudizio di ottemperanza” per recuperare le altre somme che mi spettano di diritto. E non è finita. Anche quando mi saranno riconosciute tali differenze (si tratta di circa mezzo miliardo, oltre ai contributi previdenziali!) resterà da definire la vicenda riguardante gli anni dopo il 1992, a riguardo della quale, a conferma della proverbiale celerità della giustizia italiana, deve ancora celebrarsi il giudizio di primo grado davanti al Tar di Salerno. Esiste pure una seconda controversia? Certo, ma vorrei raccontarle tutto da principio.
Nel 1977 prestavo servizio come ginecologo presso l’ospedale di Cava de Tirreni. Iscrittomi ad una seconda specializzazione in Chirurgia generale ed attraversando un periodo di salute precaria, chiesi all’amministrazione un periodo di congedo senza retribuzione. Ma la risposta fu negativa: premetto che l’allora direttore amministrativo Enrico Violante, che per inciso è da poco ritornato alla sua scrivania di comando dopo una lunga peregrinante odissea, nutriva e nutre tuttora nei miei riguardi un’implacabile quanto ingiustificata antipatia, che tra l’altro ho sempre ricambiato. Si vociferava che fosse becco e che io avessi collaborato a renderlo tale. Il risultato, per l’impegno di studio e di lavoro, fu l’ aggravarsi della mia ipertensione, di conseguenza ci furono lunghi periodi di malattia con congedi sempre decisi dalle commissioni mediche, che più volte mi sottoposero a controlli.
Nell’aprile del 1978, mentre in Parlamento si discuteva della legge sull’aborto, concessi al quotidiano La Stampa una intervista choc, nella quale dichiaravo candidamente di aver praticato in due anni 14mila aborti. Sbattuta a nove colonne in prima pagina, la notizia, ripresa con grande risalto da molti quotidiani e televisioni, determinò un’accesa discussione e contribuì non poco all’approvazione in Parlamento di una regolamentazione più moderna della spinosa questione. L’amministrazione dell’Usl, indignata, prese al volo l’occasione per licenziarmi, nonostante fossi ammalato. Seguì l’ annullamento del provvedimento prima da parte del Tar e poi del Consiglio di Stato. Non paga, l’Usl imbastì anche un’accusa di truffa davanti al Tribunale di Salerno, procedimento che cadde miseramente e per il quale fui assolto con formula piena. Perché fece quelle dichiarazioni? Per il mio mai sopito spirito libertario per il quale senza paura mi batto da oltre 30 anni, sprezzante delle gravi conseguenze che spesso ho dovuto sopportare. In quella occasione fece seguito un procedimento penale dal quale uscii assolto dopo anni e subii anche un attentato terroristico da parte delle farneticanti squadracce di “Fede e Libertà”, che fecero saltare in aria la mia Jaguar.
Con minacce e intimidazioni, soprattutto provenienti da alto loco, ho oramai imparato a convivere. Come mai nel 1992 lei fu reintegrato nel servizio? Nel 1990 il Consiglio di Stato confermò la sentenza del Tar, per cui l’ ospedale dopo varie tergiversazioni si vide costretto a riassumermi. Risultando io malato per molti anni di ipertensione maligna, quelli dell’ASL richiesero preliminarmente un’approfondita visita fiscale sperando di non dovermi più riammettere in servizio. Invece nel corso della visita i sanitari rimasero meravigliati del mio perfetto stato di salute e ancora più increduli nell’ apprendere che tali condizioni erano la conseguenza di un mio pellegrinaggio a Lourdes.
Così furono costretti a riprendermi in servizio, ma del risarcimento economico dovutomi non se ne vedeva ombra; l’amministrazione accampava le più diverse scuse per non pagare. Nel frattempo misi in atto una sperimentazione riguardante una metodica per indurre l’aborto con farmaci e non con interventi chirurgici, ottenendo un ampio consenso tra le pazienti che cominciarono ad affluire sempre più numerose anche da comuni lontani. Apriti cielo. La reazione fu violenta, dal primario e dal direttore sanitario fino ai politici e agli amministratori. Il risultato fu un nuovo licenziamento avvenuto mentre, colpito da infarto, mi trovavo ricoverato presso il centro di rianimazione del “Loreto mare” di Napoli. Nasce così la nuova controversia che dopo circa 10 anni è ancora all’inizio. Dunque è dal 1992 che lei si è attivato per essere rimborsato? Si, e ho tentato tutte le strade: vari giudizi di ottemperanza che si concludevano con un nulla di fatto perché l’ASL, pure in presenza dell’ intimazione al pagamento, faceva orecchie da mercante. Ed inoltre pure senza risultato fu la nomina di più di un commissario ad acta, che teneva la pratica in mano per qualche anno, fino a quando, incassato l’onorario, non decadeva dall’incarico.
Negli ultimi tempi scoraggiato ma non domo tentai un contatto diretto con l’amministrazione. Macchè, trovai un invalicabile muro di gomma. Mi furono fatte poi alcune sorprendenti proposte, pare dettate da una truffaldina direttiva regionale, di rinunciare ad interessi e rivalutazioni, cioè, nel mio caso ultradecennale, al 70% circa delle spettanze. Trovai indecente una proposta simile, per cui, dopo aver registrato alcune conversazioni telefoniche, ero deciso, confortato dal parere del mio penalista, a presentare denuncia per estorsione. Alla fine desistetti e grazie all’intervento, del tutto disinteressato, di un personaggio galattico sono riuscito anche se parzialmente ad ottenere ciò che per 24 anni mi avevano negato. Può fare il nome di questa persona che l’ha aiutata a sbloccare la vicenda con l’ASL? Si dice il peccato ma non il peccatore, anche se in questo caso si tratta di un merito e di un meritevole; posso precisare però che non si tratta di un politico.
Quale conclusione può trarre oggi dopo tanti anni di ininterrotta battaglia? Dando appuntamento ai figli ed ai nipoti fra qualche decennio per tirare le somme, consiglio a tutti di non cessare mai di lottare per il riconoscimento di un proprio diritto: quanto più irto e difficile è il cammino tanto più bella e gratificante è la vittoria(quando e se arriva) finale.

P.S. – In seguito ho ottenuto il restante risarcimento, ma sono ancora in attesa, dopo soli 33 anni dall’inizio della controversia, del trattamento di fine rapporto, alias liquidazione.




Alcune nature morte del Settecento napoletano


16/9/2011

Sulla fortuna critica della natura morta napoletana settecentesca ha pesato a lungo il giudizio negativo di Raffaello Causa, il quale riteneva il trapasso tra Seicento e Settecento alla stregua di un vero e proprio passaggio dal sonoro al muto e sentenziava, nella sua impareggiabile esegesi sull’argomento, pubblicata nel 1972 sulle pagine della Storia di Napoli, che con la rinuncia del Belvedere ai piaceri della pittura si chiude il secolo d’oro e dietro di lui una folla di fioranti facili e svelti di mano ed una torma di imitatori fanno ressa su un mercato molto florido, dove alcune richieste, scaduto il gusto dei committenti, si esaudiscono a metraggio; i protagonisti sono tutti scomparsi, la parlata si è fatta fioca, incolore, dialettale e financo rozza e sgarbata, non vi è più nulla o ben poco da salvare, nonostante i fasti vecchi e nuovi del mercato dell’arte.
Il suo anatema fece si che quando nel 1979 fu organizzata la grande mostra Civiltà del Settecento mancasse una sezione dedicata alla natura morta e fu un deplorevole errore, che ha concorso a ritardare l’interesse e gli studi sul settore.
Già nella precedente mostra sulla natura morta, svoltasi nel 1964, i generisti napoletani del Settecento erano mal rappresentati, con pochi dipinti ed alcuni nemmeno autografi.
Al parere del grande studioso si attenne a lungo la critica e lo stesso Ferrari, sempre sulla Storia di Napoli, trattando degli svolgimenti artistici tra Sei e Settecento, assegnò agli specialisti napoletani poche brevi annotazioni, mentre ben più pacato era stato il giudizio della Lorenzetti nel catalogo della memorabile mostra su tre secoli di pittura napoletana, tenutasi nel 1938.
Favorevoli erano stati anche gli interventi del Testori nel 1958, che aveva riconosciuto i meriti del Realfonso e del De Logu, nel 1962, il quale, nel suo aureo volume sulla natura morta italiana, aveva dedicato ampio spazio e considerazione ai generisti napoletani, fornendo numerose notizie nuove e formulando per molti giudizi lusinghieri.
Il Settecento napoletano nel campo della natura morta è affollato anche di figure minori o di ignoti in attesa di essere riconosciuti ed eventualmente apprezzati, gli studi devono perciò riprendere con maggior lena, per colmare un deficit di conoscenza e per venire incontro alle esigenze di un mercato antiquariale nel quale, con frequenza sempre maggiore, compaiono dipinti, anche di eccellente qualità, spesso firmati ed a volte datati, i quali permettono alla critica di progredire e di fornire, giorno dopo giorno, un quadro sempre più puntuale di quella che fu una stagione, se non grandiosa, ben più che dignitosa, nel quadro della nobile tradizione figurativa napoletana.
A dimostrazione dell’interesse crescente del mercato e dei collezionisti verso la natura morta settecentesca ho riscontrato, dopo l’uscita della mia monografia sull’argomento, un susseguirsi di segnalazione di inediti, alcuni veramente di notevole qualità, che in parte rendo noti in questo articolo.
Partiamo da una Natura morta con vaso di fiori, frutta, cocomero e galline(fig.1), transitato sul mercato a Trieste, un’importante aggiunta al catalogo di Baldassarre De Caro, secondo il De Dominici uno dei più validi allievi del Belvedere” dal quale apprese primieramente a dipingere fiori, de’ quali molti quadri naturalissimi con freschezza e maestria ha dipinto”.

Il pittore incontrò il favore dell’aristocrazia locale e della nascente corte borbonica con la sua tavolozza caratterizzata da un cromatismo più greve a confronto dei colori vivaci e brillanti adoperati dai tanti anonimi fioranti attivi sul mercato all’ombra del Vesuvio nei primi anni del secolo XVIII.
L’autografia del dipinto in esame si basa sul raffronto con opere certe dell’artista. Il vaso posto al centro della composizione è lo stesso che compare in uno( fig. 2) della serie conservata nel museo del Banco di Napoli a Villa Pignatelli, eseguita nel 1715, mentre le galline inseguite dalla volpe compaiono identiche in altre tele di Baldassarre  quali la Lotta tra galli(fig. 3) siglata BDC, già in collezione D’Errico ed oggi esposta a  Matera nel museo della Basilicata o Animali da cortile su sfondo di giardino(fig. 4) siglato BDC, esitato presso la Finarte a Milano nel  novembre 1993. In particolare se confrontiamo l’apertura alare del gallinaceo in primo piano(fig.5) ci accorgiamo quanto essa sia sovrapponibile a quella presente nella Natura morta con oca (fig.6)  della Narodni Galerie di Praga. 




Rimanendo in famiglia segnaliamo un nuovo dipinto firmato di Giuseppe De Caro (figlio di Baldassarre) una Natura morta con cacciatore, cani e cervo (fig. 7), firmata, a Genova presso l’antiquario Boetto.
Di Giuseppe l’unica notizia certa che abbiamo, oltre ad alcune tele firmate, si ricava da un antico rapporto del Minieri Riccio del 1878, il quale riferisce che il 14 febbraio 1754 egli  presentò una supplica al re (Carlo di Borbone) dichiarando di avere 32 anni ed essere figlio del defunto Baldassarre, che aveva servito per molti anni la Maestà Sua nella qualità di pittore di cacce e di animali, di frutti, di fiori e di altro, che egli aveva imparato la pittura di cacce e delle cose naturali dal detto suo padre e la figura sotto la direzione del celebre defunto Francesco Solimena, chiedeva perciò essere annesso con soldo nella Fabbrica di Capodimonte. Inviata questa istanza all’intendente Giacinto Bianchi, costui in un suo rapporto del 5 marzo disse che a lui era ignoto Giuseppe e la sua abilità.

Passiamo ora a due spettacolari dipinti di Gaspare Lopez, facenti parte di una stessa serie ora dispersa tra Europa e Stati Uniti e della quale a breve verremo in possesso di alcuni documenti che chiariranno cronologia e committenza.
Essi sono due veri e propri trionfi di fiori(fig. 8 – 9) eseguiti con rara maestria, che non pongono alcun dubbio sulla paternità dell’autore grazie a cogenti raffronti con dipinti noti dell’artista in particolare con  il Vaso di fiori entro un paesaggio(fig. 10) a Modena in collezione privata, segnato da una vivissima accensione cromatica e  con il pendant (fig. 11) Cascata di fiori con cane e pappagallo  e Cascata di fiori con putto(fig. 12) esitato a Londra da Sotheby's nel luglio 2004, che condivide con la tela in esame la varietà delle specie di fiori rappresentate e la freschezza della tavolozza.




Il Lopez nato probabilmente a Napoli, fu allievo del Belvedere, ma conobbe anche le opere di Jean Baptiste Dubuisson, abile diffusore a Napoli dei modi aulici di Jean Baptiste Monnoyer,  che lo indussero ad una pittura di gusto ornamentale, a volte superficiale, ma segnata costantemente da un vivace cromatismo. Non fu molto apprezzato dal Causa, che lo definì un “divulgatore mediocre di un barocchetto illusionistico e cavillosamente decorativo, deviando verso un vistoso ornamentalismo il nobile timbro stilistico del Belvedere”.  Ebbe come allievo Giacomo Nani.
Egli amò ambientare le sue composizioni en plein air, entro parchi verdeggianti di alberi e siepi, percorsi da viali e sentieri ed arricchiti da elementi decorativi: vasi, urne, busti, obelischi, posizionati con apparente casualità insieme a resti archeologici ed uccelli multicolori come il pappagallo ed il pavone.



La Terra esplode e noi pensiamo a crescere


13/9/2011

In questi giorni i mass media ci martellano una sola demenziale parola: crescere, crescere ed ancora crescere. 
Come se per risolvere i problemi che affliggono la nostra civiltà in declino sia sufficiente aumentare la produzione e dilatare i consumi, dimenticando che siamo 7 miliardi su un pianeta dalle risorse limitate ed in via di rapido esaurimento. 
Nel frattempo l’Occidente, che costituisce il 17% della popolazione mondiale, per mantenere il suo livello di benessere, divora l’80% di beni e servizi e non si preoccupa minimamente della prospettiva che fra breve saremo prima otto, poi nove ed in breve dieci miliardi e che fra poco anche cinesi ed indiani, vorranno frigorifero e televisione, automobile e consumi smodati di cibo, vestiti ed affini. 
Povertà, inquinamento, deforestazione, effetto serra si aggraveranno, i rifiuti ci sommergeranno e noi pensiamo a crescere senza limitare le nascite, ma soprattutto le nostre esigenze che non conoscono limiti. Complice di questo scatafascio il veleno sottile del consumismo, che ha soggiogato tutti noi: dai politici agli economisti, fino all’ultimo dei cittadini, ma soprattutto gli scriteriati diktat della Chiesa, fermamente contraria, non solo alla sterilizzazione ed all’aborto, ma anche a qualsiasi mezzo di controllo delle nascite, dalla pillola al profilattico. 


Elogio dei nonni


6/9/2011
Dedicato a nonna Elvira


La figura dei nonni è comparsa da pochi secoli nella storia dell’umanità: infatti in passato la durata della vita media non raggiungeva i quaranta anni e solo eccezionalmente coesistevano tre generazioni. 
Oggi, nonostante l’implosione della famiglia, la presenza dei nonni, e soprattutto delle nonne, nella società è fondamentale e se un giorno decidessero di scioperare si fermerebbero gran parte delle attività. Chi accudirebbe i bambini mentre le madri sono al lavoro, chi si interesserebbe delle faccende domestiche e del buon andamento della cucina, chi dispenserebbe preziosi consigli ai giovani privi di bussola ed ideali? 
Anche tra le popolazioni primitive, le prime a conoscere l’importanza dei nonni per l’abitudine di sposarsi giovanissimi, il ruolo affidato alla nonna è fondamentale e nessuna tribù potrebbe sopravvivere senza di loro. Fortunatamente la specie dei nonni è molto diffusa ed in più di una famiglia un bimbo ne ha quattro a disposizione, ma per chi non ne possiede un consiglio: adottatene uno. Non si tratta di una boutade, bensì di una proposta molto seria alle famigliole in difficoltà economiche(ed oggi sono tante). 
La presenza in casa di un anziano, ancora in buona salute, ricco di esperienza, desideroso di rendersi utile e con una pensione, anche modesta, per contribuire alle spese generali, potrebbe costituire una vera panacea per tanti nuclei familiari messi in ginocchio dalla crisi economica. Si tratterebbe di una originale forma di aggregazione, ancora inconsueta, che meriterebbe una maggiore diffusione. Probabilmente un reality televisivo con Lino Banfi o una trasmissione diretta da Maria De Filippi potrebbero rivelarsi decisivi. 

Un museo per Totò


3/9/2011
Principe del sorriso sì, Altezza imperiale da oggi non più

Principe del sorriso sì, Altezza imperiale da oggi non più. Un libro su Napoli e la napoletanità che non dedichi un capitolo a Totò non si può nemmeno immaginare, ma su di lui sono stati scritti decine di volumi, per cui è difficile aggiungere qualcosa di originale.
Faremo tesoro di alcune interviste che abbiamo avuto modo di fare alcuni anni fa alla figlia e ad un cugino del grande artista per parlare del museo del quale da decenni, ad ogni tornata elettorale, si annuncia l’apertura e della presunta nobiltà del principe, sulla quale possiamo presentare documenti decisivi che dimostrano che si tratta di uno scartiloffio.
Negli ultimi giorni le pagine dei quotidiani napoletani si sono infittite di altalenanti notizie sulla casa natale di Totò che cambiava proprietario, mettendo a repentaglio il destino di due anziani coniugi ultraottuagenari, da decenni custodi fedeli ed a richiesta dispensatori di memorie sui primi vagiti ed i primissimi anni dell’immortale attore. Si sono susseguiti innumerevoli colpi di scena, quali la scoperta anagrafica, ottenuta compulsando antichi archivi, che l’abitazione oggetto della diatriba, sita in via Santa Maria Antesecula 109 nel popolare rione Sanità, non era forse il vero luogo di nascita del principe della risata, bensì l’evento sarebbe avvenuto nel palazzo adiacente, oppure che i nuovi proprietari, dopo un sogno premonitore, erano intenzionati a farne un Vittoriale di rimembranze. Tanto casino sui giornali ha dato come sempre l’occasione alle autorità politiche di occupare la scena, imponendo tardivi vincoli di destinazione alla povera casetta o blaterando vanamente sull’imminente apertura del museo dedicato ad Antonio De Curtis nello storico palazzo dello Spagnolo. Apertura della quale da anni si parla come prossima in comunicati stampa diramati a gara ad ogni ricorrenza dal Comune e dalla Regione, ridondanti di paroloni, ma vuoti come consuetudine di pragmatismo.
A tal proposito abbiamo voluto sapere come realmente sta la situazione dalla viva voce della figlia dell’artista, la quale ci ha concesso un’intervista: 
“E’ tutta colpa di un cesso”, così ha esordito la signora Liliana in un romanesco stretto e cacofonico lontano mille miglia dalle sonorità onomatopeiche del nostro vernacolo.
“Un cesso?” “Certo, il museo si trova agli ultimi piani del palazzo ed è perciò necessario un ascensore; a tale scopo ne ho fatto approntare la tromba già da tempo, ma mentre i mesi e gli anni passano per le lungaggini burocratiche un inquilino del palazzo ha deciso di costruirvi abusivamente all’interno un cesso. Cose che capitano solo a Napoli”
“E’ fiduciosa nell’inaugurazione autunnale?”
“Lo spero con i dovuti scongiuri e quando aprirà io sarò in prima fila nell’organizzazione con seminari, dibattiti ed incontri con i giovani. Sarà un museo molto vivo e Totò sarà contento”
“Si riuscirà a riempire tutti i locali?”
“Certamente c’è molto materiale, sarà anche ricostruita la stanza dove nacque mio padre”
Da parte nostra speriamo che a ciò che metterà a disposizione la signora De Curtis, si riuscirà ad aggiungere il contenuto di quel famoso baule , oggi proprietà del figlio di un cugino dell’ attore, da poco scomparso, un certo Federico Clemente. Il baule, conservato a Pollenatrocchia è ritenuto poco meno di un reliquario, infatti la richiesta del proprietario è  di 800 milioni delle vecchie lire, una cifra cospicua per la quale bisogna sperare nell’intervento delle Istituzioni. Quando tutto sarà pronto il museo costituirà un’attrazione molto forte per i napoletani e per i forestieri, per cui si tratterà pur sempre di un buon investimento.
Questi episodi di attualità invitano a parlare di nuovo di Totò, una figura ormai entrata di diritto nella leggenda, ma dopo i fiumi d’inchiostro versati sull’argomento in decine di libri che hanno saturato da tempo le scansie delle librerie degli appassionati, non è lecito scriverne ancora se non si è in grado di aggiungere qualche novità. Ed è quello che ci proponiamo di fare grazie all’amicizia che nutriamo da anni con un cugino dell’indimenticabile attore: il maestro Federico De Curtis.
Prima di discutere della nobiltà dell’artista vorremmo spendere qualche parola su un aspetto trascurato dell’arte di Totò: il surrealismo.
Il genio di Totò è universale ed incommensurabile, ma la sua fama è sempre stata circoscritta ai confini patri, colpa di una critica miope, quando l’attore era in attività, di traduzioni e doppiaggi a dir poco deleteri e di una distribuzione all’estero maldestra ed approssimativa.
Negli ultimi anni grandi rassegne in Europa ed oltreoceano sui suoi film più celebri hanno in parte colmato questa grave lacuna, ma forse è troppo tardi per portare in tutto il mondo il suo umorismo straripante, la sua figura dinoccoluta, la sua maschera comica e tragica allo stesso tempo, degna della fama e dell’immortalità di un archetipo greco. Il ritmo dei suoi film mostra i segni del tempo, né più né meno della produzione di mitici personaggi come Chaplin o Gianni e Pinotto ed è un peccato che dalla sua immutata vitalità possano continuare a trarre linfa vitale solo gli Italiani e pochi altri.
Il Totò surreale che si esprime già nei suoi film più antichi e nel suo teatro, del quale purtroppo non è rimasta che una labile traccia, è stata sottovalutata anche dalla critica più attenta. Nei trattati di cinematografia infatti si parla soltanto di Bunuel e delle sue impeccabili creazioni e non vi è un solo rigo sul funambolismo verbale di Totò, che avrebbe fatto impazzire i fondatori del surrealismo, i quali avrebbero sicuramente incluso qualcuna delle sue battute nel Manifesto del nuovo verbo.
I due orfanelli, uno dei suoi primi film, in coppia con Campanini, ne è la lampante dimostrazione. L’altro giorno è stato messo in onda dalla televisione ed ho potuto gustarlo credo per la centesima volta. Quelle sue battute al fulmicotone, immerse in un’atmosfera onirica, cariche di antica saggezza invitano alla meditazione ed acquistano smalto ed attualità col passare del tempo. Sono degne di un’antologia da studiare in tutte le scuole. Ne rammento qualcuna per la gioia della sterminata platea dei suoi ammiratori:
Ai generosi cavalieri corsi a salvarlo nelle vesti di Napoleone.
“Ma quando mai coloro che provocano le guerre corrono dei pericoli”
All’amico che gli manifestava stupore nel constatare che i cattivi vengono premiati ed i buoni vengono castigati.
“Ma di cosa ti preoccupi la vita è un sogno”
Ed infine all’abate Faria che lo invitava a scappare
“Ma perché debbo scappare, sono innocente”
“Proprio perché sei innocente devi avere paura della giustizia!”
Una frase scultorea che ho fatto mia di recente, mentre moderavo la presentazione di un libro in presenza di magistrati di altissimo rango e che mi ha permesso di fare un figurone.
Ma ritorniamo al racconto del cugino di Totò, il quale con squisita gentilezza ci ha fornito una serie di notizie che, integrate da alcune ricerche genealogiche, ci permette oggi di escludere categoricamente la nobiltà tanto agognata da Totò, perché lo riscattava da un triste passato di figlio di N.N.
Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Commneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio, Altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e d’Illiria, principe di Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponto, di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte e duca di Drivasto e di Durazzo, così amava definirsi il grande Totò, il quale pur di fregiarsi di questi altisonanti titoli nobiliari spese una fortuna, ma senza rimpianti.
Questa sfilza di titoli, a cui tanto teneva il Principe del sorriso non furono altro che il frutto di un raggiro ad opera di un tal Pellicani, esperto di araldica oggi ottantenne ma ancora attivo con studio a Roma e a Milano.
Il primo a sentire puzza di bruciato e odore di truffa fu Indro Montanelli e lo esplicitò in un suo articolo, ma all’epoca non vi erano le prove inoppugnabili dello scartiloffio.
Oggi viceversa sono disponibili due ben distinti alberi genealogici, uno di Totò e della sua famiglia e l’altro di un tal Camillo de Curtis, un gentiluomo di settantanove anni, da anni residente a Caracas, legittimo erede dei pomposi titoli nobiliari, assunti in epoca remota da un suo avo tale Gaspare de Curtis.
Il Pellicani, che tra l’altro, come ci ha assicurato il colonnello Bellati, è stato per un periodo ospite dello Stato…creò, secondo quanto riferitoci dal tenore De Curtis, che da decenni s’interessa alla vicenda, documenti dubbi, quali una sentenza del Tribunale di Avezzano emessa nel 1914, pochi mesi prima che un cataclisma devastasse la città, distruggendo la cittadella giudiziaria ed altre due sentenze, l’una del 1945, l’altra del 1946, del Tribunale di Napoli, oggi conservate all’Archivio di Stato, completamente diverse nella grafia da tutte le altre carte contenute nel faldone ed inoltre pare combinò artatamente le due discendenze carpendo l’ingenuità del grande artista che, una volta riconosciuta la sua preclara discendenza, fino alla morte amò distinguere la maschera, irriverente scoppiettante e canzonatoria, dal Nobile, gentile, educato e distaccato dagli eventi e dalle passioni. Pubblichiamo per la prima volta questi due alberi genealogici, uno dei quali indagato fino al 1750 e dal loro esame è incontrovertibile che il marchese Camillo de Curtis appartiene ad una diversa schiatta.
Ciò che abbiamo riferito sulla base delle confidenze del maestro Federico, non sposta naturalmente una virgola nella straripante venerazione con cui legioni di estimatori ricordano il grande, inimitabile, immortale artista e tra questi ai primi posti, teniamo a precisare a scanso di equivoci, sta il sottoscritto, il quale ha rivisto ogni film di Totò non meno di quaranta - cinquanta volte ed è in grado di ripeterne a memoria qualsiasi battuta, tutte le poesie e tutte le canzoni. Ma a proposito di canzoni, trovandoci, vogliamo rendere pubbliche altre confidenze forniteci gentilmente dal parente dell’attore, cugino di secondo grado, il quale, a riguardo dell’indimenticabile canzone “Malafemmina” tiene a precisare che la stessa fu dedicata alla moglie Diana, ancora oggi vivente e non a Silvana Pampanini, che l’idea della melodia Totò la prese da una analoga canzone dello zio, padre del maestro Federico, ed infine che a ritoccare musica e parole misero mano il maestro Bonagura e Giacomo Rondinella. E per terminare anche la famosa “Livella”si mormora fosse stata corretta…da Mario Stefanile.
Concludiamo un articolo, apparentemente denigratorio, ma rispettoso della verità storica con un inno all’arte di Totò, sublime nel senso più puro, come inteso da Nietzsche, infatti il grande pensatore tedesco riteneva che il sublime si raggiungesse soltanto quando la comicità della commedia si congiungeva al dramma della tragedia.
E siamo inoltre certi che Totò dalla tomba se leggesse ciò che abbiamo scritto saprebbe commentare le nostre parole se non con una pernacchia almeno con un perentorio:”Ma ci facciano il piacere.”
Creatore di una lingua geniale, caustica e scoppiettante, piena di onomatopeici neologismi, espressa in più di cento film, a tal punto che Fellini, pieno di giusta ammirazione, lo definiva benefattore dell’umanità.

Matrimoni internazionali


3/9/2011

L’Europa, figlia dell’utopia, sta per andare in coma. La crescita del debito pubblico in quasi tutti gli Stati, unito alla calamitosa inflazione strisciante che, dall’entrata in vigore dell’euro, erode stipendi e risparmi, sono le spie più vistose di un malessere diffuso, che sta mettendo in crisi un così ambizioso progetto, nato nelle stanze del potere segreto dei banchieri di Francoforte. 
Il sogno malizioso di una grande Europa dall’Atlantico agli Urali non può reggere naturalmente soltanto su di una moneta, ma è necessario che i popoli, divisi oggi dalla lingua e dalla storia, da abitudini e legislazioni diverse, diventino un solo popolo. Un obiettivo che può divenire più facile attraverso l’ aumento dei matrimoni internazionali. Se tutti i governi erogassero dei cospicui incentivi economici e fiscali alle coppie, naturalmente con prole, ai cittadini di diversa nazionalità che volessero mettere su famiglia, un passo decisivo verso l’integrazione europea sarebbe compiuto e l’Europa, in capo a 2- 3 generazioni, passerebbe dalla fantasia alla realtà. 
Un provvedimento semplice senza il quale il nostro futuro demografico è semplicemente senza speranza. Mi sia permesso un ricordo personale: la malattia di fare proposte attraverso lettere al direttore lo ho contratto in età pediatrica. La mia prima missiva fu indirizzata al mensile Quattrosoldi (novembre 1960) e trattava proprio dei matrimoni internazionali. L’argomento è ancora attuale. Era il 1960, il direttore della rivista nella sua risposta ironizzò e sospettò che stessi per sposarmi con una straniera, non sapeva che da poco avevo compiuto tredici anni. 

La globalizzazione della prostituzione


27/8/2011

Dopo averci invaso per anni con i suoi prodotti a prezzi stracciati la Cina ha completato l’opera inviandoci legioni di prostitute, in gran parte minorenni, le quali stanno sconvolgendo anche il mercato della prostituzione, che sembrava al riparo dagli effetti della globalizzazione. 
Non saranno forse belle come le slave o calienti come le cubane e le brasiliane, ma certamente sono meticolose e pazienti e soprattutto offrono un servizio completo per 10 euro, alcune addirittura per 5, permettendo così un allargamento del bacino di clientela, che comprende ora anche disoccupati e nullatenenti. O tempora o mores. 

Da che pulpito viene la predica


25/8/2011

Come è bella la massima evangelica: non guardare la pagliuzza nell’occhio del tuo vicino, ma concentrati sulla trave che sta nel tuo; peccato che la Chiesa se ne dimentichi ed attraverso la voce dei suoi più illustri rappresentanti, come il cardinale Bagnasco, arringhi la folla contro il governo, che non è in grado di contrastare un’evasione fiscale impressionante e critichi i partiti “lontani” dalla gente. 
Ma se la Chiesa, nonostante le sue ricchezze, gode di anacronistici privilegi, come l’esenzione dell’Ici e l’Ires scontata al 50%, il che equivale a 3 miliardi di euro ogni anno sottratti all’erario! Forse l’ineffabile porporato spera che attraverso un più serrato controllo del fisco la Cei possa incamerare con l’8 per mille due miliardi al posto di uno? Nonostante la Santa Sede possegga un patrimonio immobiliare corrispondente al 20% di quello nazionale. 

La violenza scatenata dalla civiltà dei consumi


14/8/2011

La rivolta che divampa furiosa negli slum britannici segue a breve distanza i disordini nelle banlieu francesi. A provocarli, oggi come ieri, i figli degli immigrati di colore, islamici in gran parte, quasi tutti disoccupati e privi di speranze per il futuro, i quali vivono stentatamente grazie ai sussidi dello Stato. 
Davanti ai loro occhi una civiltà basata su un consumismo sfrenato quanto irragionevole. Sono stati anche loro colpiti dal veleno perfido e sottile di una civiltà al tramonto, ma ancora in grado di ammaliare e di condurre alla perdizione, complici sistemi democratici impotenti e corrotti, anche loro al capolinea. Fino a pochi anni fa il mondo era diviso in ricchi e poveri, pochi i primi, numerosi i secondi, costretti a faticare per rimediare una minestra con un po’ di pane o una ciotola di riso. 
Da quando un capitalismo selvaggio ha cominciato a governare il mondo vi è stato da rispettare un solo comandamento: consumare, consumare, consumare. I supermercati sono diventati le nuove cattedrali con l’elenco della spesa a fare da breviario, mentre la visita, almeno settimanale, ai centri commerciali ha sostituito il rito del pellegrinaggio. 
Chi non può accedere a beni inutili, ma trasformati in indispensabili da una pubblicità martellante ed ubiquitaria, si percepisce come una nullità e riesce a placare il morboso desiderio di possedere unicamente distruggendo, saccheggiando ed incendiando; ciò che sta succedendo in questi giorni nelle periferie inglesi, domani dappertutto. 

Un addio a Maurizio Marini, lo studioso che dormiva con un Caravaggio


12/8/2011

Conobbi Maurizio Marini alcuni anni fa. L’incontro era fissato per il pomeriggio, grazie ai buoni uffici di Pietro, un professore mio amico, che si era offerto di presentarci.
Egli abitava in  una stradina della vecchia Roma, un palazzo apparentemente modesto. Saliamo al quarto piano con l’ascensore e quando entriamo veniamo accolti da una marea debordante di libri d’arte, che occupano ogni angolo della casa, straripando dagli scaffali ed impossessandosi di ogni spazio disponibile, al punto che muoversi è una vera impresa, anche perché l’abitazione è posta su due livelli con lunghi corridoi e temerarie scalinate, che si affrontano con timore reverenziale, a stento rincuorati sapendo che di recente  sono state scalate con successo anche dal centenario Denis Mahon, una leggenda della storia dell’arte.  Alcune stanze  si aprono su piccoli e grandi terrazzi e su uno di questi ci accomodiamo per trascorrere alcune ore di colta conversazione, pasteggiando una bottiglia di prosecco di Valdobiadene veramente squisita, intitolata dalla ditta produttrice al nome del grande pittore e regalata in cospicue quantità all’esimio studioso per onorare uno dei massimi conoscitori dell’artista. 
Avevo portato con me il Secolo d’oro della pittura napoletana, una mia fatica in dieci tomi per farne dono al padrone di casa, speranzoso fosse un adeguato biglietto di presentazione. 
Passiamo oltre un’ora in un entusiasmante giochetto culturale, cercando di indovinare il nome degli autori rappresentati nella prima e quarta di copertina dei vari fascicoli. 
Pietro partecipa fuori gara, conoscendo già da tempo l’opera, mentre l’anfitrione e la sua giovane e colta compagna alternano nomi precisi a vistose cantonate.
Il tempo vola letteralmente nella conversazione, tra progetti di visite a mostre, collezioni private ed importanti rassegne antiquariali prossime ad inaugurarsi.
La casa, oltre a possedere  40 -  50.000 libri, è ricca di un centinaio tra dipinti e disegni, la quasi totalità inedita e tutti di grandissimo interesse e di straordinario valore venale.
Naturalmente è d’obbligo una visita guidata dall’esimio proprietario, il quale di ogni opera conosce vita, morte e miracoli.
Per assoluta mancanza di spazio solo metà dei quadri è affissa alle pareti, mentre molte decine, anche se di autori degni di figurare in un museo, sono malinconicamente accatastati in attesa di una superficie libera.
Gli autori rappresentati coprono tutta la pittura europea del ‘600 e del ‘700 e descriverli  sarebbe impresa improba, ma su tutti domina un quadro da top ten, l’unico che descriveremo.
La visita guidata dura alcune ore e si completa arrivando nella stanza del principe, bisogna oramai che lo chiami così, piccola, con un letto matrimoniale e tanti quadri esposti, i più cari, e tra questi mi soffermerò sull’ultimo dipinto, religiosamente preservato da una tendina, come una reliquia, come un’immagine sacra davanti alla quale pregare o sostare in meditazione.
La sorpresa lascia stupefatti quando si può finalmente ammirare l’oggetto così accuratamente conservato. Si tratta di un Caravaggio, il celebre Fanciullo che monda un frutto,  uno dei pochissimi esemplari dell’illustre pittore fuori dai musei. Se la memoria non mi tradisce ve ne è soltanto un altro, di non certa attribuzione, nella collezione di una stramiliardaria americana, mentre il nostro è confessato e comunicato, ultra documentato ed ineccepibile.  E parlando di vile denaro, il principe mi ha confessato di aver rifiutato per il suo quadro, anni fa, un’offerta di decine di miliardi.
E sono certo abbia fatto la scelta migliore, perché potersi addormentare guardando un Caravaggio è un privilegio unico, indimenticabile, inestimabile.


La crisi economica


12/8/2011

L’attuale crisi economica mette in forse il benessere dei popoli ricchi della Terra, mentre miliardi di poveri si vedono scaraventati sempre più nell’abisso della fame, della siccità e delle malattie. 
Non vi potrà essere futuro per l’umanità se non si cerca di colmare il divario che separa attualmente un 20% che consuma l’80% delle risorse del pianeta, dal restante 80% che deve arrangiarsi con il 20%. Non vi sarà speranza di pace e giustizia fino a quando nel terzo mondo si morirà di inedia, mentre in occidente cresce il flagello dell’obesità 

Quanti parlamentari ci vogliono per confezionare una buona legge?

10/8/2011

Dopo che per tre anni di seguito è stata colpevolmente negata l’evidenza, ci siamo trovati fra capo e collo una manovra che ha smontato brutalmente tutte le mendaci dichiarazioni propinate disinvoltamente agli Italiani.
L’aspetto davvero grave è che, con un ignobile accanimento, la manovra si è appuntata sulle spalle delle categorie più deboli, quelle che pagano fino all’ultimo centesimo tasse e contributi.
Maggioranza e opposizione non hanno valutato nemmeno alla lontana di colpire l’evasione da brividi (circa 500 miliardi accertati) e i benefici immensi di quelle classi privilegiate che continuano provocatoriamente a navigare nel lusso e nel superfluo.
La scusante che bisognava dar conto tempestivamente alla sfiducia internazionale maturata sull’analisi della crisi che incombe sugli italiani, non giustifica le scelte inique e arroganti, vergognosa espropriazione del modesto recupero inflativo sotto l’inarrestabile spinta dell’insostenibilità finanziaria del sistema Italia.
Da tante parti si predicano rigore e comportamenti responsabili, invece assistiamo, quotidianamente, al crescere degli scandali e all’infittirsi degli abusi e degli sperperi con la compiacente acquiescenza di quasi tutta la casta al potere (chi governa e chi simula di opporsi con sonnolenta fragilità).
Un elettore di sinistra, dopo la complice votazione per salvare le province, come può rimanere fedele a un partito propenso, sfacciatamente, alla tutela della categoria degli amministratori pubblici?
Dopo aver subito il blocco della perequazione automatica del 2008, che ha prodotto danni i cui effetti si riverbereranno vita natural durante e perfino sulla pensione del coniuge superstite, con quale spirito si può “condividere” un nuovo raffreddamento dell’aggiornamento dei trattamenti previdenziali, frutto di sacrifici di un’intera esistenza lavorativa?
Non bisogna dimenticare che il blocco del 2008, inserita all’art. 5 dell’accordo sul welfare, fu già capziosamente applicato anche sulla parte di pensione complementare, costituita con accantonamenti dei lavoratori (il famoso secondo pilastro della previdenza tanto enfatizzato), gratificando i fondi privati delle banche e non l’INPS o altro ente erogatore pubblico.
Si ebbe l’ardire di sostenere che, attraverso quella surrettizia imposta una tantum (in verità un vero balzello di carattere patrimoniale) che aggrediva chi, essendo rimasto al lavoro fino a tarda età, aveva titolo a una pensione più elevata, si sarebbero favorite competitività e crescita sostenibili (evidentemente non ai pensionati).
In pratica gli estensori dello scellerato provvedimento attuale si ripromettono di produrre un ulteriore blocco sia sui redditi erogati dalla previdenza pubblica, sia su quelli corrisposti da Fondi privati.
Di conseguenza, il risparmio connesso al mancato adeguamento della pensione INPS produrrà un concreto beneficio per il Bilancio dello Stato, mentre il blocco sulla parte di pensione integrativa di natura privata, di fatto, genererà un arricchimento per gli enti erogatori e un corrispondente danno per le casse dello Stato per il mancato incasso delle relative imposte, autentica sgrammaticatura giuridica.
La norma, al di là dei suoi aspetti di sicura incostituzionalità (un’addizionale limitata ai redditi solo di pensione), ha uno smaccato valore simbolico: punire una categoria, esposta pervicacemente all’odio degli ignoranti perché ha il torto di percepire redditi più che legittimi.
E’ lecito domandarsi perché, quando si assumono certe decisioni così gravi, non si valutino adeguatamente vantaggi e benefici. Forse i vantaggi per gli enti privati sono stimati più preziosi dell’interesse dei singoli e perfino dello Stato.
La stessa Corte Costituzionale, nella sentenza 316/2010, aveva ammonito che la sospensione del meccanismo di perequazione, o la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, violerebbero il principio costituzionale della difesa del potere d’acquisto.
In conclusione desidero rivolgere una precisa domanda ai legislatori: è d’oro la pensione di 4.000 euro corrisposta a 65 anni dopo 40 anni di servizio e di relativi versamenti (godibile per 13-15 anni) o è più preziosa quella di 1.500 euro attribuita dopo 20 anni di servizio e godibile per circa 40 anni?
Se si continuano a penalizzare i lavoratori ultracinquantenni, invece che apprezzare le loro doti di esperienza e d’inserimento nell’ambiente lavorativo, come si può predicare – senza avere il coraggio civile di applicarlo – il sacrosanto innalzamento dell’età pensionabile in funzione dell’allungamento della vita della popolazione?

di Carlo della Ragione

L’inarrestabile trionfo dei mercatini


3/8/2011

Napoli ha avuto sempre piazze e strade in cui si svolgevano periodicamente piccoli e grandi mercati. Lo testimoniano i celebri dipinti di Micco Spadaro raffiguranti piazza Mercato ed una Fiera di paese o in tempi più recenti le tele di Migliaro.


In passato si trattava di mercati prevalentemente alimentari e gli stessi contadini ogni giorno all’alba portavano i loro prodotti in città per la vendita: uova, frutta e verdura. 
Da alcuni anni si è rinfocolata la diatriba tra commercianti proprietari di negozi e gestori di mercatini più o meno organizzati, i quali negli ultimi tempi, segnati da una galoppante crisi economica, hanno visto aumentare vertiginosamente la loro clientela.
Le accuse sono precise e circostanziate: merci scadenti, spesso contraffatte, evasione fiscale, igiene ai limiti della decenza. A fronte di queste contestazioni innegabile è la possibilità di avere gli stessi prodotti a prezzi decisamente inferiori, una circostanza non trascurabile, che permette a moltissime famiglie di continuare a sopravvivere.

Tra questi luoghi di vendita una certa notorietà ha acquisito il “mercatino dei vip”, come suole essere denominato il disordinato assembramento di bancarelle che ogni giovedì mattina prende possesso dei vialoni di accesso del Parco delle Rimembranze a Napoli, un gioiello di verde regalato alla città da un celebre cavaliere, senza macchia e senza paura. Attenzione non si tratta del rampante Berlusconi, ma del ben più carismatico Mussolini.

In questo allegro bazar di sapore medio orientale, allietato dalle stridule voci dei venditori, che rimembrano le antiche voci degli ambulanti partenopei, si vende di tutto ad eccezione degli alimentari, con la presunzione di inseguire le griffe alla moda imitate in maniera prodigiosa e spacciate per vere.
Il mercatino è frequentato da una folla allegra e ciarliera nella quale si distinguono le signore e signorine bene della città alla ricerca spasmodica del capo di moda firmato, poco conta se apocrifo, perpetuando con l’aiuto del falso l’antica abitudine di vestire all’ultimo grido.
Sono naturalmente finte signore dalle labbra rifatte e dalle movenze sguaiate, inconsapevoli protagoniste di un doloroso quanto irrefrenabile epicedio: il malinconico tramonto di una classe borghese, che per secoli ha comandato ed oggi è sostituita da una casta prepotente e camorristica, volgare e sfacciata.
Altri mercatini meno chic, spesso gestiti da extracomunitari, anche se controllati dalla malavita organizzata, vendono merci più dozzinali, ma necessarie. Si può agevolmente constatare l’estrema convenienza di alcuni prodotti. Ho  visto  gli shampoo di  primarie marche offerti ad un euro, gli stessi in vendita, anche nei discount, ad una cifra 3 – 4 volte superiore. Camicette e magliette alla page, con impercettibili errori di manifattura quasi regalate, senza parlare degli alimentari e dei detersivi acquistabili da tutti.

Naturalmente questi prezzi stracciati, stupefacenti, sono dovuti all’assenza di spese di fitto, tasse e gabelle varie, ma soprattutto da una ridotta esosità da parte del venditore, che vuole vivere, non arricchirsi. Benedetti mercatini siete l’ultimo baluardo contro la globalizzazione, un’isola felice lontana dall’egoismo e dalla frenesia del guadagno. 
Grazie a nome di tante famiglie che sarebbero altrimenti ridotte alla fame.
Un discorso a parte merita il mercatino dell’antiquariato, che si svolge in alcuni fine settimana nei vialoni della Villa comunale, un appuntamento vivace che, nato in sordina, ha conquistato in breve tempo la fiducia dei collezionisti napoletani e soprattutto ha fatto avvicinare alla passione per l’antico ampie fasce di neofiti. La merce esposta è la più varia: mobili e ceramiche, quadri e vasi, croste e cianfrusaglie, tappeti, statue, cartoline, manifesti, libri antichi e moderni, telefoni d’epoca e giradischi rotti, e chi più e ha più ne metta. Ogni tanto ci scappa l’affare per l’intenditore, più spesso capita l’imbrusatura per chi si avvicina per la prima volta a questo tipo di mercatini.
Gli espositori non sono solo napoletani, ma vengono da tutta la Campania ed anche da altre regioni.
Qualche domenica, con il sole ed il divieto di circolazione, la folla è straripante e gli affari per i commercianti vanno a gonfie vele.
Alcune bancarelle sono tenute da persone colte e competenti, come è il caso del signor Carmine Ceraso, antico libraro e lui stesso appassionato collezionista, che commercia in libri, stampe, documenti antichi, vecchie cartoline, foto osé d’epoca.
Oppure il signor Aniello D’Ambrosio, artigiano muratore, specializzato in restauri e mosaici, in grado di soddisfare qualsiasi ordinazione. E che dire di masto Antonio, basta il nome tanto è famoso e ricercato per le sue rare cose superflue, che fanno la gioia di ogni appassionato.
Ampia e variegata è l’offerta del Rigattiere con bottega in piazzetta Nilo e qui in trasferta con una nutrita esposizione di oggetti in vendita, dalle statue più o meno discinte, ai pupi siciliani riprodotti in legno e di varie dimensioni, fino alle composizioni di ceramica dei Castelli, di Vietri e napoletane.
I libri antichi dalle preziose copertine sono offerti in numerose bancarelle e l’occhio del conoscitore spesso riesce a fiutare il pezzo di pregio sfuggito allo stesso commerciante. Molto è anche il ciarpame e tutta una serie di cose inutili che sembra incredibile possa trovare un acquirente, ma molti sono i frequentatori di bocca buona ed alla fine ogni oggetto, se ha pazienza, trova la sua collocazione.
Le vendite sono facilitate dall’atmosfera incantevole di una splendida villa baciata dal mare, l’elemento regolatore della visibilità e della vivibilità dell’intera città e della spettacolare via Caracciolo, la strada, senza false modestie, più bella del mondo.
E su questa bellezza che tutti ci invidiano, concludiamo, per la gioia dei neoborbonici, con una favoletta.
Un bambino passeggia in compagnia dei genitori sul celebre lungomare e chiede al padre perché al famoso ammiraglio è stata intitolata una strada così importante.
“Perché era un martire del ’99 figliolo” - risponde il padre – “e cosa ha fatto per divenirlo?” – chiede ingenuo il pargoletto – “ha tradito il suo re!”.