martedì 18 dicembre 2012

Morale e diritto penale




Sconcezze, nudità, divieti ed ipocrisie attraverso i secoli

Un articolo su quest’argomento, se fosse scritto da un giurista per acquistare un titolo accademico, avrebbe ben pochi lettori, ma l’autore fortunatamente è un eclettico intellettuale, grande esperto di morale e sufficientemente erudito nel diritto penale, in condizione perciò di partorire un breve saggio sull’argomento per il lettore colto, ma la cui lettura è consigliabile anche per lo specialista.
Dobbiamo necessariamente definire cosa si intende per morale e diritto penale, facendo nostre le definizioni del dizionario Zanichelli, ed. 2011.
Per morale si considera un complesso di consuetudini e norme che un singolo o una collettività considerano come giuste e necessarie, di conseguenza accettano e propongono come modello da seguire nella vita pubblica e privata.
Per diritto viceversa si intende l’insieme delle norme legislative che regolano la vita sociale ed in particolare il penale è quel ramo che si interessa di tutelare la sicurezza dei cittadini, irrorando sanzioni, il più delle volte detentive.
Noi limiteremo la nostra indagine unicamente ai rapporti tra morale e diritto penale senza interessarci di rapine, droghe ed omicidi, lasciando al legislatore ed alla magistratura il compito di reprimere queste forme di delitti.
Esamineremo il rapporto tra morale e diritto penale restringendo l’analisi all’Occidente che ha sempre rispettato canoni comportamentali diversi dall’Oriente, dall’antica Roma in poi e dedicando particolare attenzione a partire dal XV secolo, quando comincia ad imperversare la Santa Inquisizione, la quale, nata in Spagna, si diffonde in tutta l’Europa cattolica e si interessa ufficialmente del delitto di eresia, acquisendo un potere di intimidazione quasi assoluto nell’eseguire indagini con metodi arbitrari e crudeli ed irrorando quasi sempre sanzioni mostruose e raccapriccianti.
In seguito per secoli potere politico e religione, giudici e preti, educatori e sbirri, come sottolineato da Michel Foucault, lavoreranno in sintonia nel controllare, sorvegliare e punire.
In nome del peccato e della morale vi è sempre stato qualcuno che si è arrogato il diritto di stabilire cosa sia consentito e cosa no, cosa sia lecito e cosa osceno.
Per morale, a partire dal Medioevo, prima per la Chiesa e poi per il potere, si è inteso principalmente l’analisi dell’esposizione dell’anatomia del corpo femminile, nonostante i vari attributi muliebri abbiano avuto differenti valutazioni nel corso dei secoli.
Nel Cinquecento il seno prorompe prepotentemente da scollature abissali, viene tollerato nelle corti e costituisce motivo di vanto e di attrazione fatale, immortalato dai più celebri pittori dell’epoca, mentre in epoca vittoriana era considerato osceno esporre anche una semplice caviglia a tal punto che la regina impose di imbavagliare le basi delle sedie nella sua sfarzosa corte.
Anche gli artisti possedevano una doppia morale come Pietro Aretino, da un lato autore di sonetti licenziosi, dall’altro profondamente indignato per la raffigurazione del modesto pisellino di Adamo nel Giudizio Universale di Michelangelo ed anche El Greco affermò perentoriamente che i più stupendi affreschi mai realizzati dall’uomo dovessero essere cancellati per sempre da una mano di calce, nonostante già nel 1545 il Concilio di Trento avesse esplicitamente condannato le nudità della Cappella Sistina e dato incarico di renderle più che caste, ricoprendo i corpi ignudi del Giudizio, a Daniele da Volterra, detto poi per questo incarico il Braghettone. Per chi volesse contemplare la celebre opera in versione originale, nel Museo di Capodimonte è conservata una tela eseguita da un abile copista, prima dell’opera devastatrice del Braghettone. 
L’esposizione del corpo femminile avviene cautamente nel tempo: caviglia, gamba, coscia, seno. Per i primi casti bikini comparsi in Italia negli anni ’50-’60 si rischiava di essere trascinati davanti al pretore (ignaro che, come dimostrano i mosaici di Piazza Armerina, le antiche romane lo usassero con disinvoltura) e vedersi condannate per atti osceni in luogo pubblico. Negli stessi anni a St. Tropez trionfava sulle spiagge à la page il seno al vento.
Il limite supremo è stato a lungo il pelo pubico, che non poteva addirittura nemmeno essere descritto, a tal punto che un giudice della Corte Suprema americana nel 1966 condannava l’editore di un libro “Memorie di una donna di piacere” scritto nel 1748 da John Cleland.
Il pelo femminile avrà il suo trionfo nel 1866 quando Gustave Courbet nel suo straordinario capolavoro “L’origine del mondo” immortalerà un pube ispido e senza veli in primo piano ed a gambe aperte.
Ma se torniamo indietro di mezzo secolo e ci trasferiamo a Napoli, nel 1819 assisteremo ad una gustosa scenetta con Francesco I, futuro re che porta ad istruirsi la figlia Carlotta nella zona del Palazzo degli Studi dedicata ai reperti archeologici di Pompei ed Ercolano: “Guarda, osserva, impara”. Ma mentre gli occhi della fanciulla si illuminano di morbosa curiosità, quelli dell’austero genitore si posano inorriditi tra nani con falli smisurati, femmine in pose lascive, accoppiamenti plurimi ed amuleti a forma di membri virili.
Il re infuriato ordinò l’immediata chiusura del reparto, che per la riapertura ha dovuto attendere il 1999 (per chi volesse approfondire l’argomento consiglio di consultare sul web il mio scritto con numerose illustrazioni dal titolo “Il gabinetto segreto”).
Ma torniamo al pelo pubico che troverà la sua esaltazione negli anni Settanta del Novecento, grazie a riviste come Playboy e Penthouse, mentre per il maschio nudo sorgeranno giornali specializzati per la gioia di signore, signorine ed appartenenti al terzo sesso.
Negli ultimi decenni, mutati i costumi, sarà un diluvio tra le cosce delle ballerine del can can, agli striptease integrali, mentre anche al cinema comincia a comparire il seno nudo. In Italia sarà Clara Calamai la prima ne “La cena delle beffe”.
E poi un tripudio generale dall’ingenuo spogliarello politico e sociale di “Full Monty” all’esplosione della volgarità di massa.
Da Michelangelo a Lele Mora, da Francesco I a Silvio il cavaliere ed al suo burlesque con ragazzine travestite da Obama o da Ilde Boccassini, tutto si trasforma in una storia dell’oscenità ed ecco di nuovo il potere giudiziario tralasciare i reati più gravi ed accanirsi sui palpeggiamenti senili di un cittadino libero, grazie al Viagra ed al Cajerget, di trastullarsi a casa sua.  


lunedì 17 dicembre 2012

« Una dolce morte »


Lettera pubblicata il 7 dicembre 2012 su "il Venerdi di Repubblica"
 nella rubrica "questioni di cuore" di Natalia Aspesi

Per le coppie anziane, dopo tanti anni passati assieme sorge il desiderio anche di morire insieme. 
A me e mia moglie questa rara occasione capitò anni fa in un aereo in avaria, che tentò un atterraggio di fortuna senza carrelli, ma riuscimmo fortunatamente a salvarci. Da allora tanto tempo è passato: Gli occhi si cercano sempre, le mani si accarezzano più di prima. Il desiderio si trasforma, i corpi stanchi e rugosi, diventano il soffice cuscino cui adagiarsi.
Il vecchio desiderio di Filemone di essere trasformato con l’amata Bauci in una quercia e in un tiglio uniti per sempre nel tronco e nelle radici è una mera utopia. In un paese che non permette l’eutanasia, non resta che bere assieme una tazza di dolce veleno, regalandosi vicendevolmente la morte.

Achille Della Ragione
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Natalia Aspesi
André Gorz, scrittore, filosofo, uno dei fondatori del settimanale francese Nouvel Observateur, si uccise nel 2007 assieme alla moglie malata, non potendo immaginare di vivere senza di lei,
erano insieme da 58 anni. Di lui, Sellerio ha pubblicato nel 2008 Lettera a D. inno: d'amore a Dorine, la compagna di tutta la vita da cui non ha voluto separarsi.
Mi perdoni se le ricordo che altri hanno fatto ciò che lei immagina, se segnalo ancora una volta il film Amour che racconta una storia simile.
Mi perdoni anche se le dico che, se ovviamente penso che l'eutanasia sia un diritto per chi vuole porre fine alla sofferenza o per chi sopravvive con le macchine come un vegetale, non posso pensare che si rinunci alla vita, perché muore una che sino a quel momento l'ha divisa con noi. Davanti saranno anni vuoti, tristi, ma varrà sempre la pena di viverli anche in solitudine, perché comunque la morte non unisce, cancella soltanto e non ci sono dei, che, come racconta Ovidio nelle sue Metamorfosi, premino Filemone e Bauci facendoli morire insieme e trasformandoli, per sempre, in alberi.

Natalia Aspesi





venerdì 14 dicembre 2012

Un calendario per salvare Napoli


Sant' Aspreno ai Crociferi
Santa Maria della Sapienza
Santa Maria della Scorziata



Chiese famose da salvare al degrado


Il terremoto del 1980 inferse un colpo mortale al patrimonio artistico napoletano. Da allora molte, moltissime chiese, anche di primaria importanza, sono negate alla fruizione del pubblico e dei turisti.
Le chiese di una città sono la testimonianza del suo glorioso passato, ma soprattutto possono costituire un potente volano di sviluppo perché in grado di attirare, come ai tempi eroici del Grand Tour, un esercito di forestieri.
Il calendario realizzato con tanto amore dal fotografo Listri e sponsorizzato dalla Sovrintendenza può determinare uno scatto d’orgoglio e può far capire, anche al grande pubblico, la necessità di provvedere all’incuria che si trascina con tracotanza ormai da troppo tempo.
E’ un grido di dolore che si leva disperato affinché questi sacri templi possano tornare alla stupefatta ammirazione dei visitatori.
Si tratta di edifici più o meno noti come Sant’Agostino alla Zecca o Santa Maria delle Grazie a Caponapoli, come la Sapienza o Santa Maria del Popolo agli Incurabili, ma anche le altre, prima di essere depredate ed abbandonate a vandali e ladri, hanno costituito un tassello fondamentale nella storia della città: Sant’Aspreno ai Crociferi, l’Immacolata a Pizzofalcone, San Giuseppe a Pontecorvo, la Scorziata, la Disciplina della Croce, i Santi Severino e Sossio, i Santi Cosma e Damiano ai banchi Nuovi, Santa Maria Vertecoeli.
Bisogna mobilitarsi per salvare e soprattutto bisogna fare presto.

Santa Maria delle Grazie a Caponapoli
Santa Severino e Sossio


mercoledì 5 dicembre 2012

Cronistoria di un amore folle


Una voce disperata che parla da Rebibbia

Continuamente ricevo libri da autori novelli che vogliono un parere o, i più audaci, una recensione. Purtroppo dovrei passare gran parte del mio tempo a leggere libri autobiografici che spesso non hanno alcun valore letterario per cui, anche se imbarazzato, sono costretto a dire di no.
Credevo fosse un caso simile a quello del libro scritto da Pasquale, un mio amico al quale non potevo rifiutarmi, ma dopo aver letto le prime pagine della sua “Cronistoria di un amore folle” mi sono dovuto ricredere perché le frasi d’amore, le descrizioni delle emozioni, le sensazioni voluttuose, spinte fino ad un erotismo esplicito quanto accattivante, sgorgano impetuose come un fiume in piena che appassionano il lettore, il quale brucia il libro tutto di un fiato.
Il protagonista della narrazione è l’amore, il più bel regalo che il Creatore ha fatto all’uomo; un sentimento che ci fa dimenticare la nostra condizione di animali, anche se intelligenti e ci avvicina alla spiritualità delle entità celesti.
Non possiamo credere che tutto si riduca ad un gioco di ormoni e mediatori chimici. I ferormoni, così efficaci nel regolare la riproduzione dei mammiferi scompaiono di fronte al profumo che emana prepotente dalla donna che si ama, la quale diventa il centro dell’universo e senza di lei la nostra esistenza non è degna di essere vissuta.
Il volume racconta l’amore tra Pasquale ed Elisabetta, che si dipana nel corso di vari anni e nasce come tutti gli amori: uno sguardo interessato, un sorriso di complicità che dà luogo in breve ad una passione folgorante, condita di frasi mielose, di baci appassionati, di tenere poesie recitate dall’autore nei momenti topici e che sono riportate nel testo, ma soprattutto di amplessi acrobatici e ripetuti da far invidia ai patiti del Kamasutra.
“Ci baciamo intensamente, ci graffiamo, ci mordiamo ed eccoci in un attimo nell’apoteosi dell’orgasmo che esplode dentro di te e ancora e poi ancora per tutta la notte. L’amore non è materia, è qualcosa che ti esplode dentro e ti annienta, ti fa impazzire di gioia … E’ un cosmo a sé che ti perfora l’anima, ti coinvolge, ti droga, ti penetra nel sangue, ti logora, ti dà forza, ti dà pazienza, si impossessa di tutto il tuo essere.” 
La “love story” nasce a Mergellina, in un ristorante di lusso e poi si sviluppa tra Roma, dove Pasquale ha la sua attività della moda, e Napoli, dove vive Elisabetta, ma i week-end sono di fuoco.
Un brutto giorno Pasquale riceve una telefonata dal suo avvocato, il quale, imbarazzato, lo informa che per un lungo periodo deve prepararsi a divenire ospite dello stato per un vecchio procedimento andato in giudicato.
Il mondo sembra cadergli addosso, ma quando riferisce dell’intoppo ad Elisabetta, lei gli giura amore eterno e gli promette che non l’abbandonerà mai, soprattutto in un momento così difficile, non mancherà ad un colloquio, continuerà a scrivere lettere grondanti tenerezza e compassione e tutto sembrava continuare come prima, fino all’arrivo di un telegramma …. E qui non vogliamo togliere ai lettori il piacere di scoprire il finale istruttivo anche se pieno di amarezza.
E’ un libro che incontrerà, ne siamo certi, un grande successo e sarà sicuramente seguito da altri, perché Pasquale mette in mostra uno stile ed una fantasia che gli permetteranno di scrivere altre storie in grado di interessare un pubblico anche dal palato raffinato.

lunedì 3 dicembre 2012

UNA VOLTA PARTIVANO I BASTIMENTI. OGGI ARRIVANO GLI ULTIMI DELLA TERRA



Riflessioni sul fenomeno dell’emigrazione. Ricordi sulla storia italiana e considerazioni sui nuovi flussi che interessano il nostro paese



Dopo la repressione del brigantaggio l’economia meridionale subì un vistoso tracollo e per molti, quasi tutti, l’unico modo per sopravvivere fu quello di lasciare la propria terra per procacciarsi il pane quotidiano e dare un futuro ai propri figli. Lo stato sabaudo, dopo aver combattuto la rivolta con metodi militari, rendendosi responsabile di eccidi spaventosi , incoraggiava questo silenzioso genocidio del quale invano cercheremo notizie nei libri di storia.
La meta preferita era l’America e nel corso di pochi decenni oltre 25 milioni di Italiani sono stati costretti all’emigrazione oltre oceano e soltanto pochissimi sono ritornati; la maggior parte di questi disperati proveniva dalle regioni meridionali salvo una sparuta pattuglia di veneti. Il punto di partenza era il porto di Napoli da dove partivano i famosi “bastimenti” carichi fino all’inverosimile di un’umanità lacera e spaventata.
“Ah, ce ne costa lacrime st’America a nui napulitane …“ è il primo verso di una celebre canzonetta: “Lacrime napulitane”, composta nel 1925 da Libero Bovio, in cui l’autore cercò di sintetizzare il dolore e la paura di un giovane emigrante sperduto nell’immensa solitudine di New York. Il protagonista, bisogna precisarlo, si era deciso ad attraversare l’oceano per un tradimento della donna amata, un motivo futile rispetto a quello che aveva spinto al grande passo milioni di connazionali.
Un’altra celebre canzonetta del 1919 “Santa Lucia lontana” parte proprio con: “Partono i bastimenti”. L’autore è E. A. Mario, celebre per aver scritto “La leggenda del Piave”.
L’abbondanza di composizioni canore sull’argomento non deve sorprendere perché l’emigrante, scorrendogli la melodia nelle vene, reggeva una valigia di cartone ma quasi sempre portava a tracolla una fisarmonica.
Continuavano a celebrare le proprie feste come la processione di San Gennaro ed organizzavano la festa di Piedigrotta, nella quale fu lanciata “Core ingrato” composta nel 1911 da Cordiferro e Cardillo.
Straordinaria è poi la vicenda di Gilda Mignonette che, nel 1926, si trasferì dalla natia Duchesca alla rumorosa Little Italy e venne eletta a furor di popolo “La regina degli emigranti” grazie al successo planetario della sua “’A cartulina ‘e Napule”.
I nostri connazionali, dopo un interminabile navigazione vissuta nel degrado, venivano muniti di cosiddetto “Passaporto rosso” e venivano sbarcati nell’isolotto di Ellis Island, posto davanti a New York, dove la polizia li sottoponeva ad un controllo simile a quello che si riserva al bestiame. Chi superava la selezione, lentamente con l’aiuto di parenti o amici già da tempo sul posto, riusciva ad arrangiare una sistemazione ed a trovare un lavoro, sempre faticoso e sfibrante.
A qualcuno la fortuna arrideva ed ecco alcuni diventare magnati, artisti, persino santi, ma anche gangster e mafiosi. Ma a fronte di un’organizzazione criminale come la Mano nera, di origine siciliana, a combatterla vi era un super poliziotto, Joe Petrosino, figlio di emigranti originari di Padula.
E se Al Capone era figlio di emigranti campani egualmente erano di origine italiana Fiorello La Guardia, che diventerà sindaco di New York, o Frank Sinatra, celebre cantante, o Frank Capra, uno dei più celebri registi, oltre a tanti altri scrittori, poeti e saggisti di altissimo livello. Generazioni di italiani che, inclusi coloro che avevano scelto come meta Argentina e Brasile, sono stati una notevole fonte di ricchezza per il nostro paese. Valga un solo esempio: tra il 1900 e il 1922 i soli meridionali, tramite il Banco di Napoli e quello di Sicilia, spedirono ai loro parenti rimasti in patria ben 20 miliardi di lire oro e si calcola che una eguale quantità di denaro sia stata spedita per posta o consegnata a mano. Un fiume di soldi che ha permesso di sopravvivere a milioni di diseredati.
Con il fascismo il fenomeno rallentò vistosamente per riprendere negli anni ’60 e ’70 nel periodo del boom economico, questa volta verso il Nord e le ricche regioni europee: Germania, Belgio, Svizzera, dove la manodopera meridionale veniva maltrattata non solo all’estero ma anche nella civile Padania, dove abbondavano i cartelli “Non si affitta ai meridionali”, definiti sprezzantemente terroni.
Oggi esportiamo cervelli e sono i migliori ad andarsene, regalando conoscenze ed energie vitali ad altri paesi, dopo aver speso cifre ingenti per farli studiare e specializzare.
A fronte di questa emigrazione di lusso da alcuni decenni l’Italia è divenuta la terra promessa per milioni di disperati in fuga dalla fame, dalla siccità e dalle guerre. Un fiume in piena che fra poco sarà difficile da arginare, fino a quando l’Europa, nel suo miope egoismo, non deciderà di varare un gigantesco piano Marshall per creare, soprattutto in Africa, condizioni di sopravvivenza investendo nell’irrigazione, nella sanità e nell’istruzione. Sono disperati che rischiano al vita tra le onde, dopo aver percorso a piedi centinaia se non migliaia di chilometri nel deserto per raggiungere la costa libica dove vengono taglieggiati da autentici negrieri che li spogliano di ogni oggetto prezioso, oltre a pretendere cifre vergognose per fargli rischiare la vita su barconi rattoppati, pronti ad affondare alla prima onda più alta del solito. Nessuno saprà mai le dimensioni di quel gigantesco cimitero sottomarino che raccoglie pietosamente i resti di decine di migliaia di uomini, donne e bambini che sognavano la terra promessa.
Per i fortunati che toccano il territorio italiano sono pronte strutture simili più ad un lager che a centri di accoglienza dove, stipati fino all’inverosimile, attendono per mesi sotto al sole e se non sono profughi lo Stato tenta in tutti i modi di rimpatriarli.
Un’altra porta d’ingresso è quella orientale, preferita dalle popolazioni slave e dagli ucraini. Molti vengono con visti turistici e poi scompaiono nel nulla, cercando a qualsiasi prezzo un lavoro per sopravvivere: badante, manovale, contadino.
Una serie di leggi scriteriate ha cercato negli anni di reprimere unicamente il fenomeno invece di tentare di regolarlo, attraverso quote annuali secondo le richieste del mercato, come si comportano molti paesi dagli Stati Uniti all’Australia.
Questo stolto comportamento, oggi che la storia si ripete all’incontrario con legioni di disperati che vedono nelle nostre città e nelle nostre campagne una sorta di paradiso terrestre, dipende dall’aver rimosso gli anni in cui l’Italia era terra di migranti e di non aver avviato un serio programma di integrazione, addirittura nemmeno per i figli degli stranieri in regola nati in Italia ai quali non viene riconosciuta la cittadinanza.
Il problema dell’integrazione tra italiani ed il fiume di stranieri che, anno dopo anno, sempre più affluiscono nel nostro paese, in un solo luogo ha trovato piena applicazione: nei penitenziari, soprattutto delle grandi città: Roma, Napoli, Milano, nei quali ormai gli “alieni” (ma sono nostri fratelli) costituiscono la maggioranza.
Nel buio delle celle vigono regole di solidarietà sconosciute nel mondo esterno cosiddetto civile; tutti si considerano membri di una grande famiglia e chi non conosce la nostra lingua la impara in fretta acquisendo anche la cadenza dialettale locale.
Un esempio virtuoso di cui tenere conto e da perseguire perché non si può andare contro il corso della storia.
Noi abbiamo bisogno della loro energia e voglia di conquistare il benessere ed è una fortuna non una calamità che molti scelgano l’Italia, antica terra di emigrazione, divenuta oggi la terra promessa.
Il nostro passato è dimenticato, seppellito nel più profondo inconscio complici le istituzioni che non hanno realizzato un museo che ci rammenti gli anni in cui eravamo carne da macello, pronta a qualsiasi lavoro, anche il più umile e pericoloso. Un museo dell’emigrazione per ricordare il passato e per spegnere in noi qualsiasi seme di razzismo e di becero leghismo. E quale sede più degna del porto di Napoli dove per un’eternità sono partiti i bastimenti carichi di disperazione e di nostalgia, di ansia di riscatto e di antica dignità.