sabato 28 settembre 2013

Un capolavoro poco noto

01-Sepolcro di Sergianni Caracciolo


La pittura napoletana più conosciuta è quella dei secoli XVII-XIX, ma anche in epoca precedente vi sono espressioni artistiche degne di essere poste all’attenzione degli appassionati del bello e tra queste un posto di rilievo rivestono, nella cappella Caracciolo del Sole della chiesa di agostiniana di San Giovanni a Carbonara, i cicli di affreschi di Leonardo da Besozzo e Perinetto da Benevento che narrano le Storie della Vergine e degli eremitani.
Siamo nel 1427, nel periodo di transizione tra il casato d’Angiò ed il nuovo regno di Alfonso d’Aragona e per volere di Sergianni Caracciolo del Sole, gran siniscalco, si procede alla costruzione di una grandiosa cappella dedicata alla Natività della Beata Vergine. Un nuovo corpo di fabbrica rispetto alla struttura medioevale della chiesa che presentava anche una novità in senso rinascimentale per Napoli, sotto il profilo architettonico, con la cupola terminante con costoloni  e lanternino marmoreo, purtroppo distrutta dal devastante terremoto del 1688.
Due sono gli autori delle decorazioni: Leonardo da Besozzo che arriva a Napoli dopo aver lavorato al fianco del padre Michelino nel cantiere del Duomo di Milano e Perinetto da Benevento, artista singolare, il quale, ad una formazione in sintonia con l’arte angioina contemporanea, accoppia le novità e gli espressionismi del mondo valenzano. 

02-Pavimento della Cappella Caracciolo del Sole

03-Leonardo da Besozzo-Storie della Vergine

04-Leonardo da Besozzo-Nascita di Maria

Gli affreschi raffigurano cinque episodi della vita di Maria: Natività, Presentazione al Tempio, Annunciazione, Dormitio Virginis ed Incoronazione. Alla base troviamo poi le Storie di eremiti.
Nello scomparto della Natività compaiono delle rondini a simboleggiare l’arrivo della salvezza con la Resurrezione di Cristo. Tra queste ve n’è una, posta su un’asticella resa con una naturalezza sorprendente con due rapidi tocchi di colore: bianco per il petto e nero per la coda. Sembra un dettaglio trascurabile, viceversa trasuda tangibilmente l’arte tardo-gotica di Leonardo da Besozzo.
Prima di descrivere e commentare i due cicli di affreschi, vogliamo segnalare la presenza del monumento marmoreo di Sergianni Caracciolo, a cui fanno compagnia cinque cariatidi raffiguranti personaggi armati ed un imponente pavimento maiolicato giocato su varie tonalità di azzurro, che dà luogo ad un effetto di potente luminosità. 
La lettura dei due cicli decorativi parte dalla Natività di Maria, la quale è inserita in un cortile cittadino, mentre l’evento principale si svolge in una stanza. Interessante il particolare della donna intenta a spennare un gallo, un precedente di contatto con la realtà, che troverà concreta espressione in Lombardia secoli dopo nei dipinti dei Campi. Un omaggio allo sfarzo del committente lo evidenziamo nei ritratti di Sergianni Caracciolo del Sole, nello splendore di un abito nero dai risvolti bianchi, mentre sua moglie, Caterina Filangieri è abbigliata con una splendida veste di broccato con le maniche dai risvolti di pelliccia. I cappelli dei personaggi raffigurati richiamano a viva voce i copricapi in uso nelle corti del Nord, immortalati negli affreschi di Palazzo Borromeo a Milano o nel ciclo di cavalieri del Pisanello a Mantova.
Nell’Annunciazione l’Arcangelo Gabriele dalla chioma bionda e riccioluta plana verso la Vergine in preghiera in un tripudio di luce. Il pavone sulla balconata che ne riflette l’ombra, è un raro esempio di naturalismo ante litteram.
Classica l’iconografia della presentazione al Tempio, mentre nella parte bassa della Dormitio Virginis vi è un’immagine cruenta del taglio delle mani derivato da una tradizione figurativa orientale che rinvia ai Vangeli apocrifi.

06-Leonardo da Besozzo-Incoronazione della Vergine

07-Perinetto da Benevento-Storie eremitiche

08-Perinetto da Benevento


Si giunge così all’immensa esaltazione cromatica delle gerarchie celesti con la folla di angeli dai volti rubicondi, di suonatori e di cantori, che fanno cornice all’Incoronazione della Vergine.
Quanto alla presenza dell’ordine agostiniano, essa risulta chiara nel ciclo con le Storie di eremiti. Qui è possibile riscontare il riferimento a un repertorio dotto di fonti agiografiche fondate su opere come la Vita Pauli scritta da San Girolamo e la Vita Antonii di Sant’Atanasio, cardini della tradizione letteraria delle Vite dei santi Padri del deserto. Tra boschetti verdeggianti e gole desertiche si consumano le lotte con il demonio, s’intrecciano cesti di vimini, s’intagliano cucchiai come vecchi boscaioli, si sta vicino alle fiere come se fossero animali mansueti e un eremita accovacciato su una palma riceve dall’angelo il pane eucaristico. Per giungere alla Gerusalemme celeste il transito terreno diviene obbligato; un angelo attende alla porta e richiama la schiera dei frati, vestiti tutti dell’abito agostiniano, mentre intonano lodi e mirano alla Città di Dio. Il passaggio dall’eremo al cenobio costa la fatica del lavoro manuale, così mattone su mattone nasce il convento e il cuore della comunità religiosa è là dove l’abate insegna e ammonisce.
Sembra emergere nelle Storie di questi eremiti un carattere intimamente quotidiano che di colpo li avvicina alla semplicità disarmante dei detti o delle sentenze dei Padri del deserto, dei quali scrive Cristina Campo: «Parlare dei Padri del deserto non è in realtà meno impervio di quanto non fosse far parlare loro. Bisognerebbe, per farlo, essere loro, ma allora non si parlerebbe. Non si hanno ormai, o non si hanno più, nemmeno gli organi per afferrarli. Lo spazio stesso che li isola è così eccessivo da non consentire di traversarlo. Uomini più grandi del vero, come è sempre più grande del vero la Verità».
Le storie narrate negli affreschi fungevano da esempi di vita per i nuovi eremiti che aspiravano ad entrare nell’ordine degli Agostiniani e loro avevano gli occhi e lo spirito adatto ala contemplazione.

09-Perinetto da Benevento-Storie eremitiche

10-Perinetto da Benevento-Storie eremitiche


venerdì 27 settembre 2013

Un pugile editore

Tullio Pironti

Tullio Pironti scugnizzo, pugile, libraio, editore nasce a Napoli nel 1937, ha iniziato l’attività editoriale nel 1972 con il libro-reportage La lunga notte dei Fedayn scritto dal giornalista Domenico Carratelli all’indomani della strage di atleti israeliani e sequestratori palestinesi durante le Olimpiadi a Monaco di Baviera.
I suoi avi iniziarono l’attività libraria dopo la persecuzione subìta nel regno borbonico da Michele Pironti, magistrato, imprigionato insieme a Luigi Settembrini, Carlo Poerio e altri patrioti, che fu poi ministro della Giustizia dopo l’Unità d’Italia.
Come editore ha collezionato grandi successi, dal Camorrista di Giuseppe Marrazzo a Vatican Connection di Richard Hammer, a In nome di Dio. La morte di Papa Luciani di David Yallop, e ha pubblicato, spesso per primo in Italia, testi di scrittori come Don DeLillo, Bret Easton Ellis, Anna Rice, Raymond Carver e il premio Nobel egiziano Nagib Mahfuz.
Fra gli autori italiani l’editore Pironti annovera Giuseppe Marrazzo, dal cui libro Il camorrista sul bandito Raffaele Cutolo (e relative complicità) venne tratto un film di successo; e, più di recente, Fernanda Pivano con Dopo Hemingway, serie di saggi sulla letteratura nordamericana degli anni ruggenti per l’impegno pacifista e libertario, accompagnata dalla biografia - anche per immagini - della famosa scrittrice e traduttrice.
Il giornalista Carratelli ha curato l’autobiografia di Tullio Pironti, Libri e cazzotti nella quale egli narra il percorso da scugnizzo nato nel cuore antico di Napoli (via Tribunali) a pugile (40 incontri, convocato nella Nazionale italiana Pugilato, pesi Welter) e infine librario ed editore. È stato tradotto in America, se ne farà un film.
Il suo secondo libro è Il paradiso al primo piano, con un attenzione particolare alle donne, all’educazione sentimentale e allo svezzamento sessuale riparte dal 18mo compleanno.
Tullio Pironti è piazza Dante, i vicoli dei Tribunali, Forcella, le viscere della città borbonica. Faccia totemica come poche. Maglione nero modello dolce vita e bavero alzato. Il naso è intatto. Le mani escono dalla tasca del cappotto solo per l’essenziale, accendere una Pall Mall, dare le carte a poker e tranciare l’esagerata pizza di Esterina. Le usa anche, le mani, per mostrare come si proteggeva da pugile negli anni ’50. La destra sulla mascella destra, la sinistra sul mento e la spalla a guardia della mascella sinistra. «Come una testuggine», spiega furbo lo scugnizzo settantenne con la licenza della terza media. «La mia boxe? Una sintesi di paura e talento». Fifone con i guantoni, audace, quasi pazzo quando maneggia libri. Scappava e colpiva da pugile. Da editore colpisce e basta. Incassa comunque, che vinca o che perda, ma sempre per kappao. «Un grande pugile mancato e un grande editore mancato», si definisce lui. La sua autobiografia ora la traducono in America. «Libri e cazzotti», due generi in via di estinzione. 
Sono tanti i Pironti a Napoli e vendono tutti libri. Tullio vive a piazza Dante, tra gli uffici della casa editrice e la sua libreria, un’istituzione in città. Gli piace raccontare storie. Uno che, come scrive Ermanno Rea, «terrebbe sveglio anche un moribondo». Quando gli prende la malinconia va dal suo amico, O’ Pacioccone, a Santa Lucia, e affitta una barca. «O’ Pacioccone è immenso. Appena mi vede mi chiede una sigaretta. Una volta mi addormentai sulla barca e venne a stuzzicarmi con la punta del remo. Pensava fossi morto. Il mare per me è come la musica. Mi dà calma. Quando le cose mi girano storto vado in barca e la notte ascolto i Pink Floyd, Another brick in the wall. 
«Fare l’editore a Napoli è difficile, ed io, come tanti napoletani, mi sono “inventato” questo mestiere, senza mezzi e senza progetti. Sin dall’inizio la mia politica editoriale è stata caratterizzata dalla pubblicazione di libri di denuncia e, successivamente, scommettendo con me stesso, ho portato in Italia autori allora sconosciuti ma entrati poi nei cataloghi dei grandi editori. Devo riconoscere, comunque, che ho avuto la fortuna di conoscere persone giuste che mi hanno dato consigli giusti».
Quando cominciò a fare l’editore era un momento in cui, oltre al potere di Mondadori ed Einaudi, esisteva la grande realtà di Editori Riuniti. A quell’epoca i giovani erano molto impegnati politicamente. Poi d’un tratto il vento cambiò, le ideologie iniziarono a tramontare, e fu anche l’inizio del ridimensionamento di Editori Riuniti. A quel punto cominciò la scalata editoriale dell’Adelphi. Dopo l’uscita di scena di Giulio Einaudi, che guidava la più grande casa editrice italiana, il nostro orgoglio nazionale, anche questa – come altre – iniziò a svolgere una politica editoriale in cui l’aspetto commerciale cominciava a prevalere sui contenuti culturali. Questo nuovo orientamento ha via via caratterizzato quasi tutto il mondo dell’editoria.
I rapporti con gli scrittori e gli intellettuali napoletani «sono stati rapporti fatti di incontri e scontri. In quello con Marcello d’Orta, ad esempio, c’è un po’ di rammarico. Ricordo che mi spedì il suo primo dattiloscritto, una descrizione di Napoli di appena trenta pagine. Era un lavoro, a prima vista, inconsistente, e non gli diedi nessuna risposta. Poco tempo dopo, lo stesso autore mandò un nuovo libro a tutti gli editori napoletani tranne che a me – lui, che era un mio ammiratore – perché ero stato così scortese da non rispondergli. Il nuovo libro era “Io speriamo che me la cavo”, che ha venduto milioni di copie ed è stato tradotto in circa venti Paesi. Quello con Peppe Lanzetta, invece, è stato un incontro più fortunato, anche se non fino in fondo. Pubblicai il suo primo libro, “Una vita postdatata”, che ebbe grande riscontro di pubblico, ma poi l’autore decise di “emigrare” da un grande editore, Feltrinelli. Voglio ricordare, infine, la mia grande amicizia con Joe Marrazzo. È con lui che è nata la mia casa editrice. Buona parte di quello che ho fatto, la devo a lui. Nel mio lavoro editoriale non ho mai perso di vista la mia città. Sognavo di dare a Napoli una casa editrice di importanza nazionale, ma realizzare questo progetto da solo era troppo difficile. Forse le istituzioni avrebbero potuto aiutarmi – sia dal punto di vista materiale che morale – come è stato fatto per la Sellerio dalla Regione Sicilia. Ma i rappresentati delle istituzioni napoletane forse nemmeno conoscevano autori come Raymond Carver, Naghib Mahfuz, Bret Easton Ellis, Philippe Sollers, Edmond Jabès: scrittori che per primo, con tanti sforzi, sono riuscito a portare in Italia».
Nella copertina di “Libri e cazzotti” c’è il boxeur non l’editore.
«Avevo una paura tremenda ma ho fatto il pugile per sentirmi protagonista. Funzionava con le donne. Era l’epoca dei Tiberio Mitri e dei Marcel Cerdan, il bombardiere di Casablanca, amante della Piaf. Ricordo il ritiro collegiale di Porto Recanati, le donne ci aspettavano a frotte. Schivare e rientrare era la nostra boxe. Benvenuti faceva un passo indietro uno avanti, io quattro indietro e uno avanti. Quando smise, Nino venne a trovarmi a Napoli. Vendeva enciclopedie a rate. Un giorno mi scontrai con uno zingaro si chiamava Tongo Troianovic. Era una montagna. Mi nutrivano con latte e carne di cavallo, niente sesso per mesi. Il ring era a Capua nel loro campo profughi. Un inferno. Avevo una tale paura che lo colpii con una violenza inaudita, indietreggiando. Poi lui morì in una rapina a New York. Quando salivo sulle navi americane ci spruzzavano di ddt prima di combattere con i loro soldati. Scendevamo con le tasche piene di whisky, sigarette e cioccolata».
«Federico Fellini voleva pubblicare i suoi ritratti di donne nude, mi ricevette a casa sua. Gli brillavano gli occhi ma poi non se ne fece più nulla. Seppi che fu Giulietta Masina a mettersi di traverso. In quell’album c’erano tutte le donne che Fellini aveva desiderato e amato, tutte tranne che lei».
«Il mio secondo libro autobiografico si chiamerà “Il paradiso al primo piano”, un verso tratto da “Via del campo” di Fabrizio De Andrè. Le prime pagine sono ambientate al “Gianna”, il bordello di Mezzocannone dove andai la prima volta. Incontrai tutti i professori universitari di Napoli».
« Per i piccoli editori non vi è futuro, in Italia si pubblica troppo, ma io non mollo, non so fino a quando, mio padre ha vissuto 102 anni. Ma lui non beveva, non fumava e fotteva. Io sono l’opposto, bevo, fumo e non fotto».
Ripetute volte ho incontrato Tullio Pironti, in veste di acquirente nella sua libreria. Invece come editore lo incontrai la prima volta per pubblicare il mio repertorio di 2000 foto a colori sui pittori del Seicento napoletano in una spettacolare veste tipografica, simile a quella di una precedente analoga opera sull’ottocento. Era necessario uno sponsor ed era pronto il Banco di Napoli, grazie all’interessamento del Presidente Pepe, assiduo frequentatore delle mie visite guidate, che aveva assicurato l’acquisto di 300 copie per farne omaggio alla clientela pregiata dell’Istituto. Purtroppo vicissitudini giudiziarie del professore Pepe mandarono a monte l’operazione che conclusi con un editore minore ed una veste più modesta. 
Altre due occasioni mancate furono quando Pironti pubblicò “L’elogio del culo” di Tinto Bass, pur apprezzando il mio “Elogio del sedere femminile” seguito dal reiterato”Panegirico del posteriore muliebre”. E’ quando pubblicò “Munnezopoli” di Paolo Chiariello, al posto del mio “Monnezza, viaggio nella spazzatura Campana”, edito dal Brigante.
Infine, il più madornale, paradigmatico di come gli editori, anche in presenza di un libro di potenziale successo, ragionando da tipografi, chiedendo all’autore un ingiustificato contributo spese, come avvenne nel 2008, quando gli proposi il mio “Tribolazioni di un innocente”, ancora inedito che in rete ha avuto 70000 lettori.
Oggi l’editoria mondiale attraversa una crisi profonda per il diffondersi di E-Book e della stampa digitale. Sono curioso di vedere come se la caverà il vecchio (nel senso di esperto) Tullio Pironti.


Il Re delle cravatte

Maurizio Marinella

Maurizio Marinella è il simbolo di una signorilità tutta napoletana e del successo planetario di un articolo, quando si affianca al genio della imprenditorialità, il rispetto dei propri dipendenti e dei clienti e non si ha paura del lavoro, anche se si è ricchi e celebri. Per convincersene bisogna alzarsi
i presto e vedere all’opera il titolare, mentre apre il suo elegante negozio in piazza dei Martiri alle sette e mezzo in punto per mettere tutto in ordine, come faceva il genitore, che alla cassa era sempre affabile e gentile ed offriva il caffè a mio padre ed a me bambino il gelato, per intrattenerci durante la meticolosa scelta delle sue cravatte.
Maurizio è un vero signore, non ha smanie di protagonismo, sa consigliare senza invadere il gusto del cliente, trattare con il personale e battersi con orgoglio per dare di Napoli l’immagine migliore.
Negli ultimi tempi, con la città invasa dalla monnezza ha fatto sentire alta la sua voce cercando una disperata difesa di un passato glorioso. Racconta che quando aveva otto anni il nonno gli disse che sarebbe dovuto rimanere sempre a Napoli, perché la città sarebbe sempre stata con Parigi e Vienna una delle grandi capitali europee.
I suoi clienti sono stati i più celebri vip della Terra, presidenti di Stato, manager, nobili, ma anche illustri sconosciuti amanti della moda e degli straordinari colori che contraddistinguono una cravatta Marinella. Sfoggiarne una significa fare un figurone in Italia, ma anche e soprattutto all’estero. Personalmente ho ricevuto i complimenti e lo sguardo compiaciuto delle signore a Parigi come a New York, in occasione di importanti ricevimenti.
La storia della famiglia Marinella comincia con il capostipite Eugenio Marinella che a 34 anni e dopo quindici anni nel settore dell' abbigliamento maschile, decise che era giunto il momento di cambiare lo stile ed il modo di vestire di un uomo che conta. E' lui fondatore della "filosofia Marinella": più che un punto vendita un salotto dove le relazioni umane si basano su disponibilità, cortesia e rispetto. Dopo di lui il figlio Luigi ed oggi il nipote Maurizio hanno portato avanti la sua filosofia facendo delle cravatte Marinella un vero e proprio simbolo di eleganza.
Negli anni che precedettero la sua morte, don Eugenio, aveva imposto al nipote Maurizio, che all'epoca aveva circa dieci anni, di trascorrere ogni giorno qualche ora nel negozio perché potesse respirarne l'aria; Maurizio ricevette così due insegnamenti: quello del nonno e delle relazioni con la vecchia clientela e quello del padre che gestisce l'avvento del boom economico. Maurizio ha saputo coniugare lo spirito imprenditoriale con la disponibilità verso la clientela: nel periodo natalizio, per esempio, dove le code davanti al negozio sono interminabili, offre sfogliatelle e caffè alle persone in attesa per farle pazientare.
Se il piccolo negozio di piazza Vittoria è, oggi come ieri, il luogo di incontro delle persone eleganti di tutto il mondo, lo si deve alle tre generazioni di Marinella che da 1914 propongono prodotti di qualità., rendendo il marchio ambasciatore di Napoli nel mondo. La passione per l’eleganza e la qualità continua ancor oggi grazie a Maurizio Marinella, che ha raccolto l’eredità della famiglia. La produzione firmata Eugenio Marinella ha conservato la scrupolosa attenzione alla qualità delle materie prime e la curatissima fattura, rigorosamente artigianale, per queste cravatte napoletane veraci e allo stesso tempo very british. DA sempre le cravatte Marinella sono al collo degli uomini più eleganti e famosi, come dimostra il libro delle firme, custodito gelosamente in bottega. E’ un vero spettacolo osservare la fila di clienti che incurante del sole o della pioggia, attende il proprio turno per godere della cortesia dei Marinella e acquistare un simbolo della Napoli fedele alla tradizione.
E' agli inizi del XX secolo che Eugenio Marinella getta le basi di quella che sarebbe divenuta una delle più favolose "storie di successo" napoletane. Nel 1914, alla vigilia della prima guerra mondiale, Eugenio decise, dimostrando un'innegabile dose di coraggio e intraprendenza, di aprire bottega in Piazza Vittoria sull'elegante Riviera di Chiaia di Napoli, allora come oggi, uno dei più bei lungomare d'Italia. La posizione si rivelò strategica per una botteguccia di soli 20 metri quadrati davanti alla quale passeggiava l'alta società napoletana. Dopo aver effettuato i lavori di ristrutturazione e acquisito i due atelier, uno molto grande per la fabbricazione di camicie e un altro più piccolo, per le cravatte, don Eugenio intraprese il suo primo viaggio a Londra, per incontrarvi i futuri fornitori. Il negozio diventa presto un piccolo scrigno prezioso in cui si possono trovare autentici tesori di raffinatezza e di gusto, un piccolo angolo di Inghilterra a Napoli. In un'epoca in cui lo stile "inglese" è molto di moda, Marinella è il solo a proporre, a Napoli, una vasta gamma di prodotti esclusivi provenienti da Londra, esigendo dai fornitori inglesi l'esclusività. All'inizio, l'attività principale della bottega non è la cravatta ma la camicia, regina del guardaroba maschile. Al fine di essere al top della moda e della qualità, Eugenio induce alcuni artigiani camiciai di livello senza pari a trasferirsi da Parigi per insegnare ai suoi operai l'arte del taglio. Per quanto riguarda le cravatte, sono realizzate esclusivamente in sette pieghe: il quadrato è piegato sette volte verso l'interno così da dare alla cravatta una consistenza incomparabile. È solo molto dopo che fa la sua comparsa la cravatta attuale con la struttura interna. Il negozio è passato attraverso avvenimenti storici importanti che hanno cambiato anche il corso della sua storia: le due guerre mondiali, il declino dell'antica nobiltà e la comparsa della nuova borghesia con l'avvento dei prodotti americani che portano sostanziali cambiamenti della moda. Molto attento alle evoluzioni della società e del costume, Eugenio non si perde d'animo e interrompe la produzione di camicie a favore della cravatta che diventa il prodotto faro della casa Marinella.
La vera ripresa si ha però negli anni Ottanta, quando Francesco Cossiga, allora Presidente della Repubblica e amico di famiglia, diventa un vero e proprio ambasciatore del marchio prendendo l'abitudine di portare in dono ai capi di stato, nelle loro visite ufficiali, una scatola contenente cinque cravatte Marinella. Il marchio comincia così a fare il giro del mondo. Il G7 organizzato a Napoli nel 1994 spalanca definitivamente alla piccola ditta napoletana le porte della cerchia molto esclusiva di fornitori dei grandi del mondo: gli organizzatori decidono infatti di offrire a tutti i capi di stato presenti, una scatola contenente sei cravatte Marinella, portando un'enorme pubblicità al marchio. La passione per l'eleganza e la qualità continua ancora oggi grazie a Maurizio Marinella, terza generazione della famiglia, che ha raccolto l'eredità del marchio con uno spirito imprenditoriale in sintonia con le moderne leggi del marketing riuscendo a far affermare il marchio Marinella anche all'estero, dagli Stati Uniti al Giappone. La produzione firmata Marinella ha conservato la scrupolosa attenzione alla qualità delle materie prime e la curatissima fattura ancora oggi rigorosamente artigianale, per queste cravatte "napoletane veraci".
Nel tempo, si sono avvicendati tra i clienti volti noti e prestigiosi: Luchino Visconti ne ordinava moltissime, tutte con fondo blu o rosso, sfoderate come foulard che coordinava a coloratissimi fazzoletti da taschino di seta indiana; Aristotele Onassis ne comprava dodici per volta, rigorosamente nere in modo da scoraggiare gli interlocutori e non far mai trapelare di che umore fosse. Le cravatte Marinella sono state al collo degli uomini più eleganti e famosi: in bottega è custodito gelosamente il libro delle firme dove sono contenuti gli autografi di molte teste coronate e presidenti di stato, alti esponenti della politica e dell’imprenditoria, della cultura e dello spettacolo. Sono stati al collo di tutti presidenti americani da Kenndy in poi, compreso Bill Clinton al quale le regalò la moglie Hilary. Oggi tra i blasonati clienti ci sono Re Juan Carlos e il principe Alberto di Monaco, diversi esponenti di casa Agnelli, ma anche Berlusconi e D’Alema…Uomini dotati di buon gusto, che non vogliono rinunciare alla cravatta confezionata su misura da mani esperte, uomini per i quali una cravatta Marinella è un vero “nodo d’autore”.
Due illustri blasoni affiancano il marchio Marinella sin dalle origini, a testimonianza del prestigio che il negozio acquisisce da subito: quello dell’Ordine della Giarrettiera, quale fornitore della Casa Reale Inglese, e lo Stemma Borbonico. Nel corso di quasi un secolo di attività, molti sono stati i riconoscimenti ricevuti, culminati lo scorso 2 giugno 2011 con il conferimento, da parte del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, dell’onorificenza di Cavaliere del Lavoro a Maurizio Marinella, esponente della terza generazione della famiglia fondatrice. L’ordine al “Merito del Lavoro”, istituito nel 1901 da Vittorio Emanuele III, premia l’insignito non solo per una specifica attività intrapresa, ma lo vincola anche ad un impegno etico e sociale volto al miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro del Paese. A questo importante riconoscimento si sono aggiunti una laurea Honoris Causa da parte dell’Unione delle Università Popolari e, nel mese di gennaio 2012, altri due prestigiosi premi, l’Internationalisation Business Award ed il Premio Leonardo Qualità Italia 2011. L’internationalisation Business Award è stato conferito a Maurizio Marinella dall’UK Trade Investment (UKTI) per il contributo all’innovazione ed all’internazionalizzazione dato dall’azienda napoletana al sistema produttivo britannico. Il Premio Leonardo Qualità Italia 2011, ricevuto ancora una volta dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano, in riconoscimento della “qualità e dell’eccellenza espresse dal suo lavoro e dalla sua azienda che può essere considerata altamente rappresentativa del made in Italy e che condivide la responsabilità di sostenere la posizione e l’immagine dell’Italia nel mondo.”

Un tenace nemico della mafia

Franco Roberti

Il nuovo capo della Procura Nazionale Antimafia, il 65enne napoletano Franco Roberti, in magistratura dal 1975, dal 2009 procuratore capo di Salerno, è una delle toghe più apprezzate e famose dello Stivale. Una vita trascorsa a combattere le cosche camorristiche e la criminalità economica e politica attraverso il lavoro duro negli scomodi Palazzi di Giustizia della Campania, Sant’Angelo dei Lombardi (Avellino), Napoli, Salerno. Dalle indagini sul dopo terremoto in Irpinia, agli otto anni a Roma in Direzione Nazionale Antimafia, fino al ritorno a Napoli nel 2001, come procuratore aggiunto e poi coordinatore unico della Dda fino al 2009. Elezione secondo le previsioni della vigilia, il plenum del Csm ha attribuito a Roberti 20 voti tra cui quelli del vicepresidente Michele Vietti, del presidente Giorgio Santacroce e del pg di Cassazione Gianfranco Ciani, contro i 6 del candidato arrivato al ballottaggio, il procuratore capo di Bologna Roberto Alfonso. Il magistrato napoletano va a ricoprire il ruolo fino allo scorso gennaio rivestito da Piero Grasso, candidato alle politiche nel Pd e poi presidente del Senato.
Roberti è tra i massimi esperti del clan dei Casalesi, l’organizzazione criminale egemone nel casertano. Quando è stato alla guida della Dda napoletana ha coordinato alcune delle indagini più delicate, come quella che ha portato alla cattura di Giuseppe Setola, il leader dell’ala stragista, e dei suoi principali complici, alcuni dei quali convinti a collaborare, a cominciare da Oreste Spagnuolo, il killer che racconterà la stagione degli omicidi sul litorale domizio e rivelerà le pressioni del clan sulla produzione del film Gomorra tratto dal best seller di Roberto Saviano.
Negli anni ’90 Roberti si è distinto per la gestione dei collaboratori di giustizia Carmine Alfieri e Pasquale Galasso, i superboss della camorra napoletana della Nuova Famiglia, protagonisti negli anni ’80 di una sanguinosa faida contro la Nco di Raffaele Cutolo. Nel 2010 durante un convegno Roberti rivelerà di avere quasi convinto in quegli anni anche Cutolo a pentirsi e a vuotare il sacco, a cominciare da quanto era a sua conoscenza sulle trattative per la liberazione di Aldo Moro, ma che l’operazione non andò in porto a causa di un ripensamento di Cutolo forse su pressione dei servizi segreti. Roberti ha seguito l’inchiesta che portò all’arresto del boss Lorenzo Nuvoletta, rappresentante di Cosa Nostra in Campania insieme alla famiglia Zaza di San Giovanni a Teduccio (Nuvoletta, nella sua tenuta di Poggio Vallesana, negli anni ’70-‘80 ospitò anche Totò Riina e Bernardo Provenzano).
Tra le altre indagini più importanti curate dal neo capo della Procura Antimafia, c’è quella sull’ex ministro Dc dell’Interno Antonio Gava: nei giorni del suo arresto Roberti si recò personalmente a interrogarlo nel carcere di Forte Boccea. Negli anni a Napoli Roberti, oltre al fronte anticamorra, ha coordinato alcune indagini su altri versanti, di forte impatto mediatico, come quelle su Calciopoli e sui presunti appalti truccati al Comune di Napoli attraverso la regia di alcuni assessori della Iervolino e dell’imprenditore Alfredo Romeo. Ma è già alla guida della Procura di Salerno quando arriveranno le sentenze – di condanna per lo scandalo del calcio scommesse, di assoluzione per quasi tutti gli imputati per gli appalti di Napoli, con Romeo condannato per corruzione per un singolo episodio.
A Salerno Roberti è subentrato a Luigi Apicella, sospeso dal Csm in seguito alle vicende incrociate tra le procure di Salerno e Catanzaro sulle indagini avocate all’ex pm Luigi de Magistris. Vicende con ulteriori strascichi, tra cui il trasferimento disciplinare da Salerno a Latina per Gabriella Nuzzi, il pm titolare delle inchieste su Vincenzo De Luca e sulle denunce di de Magistris. Nei quattro anni a guida Roberti, la Procura ha aperto altre due indagini sul sindaco, relative al commissariato per il termovalorizzatore e al Crescent e si è occupata, purtroppo finora senza esito, dell’omicidio del sindaco di Pollica Angelo Vassallo.
« Roberti è stato tra i primi magistrati ad avere una capacità di indagine rivolta alla borghesia camorristica. Conosco la sua attività quando è stato capo dell’antimafia di Napoli - scrive su Facebook Roberto Saviano – anni durissimi di contrasto ai clan napoletani e alla camorra casalese. Già alla fine degli anni Ottanta, è stato tra i primi ad aprire inchieste sul traffico di rifiuti tossici, quando si ignorava che fosse ambito di investimento dei clan di camorra. Che sia stato designato lui alla procura Nazionale Antimafia è una buona notizia per il contrasto non solo ai clan, ma soprattutto all’ economia nazionale».
La delibera del Csm, non a caso, sottolinea la sua «profonda conoscenza del fenomeno della criminalità organizzata e del funzionamento della Dna». La nomina di Roberti è stata accolta con «grande soddisfazione» dal suo predecessore Piero Grasso, che ha auspicato «un rinnovato e corale impegno di tutte le forze politiche, attraverso interventi legislativi mirati e strategici, al contrasto di un fenomeno, che inquina la vita sociale, politica ed economica del nostro Paese», mentre Laura Boldrini, presidente della camera, parla «di un segnale importantissimo contro la criminalità organizzata. La prova più evidente che lo stato non ha alcuna intenzione di abbassare la guardia nella guerra alle mafie». Il Guardasigilli Annamaria Cancellieri ha assicurato «la piena collaborazione del Ministero della Giustizia nella dura battaglia contro la criminalità organizzata». Roberti è il quarto procuratore nazionale antimafia dalla nascita dell’ufficio voluto da Giovanni Falcone. Il primo napoletano in questo prestigioso incarico, escludendo i tre mesi da facente funzioni di Lucio Di Pietro nel 2005. Ha atteso la notizia nel suo ufficio alla Procura di Salerno. Ci sperava, anche se non è mai stato sicuro della designazione fino al voto finale del plenum del Csm.
«Ringrazio il Csm per la fiducia che ha riposto nelle mie capacità professionali. E’ un incarico di grande responsabilità, che cercherò nei fatti di svolgere nel modo migliore. Alla Procura nazionale troverò colleghi che conosco da anni. Sono tutti amici. Del resto, la gestione di Pietro Grasso è stata assai positiva e non ci sarà molto da cambiare. Lavorerò sul solco dei miei predecessori, affrontando quella che ritengo la prima grande sfida nelle indagini sulle mafie. La trans nazionalità delle organizzazioni criminali Chi pensa che le indagini siano vincenti chiudendosi nel nostro ambito nazionale sbaglia. I grossi gruppi mafiosi hanno agganci oltre l’Italia, fanno affari allargati, appoggi in Europa e altrove. Dobbiamo attrezzarci sempre di più su questo. puntando molto sulla cooperazione internazionale, il lavoro stretto con gli inquirenti di altri Paesi e con le loro strutture di intelligence. Per questo, occorrono norme condivise e accordi di collaborazione. Le mafie sono una priorità internazionale. Vanno affrontate con tecnologie investigative adeguate e intese allargate. Quello della banche dati è un argomento su cui si potrebbe dire tanto. Sono strumento indispensabile, da potenziare e rafforzare. Le emergenze ci sono, le approfondiremo. Il riciclaggio, ad esempio, è il cancro che alimenta le mafie. Occorrono norme sempre più rigide.
Mi dispiace lasciare la Procura di Salerno, come mi dispiacque lasciare Napoli. Tutto quello che si poteva fare lo abbiamo fatto. Ho lavorato, a Napoli come a Salerno, con colleghi di grande umanità, entusiasmo ed esperienza. Tutti mi hanno trasmesso qualcosa. Mi insedierò a Roma entro pochi giorni. Mi dicono già per il dieci agosto. Lo spero, bisogna mettersi subito al lavoro».
Non ci resta nell’interesse dello stato, che siamo tutti noi, di augurargli buon lavoro.




giovedì 26 settembre 2013

La rivolta delle monache scostumata.



Il monastero di S. Arcangelo a Baiano è da tempo noto agli studiosi per le scostumatezze sessuali delle monache che lo abitavano e che spinsero le autorità ecclesiastiche ad inviare come ispettore il severo Andrea Avellino, divenuto poi santo, ad indagare.
Il vecchio convento era sito nella antica zona furcellensis ed è citato anche dal Boccaccio nel Filocolo, perché per poco vi soggiornò la sua Fiammetta.
Esso sottendeva all’omonima chiesa e fu una delle prime strutture religiose volute dagli Angioini per festeggiare la vittoria sugli Svevi e venne edificata su un luogo di culto già dedicato a San Michele Arcangelo, sui resti di un precedente sacello pagano. La denominazione a Baiano era dovuta alla circostanza che nella zona risiedeva una folta colonia di cittadini provenienti da Baia, come riferito dal Pontano. Il monastero godeva del patronato sulle acque della Fistola che sgorgavano nei pressi grazie ad un antico privilegio reale.
Ad esso potevano accedere solo novizie provenienti da famiglie di acclarata nobiltà napoletana e la conferma si è avuta con la pubblicazione di nomi altisonanti come Giulia Caracciolo, Agnese Arcamone, Chiara Frezza e Luisa Sanfelice citati in un libello apparso in Francia nel 1829, intitolato “Cronache del convento di Sant’ Arcangelo a Baiano” tradotto e stampato a Napoli nel 1860. Lo stesso Benedetto Croce aveva trovato tracce dell’episodio in uno scritto seicentesco “Le counvent de Baiano” e parla della sua scoperta nei “Nuovi saggi sulla letteratura italiana Seicento” edito nel 1931.
Andrea Avellino, già padre spirituale del convento, accertatosi delle frequenti orge che si svolgevano tra le sacre mura raccomandò al Cardinale Paolo Burali d’Arezzo il trasferimento delle monache nel convento di San Gregorio Armeno e la immediata chiusura della struttura, che abbandonata allo stato laicale si trasformò in poco tempo come un rudere.
Per gli studiosi dell’esoterismo la vicenda riveste un grande interesse e la sua drammaticità può essere compresa solo con una lettura specialistica, che tiene conto di alcuni dettagli:
1. il monastero poggiava su una base pagana, luogo di culto scelto dal sacerdote rabdomante in grazia delle forze magnetiche che dovevano favorire lo svolgersi dei “misteri”
2. il divieto di accedervi per le donne di umili origini.
3. la presenza contigua di un corso d’acqua “rituale”
Altre notizie sull’episodio a luci rosse potremo averle solo quando gli studiosi avranno accesso alla relazione giacente inaccessibile negli archivi segreti del Vaticani.
Di recente altre storie simili sono state rese note grazie al lavoro di abili archivisti, come Candida Carrino che ha pubblicato un interessante contributo dal titolo esplicativo “Le monache ribelli”. I francescani, con il loro rigore spirituale, non l’hanno mai fatta passare liscia ad alcun uomo o donna di Chiesa, peccatore o peccatrice. Saranno pure misericordiosi, come prescrive Dio con la sua pazienza ma quando si tratta di giudicare gli uomini di Chiesa che sbagliano il rigore è come il saio. D’obbligo. Scatta soprattutto quando, muniti di poteri speciali canonico di “visitatori”, una specie di ispettori della fede o verificatori delle regole cristiane per conto della gerarchia, intercettavano comunità con vite sregolate, ai limiti del Vangelo se no addirittura in aperto contrasto con esso. Come i peccati della carne di uomini votati a Dio e alla castità.
Andò più o meno così a Napoli nel 1587 quando piombò il francescano, di origini partenopee, Bartolomeo Vadiglia. Per conto di Papa Sisto V, in ventun giorni, ispezionò i monasteri femminili. E senza tanti giri di parole spedì una relazione al Papa: sono “bordelli pubblici”, sono “case di meritrici”. Stop. Perfino padre Michele Miele, uno storico della pietà spesso chiamato dalla “scuola” di Gabriele De Rosa a decrittare il mondo del “vissuto religioso”, forse, strabuzzò gli occhi quando scoprì questo documento sui conventi femminili, bordelli del Cinquecento.
Ma ora, a quella scoperta se ne aggiunge un’altra, grazie alle edizioni Intra Moenia, il bel racconto di una suora, nobile napoletana del tempo, donna Fulvia Caracciolo non solo sulla vita interna dei monasteri femminili, ma anche sul significativo racconto della riluttanza, spesso incomprensione, nella ricezione di decreti e regole venute fuori dal Concilio di Trento. Di qui, la ribellione delle monache napoletane alla gerarchia: in quel tempo, e siamo nel maggio del 1566, arcivescovo di Napoli Mario Carafa notifica la costituzione Circa pastoralis di Papa Pio V sulla imposizione della clausura per eliminare abusi, nei monasteri dove c’era stato il fenomeno delle monache forzate ad opera delle famiglie nobili della città.
A Napoli nel Cinquecento ci sono 36 monasteri femminili. A San Gregorio Armeno c’è suor Fulvia Caracciolo con il piglio della scrittrice, prim’ ancora che della donna votata, o fatta votare dai suoi nobili familiari, al monachesimo nella Napoli del ‘500. Ed è tanto brava ed attenta a raccontare pagine del monachesimo femminile napoletano del tempo che appare perfino come una inviata speciale ante-litteram, impegnata a narrare quel che fu la Chiesa meridionale, con le sue strutture della religiosità, negli anni successivi al concilio di Trento. 
Perché tra vita e nuove regole conciliari, tra usi e costumi del vissuto religioso e decreti della Chiesa del tempo e nel suo tempo, si colloca questa straordinaria scoperta del “Breve compendio della Fundatione del Monistero di Santo Ligoro di Napoli con lo discorso dell’antica vita, costumi e regole che le moniche di quelle osservavano ed d’altri fatti degni di memoria successi in tempi dell’autrice” Fulvia Caracciolo era nata nel 1539, entrò in convento ad otto anni, insieme ad altre due sorelle, Anna ed Eleonora. Forse, aveva ragione uno dei protagonisti del romanzo di Umberto Eco, ne “Il pendolo di Foucault”, quando scrisse che per capire il percorso del “vissuto religioso” bisogna comprendere che “da un sistema di divieti si può capire quel che la gente fa di solito e se ne possono trarre bozzetti di vita quotidiana”. Meglio ancora quando lo scavo negli archivi conduce a riscoprire documenti e fonti che non solo possono aiutare gli storici della religiosità meridionale ma, soprattutto, aprono squarci di vita vissuta nella Napoli del ‘500. Di qui il racconto delle monache che si ribellarono alla clausura. Molte lasciarono i conventi, moltissime si sottomisero.








UN GIORNALISTA SCRITTORE DI RAZZA

Goffredo Locatelli

Goffredo Locatelli è nato a Sarno, in provincia di Salerno, dove il nonno Lorenzo, ufficiale dei Carabinieri, si stabilì provenendo da Bergamo.
Ha iniziato la sua carriera al quotidiano Paese Sera, dove venne assunto nel 1976 come praticante da Arrigo Benedetti, uno dei più grandi maestri del giornalismo italiano.
In seguito ha scritto per La Domenica del Corriere, Il Mondo, Il Globo, L’Espresso, Panorama, La Repubblica, Il Mattino e, come inviato speciale, per i giornali del Gruppo Editoriale Class-Milano Finanza, diretto da Paolo Panerai.
E’ stato inoltre direttore del settimanale Reporter, di Albatros e vicedirettore del quotidiano economico Il Denaro, avendo come collaboratore, nelle ultime due testate, una penna di prestigio: la mia.
Per il comportamento professionale tenuto in occasione del terremoto in Irpinia del 1980 è stato insignito della Medaglia al Valor Civile. Dalle sue cronache di inviato nelle zone colpite dal sisma nacque il suo primo bestseller Irpiniagate-Ciriaco De Mita da Nusco a Palazzo Chigi (Newton Compton, 1989). In precedenza, una sua inchiesta su Il Mondo nel 1986 servì a svelare per la prima volta l’intreccio di malaffare del dopo terremoto. L’anno successivo su L’Espresso rivelò che 13  familiari del presidente del consiglio De Mita erano azionisti della Banca Popolare dell’Irpinia, attraverso la quale transitavano i fondi pubblici per la ricostruzione.Denunciato, fu processato ed assolto.
Altri suoi libri sono:Mi manda papà (Longanesi, 1991), Mazzette & manette (Pironti, 1993), altro grande successo di vendite, Duce addio (Longanesi, 1994), Fini (Tea, 1996), Tengo famiglia (Longanesi, 1997), Il sangue delVesuvio (Avagliano, 2000), che fu l’argomento di conversazione quando fu ospite del salotto culturale di mia moglie Elvira, Orazio Mazzoni (Denarolibri, 2008).  Tutti i suoi libri hanno avuto lusinghiere recensioni dalla grande stampa e dalla televisione. Di alcuni si sono interessati DerSpiegel e Le Monde. Due sue opere sono conservate nella più importante biblioteca del mondo, quella del Congresso degli Stati Uniti. Sul web ha un sito in cui si possono leggere tutti i suoi articoli, tra cui quello galeotto che ci fece conoscere nel 1978: un’amicizia che è andata crescendo in questi 35 anni che ancora dura, caparbia ed inossidabile.


copertina del libro Irpiniagate


LA VOCE DELLA CRITICA CINEMATOGRAFICA.

Valerio Caprara

Valerio Caprara, nato a Roma nel 1946, è uno dei più autorevoli critici cinematografici italiani.
Il padre, Massimo, è stato segretario di Palmiro Togliatti, oltreche parlamentare e giornalista.
Da ragazzo Valerio ha vissuto a Portici per trasferirsi poi a Napoli, dove ha frequentato fino alla maturità il Liceo Classico Sannazaro del Vomero. Laureatosi in Lettere Moderne alla Sapienza di Roma nel 1972, ha intrapreso la carriera universitaria sotto la guida del relatore della sua tesi, l’italianista Walter Pedullà. E’ stato professore di Storia e Critica del Cinema alla Facoltà di Lettere dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli per passare, nel 2011, ad insegnare all’Università  Suor Orsola Benincasa.
Dal 1979 è il critico cinematografico de Il Mattinodi Napoli. Collaboratoredelle principali riviste specializzate del settore, ha partecipato a svariati programmi della Rai. Dal 2007 è ospite fisso della trasmissione Cinematografo in onda il sabato notte su Rai1.
E’ stato direttore artistico degli Incontri Internazionali del Cinema di Sorrento dal 1983 al 2000. Nel 2011 è stato nominato, dal Ministro dei Beni Culturali, membro della Commissione per la Cinematografia.
Tra i numerosi  riconoscimenti per la sua attività, il più prestigioso, nel 1985, è il titolo di “Chevalier de l’OrdredesArts et desLettres”, conferitogli dal Ministero della Cultura francese.
Ha una vasta bibliografia di saggi, oltre ad aver stilato le voci “Sergio Leone” e “Marcello Mastroianni” sul Dizionario Biografico degli Italiani.
Tra i suoi ultimi lavori segnaliamo: Sentieri selvaggi, Cinema Americano1979-1999 (4 volumi), Il Buono, il Brutto, il Cattivo. Storie della storia delcinema italiano ed il divertente Dizionario del cinema erotico.
Purtroppo, non ricordo l’argomento di conversazione quando fu ospite nel salotto culturale di mia moglie: a  scusante, l’ultima tac cerebrale  ha evidenziato che il mio cervello, l’unico organo che mi funziona, è simile a quello di un uomo di 80 anni.


Valerio Caprara


mercoledì 25 settembre 2013

IL PRETE MARTIRE DELLA CAMORRA

Don Giuseppe Diana


Giuseppe Diana, più noto come don Peppino Diana, è un sacerdote nato a Casal di Principe nel 1958,  assassinato dalla camorra nella sacrestia della chiesa di San Nicola di Bari, la sua parrocchia, mentre si preparava a celebrare messa il 19 marzo 1994.
Amava l’azione più che la riflessione ma ha lasciato uno scritto importante: Per amore del mio popolo non tacerò, lettera documento elaborata nel 1991, diffusa in tutte le chiese dell’aversano per stimolare l’impegno comune contro il sistema criminale camorristico.
Finalmente, dopo un ventennale oblio, pochi giorni fa, a Frignano in provincia di Caserta, vi è stato il primo ciak della fiction di Raiuno sulla sua esemplare figura di martire, che avrà come interprete principale Alessandro Preziosi e sarà diretta da Antonio Frazzi.
La fiction è stata presentata il 4 luglio, giorno del compleanno del sacerdote, nel corso del “Festival dell’impegno civile”. Dopo la presentazione alla stampa, la troupe si è  recata in visita ai familiari di don Diana, la madre Jolanda ed i fratelli Emilio e Marisa.
Il coordinatore del Comitato don Peppe Diana, Valerio Taglione, presente all’incontro, ha dichiarato:”Ci auguriamo che la fiction abbia innanzitutto l’effetto di far conoscere alla stragrande maggioranza degli italiani la figura di un sacerdote che ha dato la vita per l’amore che portava per la sua gente”.
Lo sceneggiato andrà in onda il 19 marzo dell’anno prossimo, a vent’anni di distanza dal barbaro assassinio e sarà per tutti un momento di riflessione ma, soprattutto, un riappropriarsi di memoria collettiva perché il racconto di queste storie dimenticate è l’unico sistema che possediamo per difendere la nostra traballante democrazia.
É auspicabile che il governo consideri la lotta alla criminalità organizzata  una priorità assoluta da portare all’attenzione dell’Europa per ottenerne aiuto.
Bisogna pretendere che gli enormi profitti delle organizzazioni criminali siano individuati ed aggrediti, che vengano promulgate nuove leggi finanziarie per identificare e bloccare il riciclaggio, prassi praticata da Wachovia, terza banca del mondo, o dallo HSBC, il più grande istituto di credito europeo. Bisognerebbe discuterne ogni giorno sui giornali e nelle aule parlamentari; invece mafie, narcotraffico e riciclaggio non occupano mai spazio sui mass media impegnati in trasmissioni spazzatura, utili a rincretinire il pubblico ed a disabituarlo a pensare.

Don Giuseppe Diana

Don Giuseppe Diana

Alessandro Preziosi  che interpreterà Don Giuseppe Diana


LA CASSAZIONE DEL DIALETTO

Renato De Falco


Una delle riunioni più divertenti nel salotto letterario di mia moglie Elvira fu quella con Renato De Falco, nato nel 1928, avvocato, scrittore, giornalista, autore teatrale, filologo e massimo esperto nel mondo di vernacolo partenopeo, vera e propria lingua, non semplice dialetto, con un vocabolario ricchissimo, una grammatica complessa ed una quantità di parole onomatopeiche.
Medaglia d’oro al merito forense, da oltre 40 anni De Falco è un puntiglioso ricercatore delle peculiarità del napoletano attraverso indagini storiche e glottologiche, che hanno dato vita a numerose pubblicazioni destinatarie di numerosi premi e riconoscimenti in Italia e all’estero, oltre ad essere state argomento di conversazione nel corso di una rubrica televisiva, da lui condotta per 15 anni, con alti indici di ascolto e di gradimento.
De Falco ha sempre messo in risalto che una specifica peculiarità del napoletano è da ravvisarsi, in maniera primaria anche se non eclatante, in alcune prerogative morfologiche e fonetiche tutte sue proprie.
La sua opera più importante è Alfabeto Napoletano, edito in tre volumi da Colonnese, che comprende la storia di oltre 1500 parole da “abbaia” a “zumpà”, di cui illustra dettagliatamente i significati, puntualizzando le spesso complesse etimologie, riportandone le presenze nei classici della letteratura, della poesia e della produzione musicale. Specifici i riferimenti a peculiarità del parlare napoletano, alle cento e più parti del corpo umano, ai 62 sinonimi di denaro, alle 85 specie di percosse manuali, ai vocaboli pervenutici dalle varie lingue dei tanti dominatori che si sono alternati a Napoli, dagli Spagnoli ai Francesi, ai giochi dell’infanzia e ad altre curiosità dialettali, il tuttocorredato da richiami a proverbi, adagi e locuzioni idiomatiche.
Alfabeto napoletano è un lavoro fondamentale, fondato su un’ampia documentazione ed una profonda conoscenza dei classici della letteratura dialettale. E’ un contributo allo studio ed alla sopravvivenza, non solo della lingua di Napoli ma anche della cultura di cui essa è viva voce, che si legge come un romanzo storico, scritto con la prosa di un gentiluomo  classico del primo Novecento, con le squisitezze linguistiche di un Gino Doria o di un Amedeo Maiuri.
De Falco si pone alla pari di famosi glottologi del passato, dall’Abate Galiani all’esimio Basilio Puoti, maestro di Francesco De Sanctis, muovendosi con eguale abilità tra scritti classici e lingua parlata.
Riportiamo la motivazione del Premio “I migliori dell’anno” ad AlfabetoNapoletano nel 1987 in Svizzera: “…basato su una rigorosa dottrina scientifica che fa conoscere da un punto di vista inconsueto tutta la vivacità di una lingua, ma anche la cultura di un popolo di cui essa è viva espressione, animo e sentimento”.
Altro libro sfizioso di De Falco, che costituì il principale argomento di conversazione nel salotto, è La donna nei detti napoletani, raccolta di 600 proverbi su mogli, madri, sante, sorelle e suocere, assurti a dignità letteraria nel Seicento, che affrontano tutta l’inesauribile gamma della commedia umana in relazione al pianeta femminile: i piaceri e, soprattutto. i dolori della vita coniugale, le tentazioni ed i desideri della carne, il codice morale  della donna esemplare, la sconvenienza della donna disonesta, il fardello non sempre felice della procreazione ed anche se il ruolo assegnato alla donna può contrastare con la sensibilità contemporanea, l’icastica potenza di certe immagini ed il linguaggio pittoresco e colorito garantiscono una lettura sapida e divertente, di una comicità irresistibile.
Prima di concludere, mi preme raccontare due episodi: quando, con De Falco,  assistemmo ai Monologhi della vagina recitati al Teatro Diana da Marina Confalone, che snocciolò una serie infinita di sinonimi in vernacolo della vulva, da “fessa” a“pucchiacca” e quando in occasione di una sua conferenza al Circolo Posillipo, De Falco si trovò a discutere indifferentemente di “paposcia” e “guallera”ed io, forte delle mie cognizioni anatomiche, tenni a precisare la differenza tra il primo termine che indica l’ernia inguinale mentre il secondo è sinonimo di varicocele, aggiungendo alcune dizioni sconosciute al mio dotto interlocutore: “guallera a tracolla” e “guallera ‘a pizzaiola”.

Renato De Falco

Renato De Falco

Copertina di Alfabeto napoletano


Porta Capuana e dintorni.



Napoli: Porta Capuana


La più famosa delle porte napoletane è certamente Porta Capuana, che prende il nome dalla via che conduceva a Capua. Ancora in perfetto stato di conservazione, a differenza dell’affresco di Mattia Preti, commissionato come gli altri nel 1656 a mo’ di gigantesco ex voto per la fine della peste, il quale, complici non curanza e gas di scarico, è oramai illeggibile. 
Nel ventre di Porta Capuana si cela il mistero dell’antico fiume Sebeto e quanta storia vi è da recuperare tra il Tribunale della Vicaria e Piazza De Nicola. Lì dove scorre l’acqua, dove i Greci scavarono la Bolla, dove il Carmignano inserì i canali del nuovo acquedotto seicentesco, lì, cioè accanto a Porta Capuana, forse scorre ancora, sepolto dalla città moderna, antico fiume Sebeto. Oggi in un’antica struttura di archeologia industriale sorge la sede di “Lanificio 25”, una benemerita associazione, fondata dal chirurgo Franco Rendano e dalla sua nuova compagna, la pittrice Mary Cinque, la quale si propone un recupero dal degrado di luoghi sacri per la storia della città. In un cortile adiacente gli spazi dove da anni si fanno spettacoli ed incontri culturali si accede ad un antro e poi, scendendo scale e gradini, si arriva ad un ipogeo dove il terreno sotto i piedi è sempre umido.
Ci sono giorni, non collegati alle maree o alle fasi lunari, in cui l’acqua sale di livello, e anche molto. Un odore umido e una sensazione lagunare, un po’ come se fossimo nelle fondamenta di Venezia, si intrufola sotto le suole delle scarpe. Nel terreno morbido e intriso si affonda. È questo il Sebeto? L’antico fiume cantato dai poeti romani e dai letterati umanisti? O è uno dei mille canali non censiti dell’acquedotto greco a portare l’acqua sotto il lanificio? La cultura, come l’acqua, scorre a Napoli invisibile: sotto tutta quest’area ancora da recuperare, che include Porta Capuana, la bellissima e assai malridotta chiesa di Santa Caterina a Formiello, il tribunale della Vicaria, e piazza Enrico De Nicola – questa sola, sì, recuperata e ammodernata . c’è un invaso antico, scavi da approfondire, aree da rimettere in sesto e adibire a un rinnovato uso comune.

fontana del formiello
fontana del formiello


La grande bellezza trascurata di via San Giovanni a Carbonara, con la chiesa omonima, fra le più importanti e straripanti tesori della città, la chiesa di Santa Caterina già nominata, l’edicola di San Gennaro disegnata dall’architetto Ferdinando Sanfelice e la fontana detta del Formiello dovrebbe costituire un obiettivo di grande interesse turistico e culturale. Intanto, veniamo alla lapide che testimonia la presenza dell’acqua pubblica, ovvero la bellissima, semplice, elegante, fontana del Formiello: «Philippo regnante siste viator acquas fontis venerare Philippo Sebethus regiquas rigat amne parens hic chorus Aonidum Parnassi haec fluminis unda has tibi Melpomene fonte ministrt acquas Parthenope regis tanti crateris ad oras gesta canit regem fluminis aura refert. MDLXXXIII» Ovvero«Regna Filippo. Fermati o viandante a venerare Re Filippo, presso le acque di questa fonte, che il padre Sebeto alimenta con la sua corrente. Quegli è il coro delle Aonidi, questa è l’acqua del fiume Parnasso. Melpomene stessa ti elargisce da un fonte le sue linfe, Partenope celebra presso le sponde della vasca le imprese di sì grande sovrano ed il mormorio delle onde loda il nostro re. Anno di grazia 1583». Questa elegantissima fontana che porta, come la piazza e la chiesa, la dicitura del Formiello, ovvero «ad formis», ai canali, è ben più antica della lapide che oggi ricordiamo: ve n’è traccia nei documenti trecenteschi – e forse c’era già assai prima – ma prende ufficialmente il suo nome nel 1458, quando re Ferrante d’Aragona decide l’ampliamento delle mura della città.
Un banale abbeveratoio per cavalli dapprincipio: inoltre, il punto di uscita dell’acqua, incanalata dall’acquedotto, non era l’attuale, questa lapide testimonia dunque lo spostamento della fontana stessa dieci anni prima, nel 1573, quando viene commissionata la sua belle veste marmorea (travertino e marmo di Carrara) a tali Maestro Joseppe e Michel De Guido, incaricati dal Tribunale delle Acque. Le parole di pietra incise sulla lapide furono volute dal vicerè d’Ossuna, ovvero Pedro Tellez de Giròn, a seguito di un restauro per il terremoto del 1582. Quando, un secolo dopo circa, si volle inserire in questa bella fontana una statua del re Filippo IV di Spagna, ai Napoletani l’idea non piacque, come già non piaceva il viceregno – continue rivolte. dal 1501 fino a Masaniello lo testimoniano – e si dovette rinunciare. Ne resta il basamento, a corredo degli stemmi reali, delle quattro stagioni e delle teste leonine che ornano il monumento. Per questo la bella fontana appare alta e nuda, decorata ma priva di un protagonista, così che solo l’acqua, oggi ingabbiata, sia pienamente padrona del campo. Ma il mormorio delle onde dovrebbe rievocare agli abitanti del quartiere e della città tutta che qui molta storia è passata, non solo le feroci giostre che disgustavano Petrarca in visita a San Giovanni a Carbonara, ma anche gli allievi di Giotto e Giotto stesso, i grandi pittori del Seicento, che in massa decorarono Santa Caterina a Formiello, i martiri d’Otranto, i famosi quattrocento (ma i resti dei martiri sono di duecentoquaranta corpi) aggrediti dai saraceni che il re di Napoli arrivò tardi a soccorrere, ogni anno rievocati nella favolosa Cattedrale di Otranto, e che sono qui sepolti, a compenso di una grave mancanza. E ancora le storie delle due sante, Caterina d’Alessandria e Caterina da Siena, che intrecciano i loro nomi e la devozione nella chiesa che fu affidata prima ai padri Celestini e poi ad altri ordini. La Caterina d’oriente e quella d’occidente, arrivata seconda ma integrata, conservano la devozione secolare che avvolge la grande  insula sacra prossima agli abbeveratoi, alle acque, alle porte della città, insomma a tutte le soglie, da sempre luogo mistico e iniziatico. Ci sarebbero, quindi, fin troppe ragioni per dare nuova forma a quest’intera area urbana: i palazzi, gli scorci di tempi diversi e strati che dal “Lanificio 25” si osservano, recentissimi ed obbrobriosi o modernisti, frutto di archeologia industriale o antichi e antichissimi, elementi di archeologia vera e propria . Come è sempre in quasi tutta Napoli, i tempi coesistono e le pietre, come le persone, ne sono viva e non immobile testimonianza: il difficile – anzi pare bisogna dire: impossibile – è averne cura con coscienza e consapevolezza.

Castel Capuano antica fortezza di Napoli, risale al 1160


A breve distanza da porta Capuana sorge Castel Capuano, il più antico maniero napoletano voluto da Gugliemo I, figlio di Ruggero il Normanno e completato nel 1154. All’inizio fu una reggia fortificata, pio con l’avvento degli Svevi, Federico II incaricò Giovanni Pisano di trasformarlo in una sfarzosa dimora. Durante il periodo angioino, i reali alloggiavano nel Maschio Angioino, mentre a Castel Capuano venivano ospitati personaggi illustri come Francesco Petrarca o si svolgevano lussuosi ricevimenti, come in occasione del matrimonio di Carli Durazzo.
Ripetutamente ristrutturato, Pedro di Toledo lo destinò ad accogliere tutte le corti di giustizia sparse per la città, funzione che ha conservato fino a pochi anni fa, mentre i sotterranei furono destinati a carcere. Fino alla costruzione al centro direzionale del discutibile grattacielo, opera di un celebre architetto giapponese, che ospita il nuovo palazzo di giustizia, Castel Capuano era visitato quotidianamente da un fiume di visitatori, che assistevano alla celebrazione dei processi, perché a Napoli da sempre la Giustizia è spettacolo, in ogni caso, quasi costantemente non è una cosa seria!!
Gli avvocati distinti in “Paglietta” e “Principi del Foro” hanno costantemente prediletto il gusto di un’oratoria forbita e di un’arringa dai toni drammatici. Generazioni di celebri avvocati si sono alternate nell’agone del Tribunale, da Bartolomeo di Capua ad Andrea D’Isernia, per arrivare a Porzio, Pessina, Leone, De Marsico e ultimi epigoni di una lunga nobiltà forense, Enzi Siniscalchi ed Ivan Montone.
Al primo piano vi era la corte d’appello e ad ancora oggi la spettacolare quanto negletta Camera della Sommaria con sei splendidi dipinti di Pedro De Ruviales, studiati e pubblicati da Ferdinando Bologna.
La memoria di tanta illustre attività forense è racchiusa nel salone dei busti, uno degli spazi più prestigiosi e mirabili di Castel Capuano, luogo familiare per magistrati ed avvocati, il quale ricorda i più eminenti giuristi della insuperata scuola napoletana e rappresenta un vero e proprio museo della scultura partenopea della seconda metà dell’ottocento e del primo novecento con opere di artisti famosi come Francesco Jerace e Filippo Cifariello. Un vero e gioiello che, unito ai molteplici aspetti artistici ed architettonici, deve essere quanto prima restituito alla pubblica fruizione, a rinsaldare il legame tra un monumento straordinario e la città.
Gli uffici al terzo piano di Castel Capuano sono abbandonati da anni. Sul pavimento ci sono polvere, cicche di sigarette, i resti dell’arredo delle cancellerie della sezione fallimentare del Tribunale che lì aveva sede prima del trasferimento al nuovo Palazzo di Giustizia. Sui soffitti ci sono crepe evidenti. A terra, nei corridoi, i faldoni ammassati, che si sta provvedendo gradualmente a de localizzare.
Circa millecinquecento metri quadrati da strappare al’incuria e destinare a nuova vita, ospitando gli uffici del comando provinciale del Corpo Forestale dello Stato. Un progetto importate non soltanto sul fronte dell’impegno economico (i lavori costeranno circa due milioni di euro), ma soprattutto sul fronte della legalità. La presenza del Corpo Forestale nella storica sede di Castel Capuano mira a potenziare la tutela della sicurezza dell’edificio e a lanciare un messaggio alla città, creando un binomio arte e ambiente nel rispetto della legalità. Si inserisce nel più ampio progetto di recupero affinché si apra su Castel Capuano un nuovo capitolo di storia. Nei locali restaurati troverà spazio anche l’esposizione sui “corpi di reato”, è la cultura che esce dall’oblio, la storia che si riappropria dei propri spazi. Così rinasce Castel Capuano. «Abbiamo progetti ambiziosi – spiega il presidente della corte d’appello Antonio Bonajuto – pensiamo di realizzare un museo delle regole per ripercorrere la storia delle leggi, a partire dal codice di Hammurabi, creando un percorso della legalità fino ai giorni nostri. Sarà l’unico museo al mondo di questo tipo.». Con il direttore dell’ufficio speciale del ministero della Giustizia e presidente della Fondazione Castel Capuano, Floretta Rolleri, Bonajuto è tra le anime di questa rinascita. «L’assegnazione dei locali alla Fondazione è stata già fatta – aggionge Rolleri _ Sono i locali al piano terra adiacenti a quelli dove oggi c’è la mostra sulla storia del castello e i progetti di restauro. C’è anche l’idea di affiancare un museo dei corpi di reato. Abbiamo qui gli archivi con quadri, tra l’altro bellissimi, di falsi d’autore, antiche pistole. Sarebbe un modo per approcciare da un diverso punto di vista alla legalità. Non dimentichiamo che questo castello è stato anche una prigione, ci sono stati i vecchi patrioti. È simbolico anche per questo».

salone dei busti di Castel Capuano


E con un museo il castello sarà aperto ai cittadini, alle scolaresche, ai turisti. Restituito alla città come patrimonio non solo della cultura della giustizia napoletana ma monumento di storia e di arte.
Le scale che dal promo piano, dove c’è il Salone dei Busti, conducono al “Bagno della Regina Giovanna”, murate nell’ottocento, saranno ripristinate. Sarà restaurato lo scalone, il saloncino, e antichi locali dai soffitti affrescati. «Tutto rientra in un progetto che fa parte del grande programma Unesco per il recupero del centro antico – spiega Amalia Scielzo della Soprintendenza per i beni architettonici di Napoli – Con gli interventi previsti, tra l’apertura della porta bassa e l’accesso dal cortile alto al centro antico verso via Tribunali, sarà possibile riscoprire collegamenti che esistevano attraverso una torre che ha un’ antica scala».
E se arrivano i fondi del Pon energia, si investirà anche nell’ottica del risparmio energetico, come già previsto per il nuovo Palazzo di Giustizia: investimento da 40 milioni di euro, speriamo che una volta tanto i buoni propositi non rimangano fantasia e si trasformino in piacevole realtà.

Camera della sommaria