venerdì 31 gennaio 2014

Intervista ad Achille della Ragione da parte di una televisione



A giorni andrà in onda su una importante televisione italiana una lunga intervista ad Achille della Ragione da parte di Donatella Alonzi. Ne anticipiamo per i visitatori del blog le domande principali.

Partiamo da un argomento che sembra scontato, ma purtroppo è sempre attuale in Italia: il sovraffollamento delle carceri. Quale la situazione e che cosa si dovrebbe fare per evitare questa che ormai è una piaga per il nostro Paese?
Il sovraffollamento delle carceri italiane è fenomeno di vecchia data, che si è acuito negli ultimi anni, per cui l’Europa ci ha posto un ultimatum che scade a maggio di adeguare il numero dei detenuti alle strutture disponibili. Dovrebbero uscire almeno 20mila reclusi e l’evento potrebbe essere possibile solo con un provvedimento di indulto più volte caldeggiato dal Presidente della Repubblica Napolitano. Così come ho scritto in una lettera pubblicata il 31 dicembre dal "Corriere della Sera: «Il recente decreto svuota carceri non sortirà alcun risultato fino a quando non si supererà lo scoglio del Tribunale di Sorveglianza, divenuto un anomalo giudizio di quarto grado, che fa sì che la maggioranza dei detenuti, nonostante ne abbia diritto, arriva a fine pena, senza aver usufruito di un permesso, dell’affidamento in prova, della semilibertà, dei domiciliari. Ne esce incattivito e pronto di nuovo a delinquere». 

Una domanda banale, il problema del sovraffollamento esiste, senza dubbio. Se non in carcere, in che modo deve pagare una persona che ha compiuto un reato?
Una persona che ha commesso un reato deve pagare, non vi è dubbio. A parte i domiciliari, però, esistono molte altre possibilità: ad esempio essere utilizzati in lavori socialmente utili. Bisogna poi considerare che il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio, per cui secondo la nostra Costituzione innocente, ed il 30% di questi alla fine del procedimento risulta innocente del tutto, dopo che lui e la sua famiglia sono stati distrutti per sempre.

Prima di Rebibbia, lei ha vissuto l’esperienza di detenuto nel carcere di Poggioreale. «Anche per stare in piedi nella cella, bisognava fare i turni»: questa una sua dichiarazione. Che ricordi ha di quel periodo?
Nel 2008, prima che il Tribunale del Riesame mi liberasse, ho vissuto per quindici giorni l’esperienza allucinante di Poggioreale, che ho raccontato in un libro “Le tribolazioni di un innocente”, consultabile in rete sul mio sito www.achilledellaragione.it, che in questi anni ha avuto quasi 100mila lettori. In alcuni padiglioni, in celle di pochi metri quadrati, sono costretti a sopravvivere 16 detenuti, stipati come bestie, con letti a castello a quattro piani. Parlare di trattamento inumano è pleonastico.

Quali differenze fra il carcere romano e quello della sua città, Napoli?
Nel carcere di Rebibbia, dove mi trovo, ed in particolare nel reparto 68, di cui sono ospite, si può godere di un trattamento più decente. Le celle hanno quattro ospiti e vi sono una serie di attività: scuola, università, corsi di giornalismo, di scrittura creativa, teatro, che permettono di far passare la giornata. Le celle sono aperte per molte ore al giorno e si  può passeggiare per i corridoi o giocare a ping pong in una sala apposita. Diverso è il discorso per gli altri reparti, dove le celle hanno 6 ospiti e sono chiuse a volte 22 ore su 24. Anche la mia permanenza a Rebibbia mi ha ispirato un libro: “Favole da Rebibbia”, anche questo consultabile su Internet, sul mio sito.

Come si trascorre una giornata dietro le sbarre?
Dietro le sbarre, quando si è chiusi 22 ore su 24, come capita al 90% dei reclusi italiani, la giornata è interminabile, con la televisione sempre accesa.

Oltre al sovraffollamento quali sono i problemi che un detenuto si trova ad affrontare dietro le spesse mura delle prigioni italiane?
Il detenuto ha mille problemi. Il 70% che non ha fondi deve sopravvivere con un vitto che sarebbe disdegnato da un maiale, non può fumare, non può spedire una lettera a casa, non può lavarsi col sapone, gli manca anche la carta igienica.

Parliamo di lei, della sua condanna. Si è sempre proclamato innocente e ha definito la pena che gli è stata inflitta «degna di un killer». Perché? Che cosa è successo?
Sedici anni fa una mia vecchia cliente tentò di estorcermi 200 milioni, dicendo che, in caso contrario, mi avrebbe denunciato di averla sottoposta ad un aborto contro la sua volontà. Non diedi peso alla cosa, anche se ho sempre denunciato i tentativi di estorsione. Negli anni Settanta feci arrestare il nucleo napoletano delle Brigate Rosse, condannato poi a 30 anni di carcere. Dopo un anno mi trovai in un processo basato unicamente sulla parola della donna e su delle registrazioni telefoniche manipolate, fomentato dalla stampa cattolica ed alla fine una condanna spropositata: dieci anni!

È stato anche fatto ricorso a Strasburgo… Che cosa è cambiato?
Ho fatto ricorso a Strasburgo e la Corte dei Diritti dell’Uomo ha dichiarato ricevibile il mio ricorso (capita in meno del 3% dei casi), ma sono 4 anni che aspetto e poi l’Europa si permette di richiamare l’Italia per la lentezza della giustizia. Ho maggiori speranze sulla revisione del processo che pende davanti alla Corte di Appello di Roma, dove ho presentato prove inconfutabili della mia innocenza: dalla perizia fonica, che dimostra la falsificazione delle registrazioni telefoniche, ad una autorevole perizia medico legale su una ecografia eseguita dalla donna dal suo ginecologo dove si apprezza chiaramente la presenza di un embrione vivo pochi giorni dopo la data che lei dichiara di essere venuta da me. Tutti i miei testimoni furono accusati di falsa testimonianza ed in seguito sono stati tutti assolti, oltre ad un documento della Questura di Potenza in cui il mio coimputato, amante della donna che mi accusa, dichiara di essere a conoscenza dell’estorsione di 200 milioni. Documento fondamentale che il Gup ritenne superfluo ed escluse dagli atti.

In carcere, però, lei ha «incontrato Dio»…
Sì, in carcere “Ho incontrato Dio”, anzi sarebbe meglio dire “Dio ha incontrato me”. In carcere le funzioni religiose nella chiesa centrale con la partecipazione di 300-400 persone sono l’unico momento di aggregazione, l’unica occasione di incontrare un compagno di un altro reparto, un momento di grande emozione e commozione, soprattutto in alcuni momenti quando ci si scambia la pace abbracciandosi e piangendo. Credevo già nel Dio creatore, ho conosciuto il Dio misericordioso.

Torniamo all’attualità. Una sua opinione sul caso Di Sarno, il detenuto di Poggioreale affetto da un tumore al midollo spinale che si è rivolto al presidente della Repubblica chiedendo l’eutanasia piuttosto della morte in cella.
Credo che Napolitano, se avesse polso, dopo il suo appello, vedendosi disatteso dal Giudice di Sorveglianza, dovrebbe spegnere la vergognosa vicenda, concedendo la grazia. Dovrebbe essere la soluzione per centinaia di casi simili con detenuti affetti da gravi patologie: tumori, Aids terminale, cardiopatie, costretti sulla sedia a rotelle, ultrasessantacinquenni per i quali la permanenza in carcere equivale ad un’inesorabile condanna a morte. Vorrei concludere invitando leghisti e ben pensanti ad immaginare un cubo di pochi metri e doverci stare non un anno, non dieci anni, non fine pena mai, ma una sola ora: ne uscirebbero inorriditi e diventerebbero subito paladini dell’amnistia e dell’indulto. 


mercoledì 29 gennaio 2014

Un atto di clemenza



Vi è molto sconforto nelle carceri, non solo per le condizioni di vita disumane, ma soprattutto perché non vi è alcuna possibilità di rieducarsi e prepararsi al reinserimento nella società.
Quella rivisitazione critica del proprio passato che viene richiesta per poter godere di qualunque forma di beneficio: permesso, affidamento in prova, semilibertà; che gradualmente svuoterebbero i penitenziari, tenendo conto che oltre 20.000 detenuti potrebbero beneficiare portando il numero dei reclusi in linea con quanto perentoriamente richiestoci dall’Europa.
E allora cominci lo stato che tratta i suoi figli così disumanamente a fare una “rivisitazione critica” di quello che ha fatto, di quello che ancora fa, delle tante illegalità che continua a reiterare. É veramente convinto lo Stato che far scontare ai detenuti la pena in modo disumano dentro le carceri sovraffollate, senza alcuna attività, imbottiti di psicofarmaci, incattiviti ed esasperati, renda la società più sicura?
Le carceri così come sono, sono inutili e dannose per i detenuti, per le loro famiglie, e per la società.
Lo stato si comporti come un padre, severo ma buono, perché non è uno Stato vero quello che ritiene di doversi vendicare dei suoi figli che pure hanno sbagliato.
Dia lo Stato un segnale ai suoi figli, e lo faccia pure la società, perché le carceri, oggi, invece di recuperare escludono ed emarginano, e rischiano di far uscire le persone peggiori di come sono entrate.

Un astronave a Rebibbia



Proveniente dalla costellazione di Grillo l’astronave Vaffa sta per atterrare a Rebibbia per valutare se l’Italia debba essere espulsa dalla galassia per il trattamento inumano riservato ai detenuti.
XY29, l’alieno incaricato di sondare il carcere romano e stilare una dettagliata relazione per il Consiglio dei Saggi,appena atterrato (teniamo presente che è invisibile) cominciò ad osservare i colloqui che sono concessi ai detenuti con i parenti, poche volte al mese per un’ora. Essi rappresentano un conforto importante perché, anche se per una manciata di minuti, si possono toccare le mani delle persone care, scambiarsi confidenze, piangere assieme.Purtroppo, bisogna affrontare una doppia via crucis: dentro, per i prigionieri, attese interminabili tutti stipati in camere di sicurezza stracolme, mentre all’esterno i parenti fanno file massacranti di ore, sotto il sole e sotto l’acqua, senza un briciolo di pietà per bambini, malati ed anziani.Fuori al portone, alcuni si presentano alle quattro del mattino per essere tra i primi e non perdere interamente una giornata di lavoro.La fila si snoda senza alcun controllo per cui è facile che i prepotenti scavalchino i più deboli e si scatenino risse. Ben pochi sono quelli che cedono il passo a vecchi che si trascinano con un bastone o a donne con un bambino in braccio. L’alieno assistì a scene di una cattiveria indescrivibile, come quando i guardiani sequestrarono un rudimentale pupazzetto di pezza ad un prigioniero che, dopo aver lavorato una settimana per realizzarlo, lo voleva regalare al suo figlioletto. Lo commosse anche vedere una zingarella di 9-10 anni accompagnare da sola i due fratellini a fare visita al padre.    
Inseguito gli capitò di assistere ad una scena commovente. Nei prati intorno ai padiglioni della fortezza di Rebibbia vivono in perfetto accordo alcuni cani randagi e numerosi gatti, che sopravvivono grazie alla generosità dei prigionieri, che ogni giorno portano loro avanzi di cibo.Tra questi vi è Fido, un bastardo, frutto probabilmente di un incrocio tra un cane ed una lupa, perché ha degli occhi che incutono timore, ma è mansueto perfino con i gatti.L’altro giorno vi era stata un’ondata di freddo polare, era caduta tanta neve e Fido non si era fatto vedere all’ora di pranzo. Molti avevano temuto che fosse morto assiderato ed alcuni volenterosi si erano messi alla sua ricerca, fino a quando non l’avevano trovato in fin di vita sotto un albero, dove aveva cercato disperatamente un riparo. Il cuore batteva appena.Si cercò di praticargli un massaggio cardiaco e poi un ragazzo tentò di soccorrerlo con una respirazione bocca a bocca. Una scena commovente, una simbiosi uomo-bestia, un richiamo a quell’amore sviscerato che lega da sempre tutti i viventi, non solo nella mitologia e nelle fiabe. Si percepiva il calore del fiato, che riscalda l’atmosfera ghiacciata, mentre si scrutava con trepidazione il muso del cane per cercarvi qualche indizio di vita.Lo portarono al caldo in una cella, lo adagiarono su due sedie vicino al termosifone, lo asciugarono con il fono. Lentamente si vide il muso affilato cominciare a muoversi, un orecchio muoversi.Il giorno dopo, con un cucchiaino, riuscirono a fargli mangiare un uovo. Il rumore della lingua che lappa era una vera e propria sinfonia.La bestia era salva. Una favola a lieto fine: bello il cane, belli i detenuti, belli i capelli del ragazzo che con il suo bacio gli ha ridato la vita.Non è possibile credere che l’uomo sia l’unica meta della creazione e che tutto l’universo sia stato ideato per noi.Così il Cristianesimo ha spesso dimenticato la natura.Molti Santi hanno dedicato la loro esistenza al soccorso dei poveri e degli ammalati: compito degnissimo.Soltanto San Francesco e qualche eremita hanno dedicato la propria vita a salvare una fonte, un albero od a proteggere qualche animale: compito non meno degno.In seguito XY29venne attirato da un simpatico topolino e ne seguì i movimenti.Michele era l’unico topolino superstite di una cucciolata finita sotto le grinfie di una coppia di gatti famelici, che avevano divorato la mamma ed i suoi fratelli e sorelline.
Era riuscito a scappare perché  molto veloce e per giorni e giorni aveva vagabondato per la città, mangiando nei bidoni della spazzatura tante cose appetitose abbandonate dagli umani.
Aveva imparato ad attraversare sulle strisce pedonali ed osservava incuriosito il comportamento dei passanti, che gli sembravano animati da una furia frenetica, mentre a lui piaceva camminare piano piano e spesso riposarsi sull’erba, godendosi i raggi tiepidi della primavera.
Aveva notato che tutti camminavano con le mani libere, a volte adoperate per portare dei pacchi o spingere una carrozzina con un bambino; rimase perciò meravigliato, quando davanti ad una fortezza, vide arrivare, spesso,  camion blindati, dai quali discendevano  uomini con i polsi serrati dalle manette, che venivano condotti all’interno.
Incuriosito, girò lungo il muro di cinta fino a quando non trovò un buco sufficiente al suo passaggio, un piccolo percorso al buio ed eccolo a studiare da vicino questa umanità bizzarra che, secondo lui, agiva contro le regole della natura.
Passò molti giorni all’interno, per poter poi raccontare le sue mirabolanti avventure.
Camminò a lungo attraverso il foro ed all'improvviso si trovò accecato da un bagliore di luce tra enormi prati, sui quali affacciavano numerosi padiglioni, tutti stranamente muniti di sbarre alle pareti. Notò anche che vi erano numerosi gatti, ma si trattava di felini pacifici, che si nutrivano di spazzatura, anzi fece amicizia con Lucia, una gatta fortunata, perché ogni giorno nonno Achille gli portava dei bocconcini di pesce e di carne, oltre a tenerne sempre piena la ciotola del latte e dell'acqua. Michelino divenne inseparabile da Lucia, che conosceva un luogo sicuro dove trascorrere la notte.
Di giorno il topolino andava in giro per rendersi conto dei luoghi e, per prodigio, una fatina di passaggio gli permise di intendere il linguaggio degli uomini, per cui si accorse dai loro discorsi che non tutti erano cattivi, anzi molti erano buoni e docili.
Nel complesso vi era una grande chiesa, che il sabato e la domenica era affollata da molti detenuti, che si recavano ad ascoltare la messa. Alcuni si avvicinavano a degli armadi di legno ove si trovava un prete al quale confessavano i loro peccati.
Michelino rimase inorridito dalle cose che sentì e decise di lasciare subito quel luogo di sofferenza e di perdizione.
Uscì dalla chiesa di corsa e si avviò alla ricerca del buco, da cui era entrato, ma, durante il percorso,fu attirato dall’odore del cibo, che proveniva dalle cucine. Prima di andare via, volle visitarle per constatare cosa mangiassero i prigionieri. Percorse un corridoio e, nel momento in cui si aprì una porta, intrufolatosi all'interno, vide tanti pentoloni che bollivano e padelle che friggevano.
Il suo occhio esperto identificò sul pavimento il passaggio di suoi colleghi di stazza più corpulenta, dette zoccole o, per essere più precisi, topi di chiavica, che avevano lasciato  eloquenti escrementi. Ciò che vide gli fece aumentare la voglia di scappare, ma sul percorso finale gli passarono davanti agli occhi immagini liete. Attraversò l'area verde cui possono accedere i bambini dei detenuti, un luogo ameno dove è possibile giocare a pallone, usare l'altalena o lo scivolo e sanamente divertirsi, anche se il poco tempo passa in un attimo.
Ritrovato il buco, Michelino di corsa andò verso la libertà ed appena uscito tirò un sospiro di sollievo per aver abbandonato quella triste e cupa fortezza.
XY29 continuò a camminare, rimanendo colpito da alcune frasi scritte sulle mura, alcune commoventi: avrebbe pianto ma gli alieni non conoscono il pianto.
Molti credono che le sbarre delle prigioni servano a non far scappare i reclusi: viceversa, la loro unica funzione è quella di impedire che tra quelle tristi mura possano entrare la legalità, l’intelligenza, l’altruismo, la generosità, la bontà.


I COMPAGNI DI CARCERE: UN’ALTRA FAMIGLIA DA NON DIMENTICARE
Ho due famiglie e me ne vanto, però non sono uno dei tanti adulteri o bigami che lo sfascio della famiglia, di pari passo con la corruzione dei costumi,ha prodotto con conseguenze devastanti. Ma sono da tempo, anche se innocente, un detenuto per cui, oltre alla mia splendida famiglia che ho all’esterno e con la quale posso vedermi  poche ore al mese, costituita da Elvira, una moglie adorabile, Tiziana, Gianfilippo e Marina, tre figli affettuosi, Leonardo, Matteo ed Elettra, tre tesori di nipoti, Carlo, un fratello con un figlio: Mario, Giuseppina, Elena ed Adele, zie ottuagenarie, Teresa, una cugina che amo come una sorella ed una miriade di altri cugini, ho costituito nel pianeta carcere un’affettuosità ed una solidarietà con gli altri 1800 compagni di sventura, tale da costituire un’altra famiglia: la più grande del mondo, dove vigono regole non scritte con le quali,se fossero valide all’esterno,  il mondo sarebbe migliore e non sarebbe destinato alla disintegrazione.


RISPOSTA DATA DAL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA IN VISITA A REBIBBIA
Lei, come molte persone che stanno scontando una pena, si dichiara innocente, e forse lo è, io posso crederle. O pensare che ciò che è stato giudicato un crimine, per lei non lo era. Fuori, nella sua bella città, ha fatto una gran vita, era molto conosciuto, era un personaggio importante e le auguro di tornare presto a casa dentro quella famiglia affettuosa ed estesa, cugini e zie ottuagenarie comprese. Può darsi che questa difficile parentesi che le è stata imposta dalla legge le abbia fatto conoscere un mondo carico di umanità dolente, una folla di solitudini, persone che, qualsiasi cosa li abbia portati in carcere, devono cercarsi un modo per vivere e non lasciarsi andare,
Lei, che è un uomo colto, e per quel che mi risulta, sensibile, può aiutarli a dare senso alle loro giornate e alle loro speranze. Senza dimenticarli, quando tornerà al suo mondo.


PIETA’ PER I BAMBINI
Tra le tante problematiche, che affliggono il pianeta carcere, vi è il disagio degli oltre 100.000 bambini che si recano a fare visita al genitore detenuto e diventano vittime di colpe di cui sono assolutamente innocenti. Sconvolti dall'improvvisa assenza, emarginati dalla scuola, sono turbati da quelle rare visite, condite da attese interminabili, perquisizioni, sequestri di giocattoli, pianti e grida disperate. Divengono di colpo poveri, perché è venuta meno l'unica fonte di reddito (lecita o illecita) della famiglia. Non sanno spiegarsi il perché di ciò che è successo ma ne percepiscono la gravità dalle lacrime che all'improvviso inondano la casa.
Gli incontri con i propri figli sono uno dei pochi conforti concessi ai detenuti e sono l'unico modo per mantenere unita la famiglia. Il 90% dei penitenziari italiani non permette visite la domenica o compatibili con gli orari di scuola, e stiamo parlando di bambini fortunati, perché Italiani, mentre tanti stranieri (oramai il 50% dei detenuti) non vedono per anni i propri familiari: basterebbe SKYPE e questi nostri fratelli potrebbero, a costo zero, veder crescere i propri figli e rimanere loro vicini, anche se si trovano a migliaia di chilometri di distanza.

Fu la classica goccia che fa traboccare il vaso.
L’alieno salì sull’astronave: aveva visto abbastanza.


Achille della Ragione

Achille della Ragione


martedì 28 gennaio 2014

Seduzioni mediterranee dell’erotico Sud



Uno sguardo sul golfo di Napoli dalla collina di Posillipo mette già in evidenza come la natura abbia segnato il panorama con l’idea della seduzione con la forma di sirena mollemente sdraiata sulle due estremità del lido, bella e scostumata, sempre in attesa di nuove vittime da ammaliare e disperdere nei labirinti di carne dei bassi e dei palazzi affacciati sul mare. Anche se il mito fondativo di Napoli fa di Partenope una vergine, la leggenda poi si snoda su un grande amore contrastato e sulla finale sepoltura a Castel dell'Ovo, dove, si narra sia anche la tomba di una delle: patrone della città, santa Patrizia, versione cattolica della sirena stessa. Perché al Sud, come scrisse sprezzantemente Ernest Renan, il sesso prevale su ogni cosa, «è la terra del piacere e niente di più». Contro ogni rivendicazione illuminista, è questo il modello mitico che arriva fino alle luciferine descrizioni di Curzio Malaparte né La pelle (1947), catalogo infinito di «segnorine» e bordelli, di vecchie lolite e prostitute bambine. «Femmene», e «Zoccole» che, nel mercato italiano della prostituzione, hanno mantenuto dal lontano Quattrocento un posto di rilievo.
Napoli ed il Mezzogiorno sono sempre stati raccontati come terra di piacere e di libertà sessuale tra mandolini e duelli, camorra e passioni. Tarantelle sfrenate con audaci movenze dei corpi ed il guappo macho.
Tornando alle sirene, prodotto tipico locale, chi forse ha meglio incarnato quel mix di seduzione personale e attrazione della città è stata Sophia Loren, i partenopea regina dei sensi soprattutto in gioventù. Molte altre ci hanno provato, con esiti alterni. Una mano alle tante licenze ormonali ce l'ha messa anche l'archeologia ruffiana, con l'eros pompeiana ispiratore di infinite languidezze intellettuali e le statue classiche a forte impatto erotico, tanto da doversi registrare tra le varie psicopatie anche la «monumentofilia». Il travestimento arcaicheggiante piaceva molto al mondo gay, basti citare le celebri foto del barone von Gloeden a Taormina. E Capri, isola dissoluta dai tempi di Tiberio, è stata il simbolo stesso dell'eccentricità erotica, la «Sodoma e Gomorra» Gay-Lesbica che ha saputo incarnare un «way of life» arcadico e sregolato, eccessivo e teatrale, tipico delle classi sociali alte che vi hanno soggiornato.
Pompei ha costituito un’icona di lussuria e di sesso smodato anche se studi recenti ci hanno evidenziato aspetti sorprendenti tra cui la parità dei sessi ed il predominio delle matriarche.
Finalmente viene sfatata, una leggenda che si prestava a molte chiacchiere: non è vero che a Pompei prima dell’eruzione del Vesuvio ci fosse un numero straordinario di prostitute. In realtà le lavoratrici e i lavoratori del piacere erano, nella città sommersa da cenere e lapilli, di numero pari a quelli delle altre città romane. E allora tutte lei, immagini di Priapi e accoppiamenti tra i vari sessi e persino con animali? Be', quello riguarda, il modo con cui i Romani-Pompeiani consideravano il sesso: un divertimento. Le immagini erotiche popolavano non solo le case private, ma anche le salumerie, le bancarelle e i negozi di ogni genere, e l'uguaglianza tra maschi e femmine a Pompei si manifestava nel fatto che nessuno dei due sessi si scandalizzava più di tanto. Ma era una società maschilista come lo è oggi il Sud? Non proprio. A Pompei le donne partecipavano alla vita politica facendo campagne elettorali, possedevano patrimoni personali che spesso amministravano da sole, gestivano attività di lucro e nei negozi in proprio e, probabilmente perché impegnatissime come imprenditrici, godevano di escort maschili e femminili per particolari diletti sessuali, ovviamente a pagamento e all’insegna del motto che uomo-oggetto è bello. Il quadro che ne esce è quello di una società evoluta e mobile, moderna e complessa. Per esempio lascia non poco sorpresi il fatto che l'istruzione femminile era all'epoca estesa anche alle classi non ricche, e non si limitava solo a nozioni elementari le scritte e i versi graffiti da donne sui muri non erano certo fatte da matrone, ma da donne delle classi meno abbienti, eppure in queste scritte scopriamo una cultura che testimonia tra l'altro la lettura delle poesie di Catullo per esprimere la propria passione. Paragoni con oggi? La ragazza o il ragazzo di liceo per le sue frasi sul muro adopera Vasco Rossi o Jovanotti, e non certo Derek Walcott o Montale. Ma esiste anche una continuità fortissima tra quel passato e il nostro oggi: la presenza irresistibile dei parvenus. La casa dei Vetti apparteneva con certezza a una famiglia di arricchiti, che esageravano con il lusso più o meno allo stesso modo con cui gli arricchiti politici o criminali di oggi si fanno costruire a Casal di Principe e Marano, ville che somigliano a torte nuziali partorite dalle menti di architetti analfabeti; con la differenza che la Casa dei Vetti a paragone delle torte architettoniche odierne, è un capolavoro di eleganza.
E il cibo? Come mangiavano, a Pompei? E cosa? Qui sembra davvero non essere cambiato nulla, e anzi è come se negli ultimi dieci anni si fosse fatto di tutto per imitare gli antichi romani-pompeiani. I pranzi erano costituiti da una delirante quantità di antipastini che andavano dagli asparagi alla lattuga, dalle olive alla mammella di scrofa in salsa di tonno, dai funghi ai gamberoni alla brace, dalle ostriche al pesce marinato e ai formaggi freschi e secchi, il tutto innaffiato da abbondante «mulsum», il vino corretto con il miele che secondo il poeta Orazio, che sembra tradurre direttamente da un primigenio dialetto napoletano, «sciacquava gli intestini» prima del pranzo vero proprio: vale a dire le tre portate canoniche, la frutta e i dolci.
E la politica? Era accanita e vendibile come oggi, e i voti di preferenza erano un commercio diffuso. Secondo le leggi dell'epoca gli avvocati dovevano praticare senza chiedere soldi, ma poi grazie a questo «tirocinio» gratuito, potevano intraprendere la carriera politica. Se ne deduce che si rifacevano di tutte le spese morte dì quando erano avvocati? È ragionevole pensarlo certo queste coorti di avvocati in politica ci suonano molto, troppo familiari.
Allora come oggi si amava far casino, stare per strada, far chiacchiere da una biga all'altra, fare shopping, ammassarsi sulla soglia dell'anfiteatro, sgranocchiare sementi; ma a Pompei la circolazione di uomini e mezzi di locomozione era impossibile, e il traffico regolatissimo. A loro il piano antitraffico non serviva.

Particolare di Napoli in una tavola di Alessandro Baratta
Pompei - Alcesti e Admeto
Pompei: scena erotica

lunedì 27 gennaio 2014

Il Sud affonda si salvi chi può



In occasione del 150° anniversario dell'unità nazionale (2011) è apparsa una certa pubblicistica che tendeva a dare una lettura degli eventi in chiave «sudista». Il Risorgimento cioè visto come invasione dei piemontesi in un Mezzogiorno prospero e felice nell'incanto dei suoi incontaminati paesaggi. L'unità nazionale, per conseguenza, come causa principale dell'attuale condizione di grave disagio di quella parte della penisola. Oltre ai testi famosi di Gigi Di Fiore e di Pino Aprile, un bel libro è stato Borbonia felix di Renata De Lorenzo, misurato ed obiettivo
Il titolo ha un significato antifrastico poiché nel ricostruire «il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo», l'autrice prescinde da ogni mitografia per descrivere le reali condizioni del Mezzogiorno d'Italia negli ultimi anni della dinastia borbonica. L'autrice non sottovaluta gli elementi positivi e di sviluppo che si ebbero per esempio sotto il regno di Ferdinando II che resse il trono per quasi trent'anni a partire dal 1830. Tra questi, la ferrovia Napoli-Portici una delle prime in Italia, le opere di bonifica, l'attenzione alla manifattura, l'introduzione di alcuni principi igienici, il tentativo di elevare l'istruzione anche femminile. 
Tutti elementi positivi che rimasero però isolati o affidati alle comunità locali e destinati quindi al fallimento. Inoltre gravò sullo Stato il devastante fenomeno del brigantaggio e il ribellismo isolazionista della Sicilia che spiega l'accoglienza poco meno che trionfale poi riservata nel 1860 a Garibaldi e ai suoi Mille. A questo vanno aggiunte le insufficienze propriamente politiche cioè l'incapacità di capire il mutamento in corso e di guidarlo saggiamente; cosa che invece riuscì assai meglio al conte Cavour all'altra estremità della penisola.
Dopo questa ventata di rivisitazione storiografica, che ha visto l’apertura di riviste e siti on line neoborbonici come un fulmine ha fatto il suo trionfale ingresso in libreria la ciceroniana requisitoria di Stella e Rizzo. Il nuovo libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo è l'articolato, inappuntabile, appassionato racconto di un suicidio, Se muore il Sud, ovvero la storia di come un terzo circa della penisola si sia testardamente votato alla catastrofe. Si potrebbe obiettare che la storia dell'agonia del Mezzogiorno è così lunga da pensare che il malato continuerà a sopravvivere per un tempo indefinito ai suoi acciacchi.
Le condizioni disastrose del paese, da Napoli in giù, sono state descritte, con venature razzistiche, fin dai primi rapporti spediti alle autorità sabaude subito dopo il 1861, poi venne Matilde Serao con Il ventre di Napoli, vennero le allucinate descrizioni di Curzio Malaparte nel suo La Pelle, Anna Maria Ortese con lo straziante Il mare non bagna Napoli, il terribile atto d'accusa di Giorgio Bocca ne L'Inferno. Sono alcuni titoli di una bibliografia infinita dove anno dopo anno sono state ripetute in varia forma le stesse analisi, quelle che Benedetto Croce, riprendendo un'antica formula sintetizzò nell'espressione tremenda «Un paradiso abitato da diavoli». Stella e Rizzo sono meno fantasiosi di Malaparte ma molto più precisi. Come già nel precedente La Casta i due autori basano la loro requisitoria (di questo si tratta) su dati di cronaca, di costume, statistici. Nonostante i fiumi di denaro che vi sono stati pompati, il Sud invece di crescere è arretrato (al netto della crisi); molti di quei denari sono stati gettati al vento, spesi per impinguare camarille politiche, non di rado il malaffare.
La Calabria ricava 27 mila euro all'anno da tutti i suoi beni culturali, le sue coste, che s'affacciavano su un mare all'altezza se non migliore di quello greco, sono state sfigurate da una speculazione idiota prima che irresponsabile. Di fronte alle ripetute denuncie è insorto il campanilismo meridionale (che gli autori definiscono «negazionismo») con l'eurodeputato Clemente Mastella che s'è lagnato dei controlli dell'Inps arrivando a dire che finti ciechi e finti zoppi rappresentavano «un ammortizzatore sociale». Gli esempi sono infiniti, alcuni sarebbero gustosi se non fossero tragici. C'è anche qualche esempio contrario, il successo di iniziative dove l'intelligenza vivida, la brillante inventiva di alcuni giovani è riuscita a «fare sistema» con risultati entusiasmanti.
L’"arma assoluta" che Stella e Rizzo usano come un bisturi, scavando nel corpo corrotto del Paese, è l' arida eloquenza dei numeri. Due meccanismi solo in apparenza opposti sono all' opera: da un lato le mafie del Sud si sono insediate in tutto il Paese e oltre, utilizzando le enormi liquidità ricavate da attività illegali per impadronirsi di banche e imprese controllando politica e finanza. Dall' altro, la persistente desolazione economica giustifica i fondi europei che si riversano in quelle sfortunate Regioni con Sperpero immenso e risultati zero (questo il titolo di un capitolo del libro). La più gran parte delle popolazioni meridionali, e meriterebbe aiuti dall' Europa, non fosse che quanto arriva è in balia dei soliti noti. Intanto, le imprese del Nord che hanno in pugno «i grandi appalti, le grandi linee di sviluppo» sono colonizzate dalle mafie.
Si è voluta attirare l'attenzione dell'opinione pubblica nazionale sulle difficili condizioni del Mezzogiorno, denunciarvi con grande rigore documentario molti sprechi di risorse che vi si realizzano, ma si ritiene possibile anche un suo rilancio, da perseguirsi con un profondo, radicale rinnovamento delle sue classi dirigenti che scongiuri il tracollo definitivo del Sud, prima che sia troppo tardi per tentarne un recupero. Anche perché non mancano gli esempi positivi di chi resiste sul piano industriale nelle regioni meridionali e riesce ad esservi competitivo e dinamico: in una parola, esiste un Meridione moderno e qualificato. Ora però, se lo spirito animatore del volume Rizzo e Stella è apprezzabile, non ci sembra tuttavia che il punto di partenza della loro analisi colga per intero tutte le modernità e i moltissimi punti di dinamismo diffusamente presenti nel Sud. Le esperienze citate nel volume sembrano più delle lodevoli eccezioni che non invece sezioni specifiche di un tessuto produttivo che è molto avanzato in diverse aree meridionali. E così, al di là delle intenzioni degli autori, il risultato politico che potrebbe sortire dal libro rischia di essere esattamente opposto a quello auspicato: continuare infatti a enfatizzare solo gli squilibri macroeconomici e le emergenze sociali delle regioni meridionali - che nessuno può e vuole negare, ovviamente - potrebbe occultare i tanti punti di forza del loro sistema di produzione industriale, agricola e nel terziario avanzato che sono risorse preziose per l'intero Paese. In tal modo non si rischierebbe di spingere Ue e governo Italiano a ridurre drasticamente le risorse per la politica di coesione o ad accentrarla in vari ministeri? Fondi comunitari che, peraltro, bisogna saper spendere presto e bene e in alcune regioni del Sud in modi radicalmente diversi dal passato, ben sapendo però che ciò vale anche per gli stessi ministeri che non hanno sinora brillato per efficienza e tempestività nell'impiego dei fondi 2007-2013. In un momento in cui è tutta l'Italia che dovrebbe accelerare sulla strada della crescita - pur in presenza dei vincoli delle norme comunitarie - è proprio il Meridione, invece, a presentarsi come una convenienza per investitori italiani ed esteri, sia per la sua vasta dotazione di risorse naturali - petrolio, gas, vento, posizione geografica - sia per la rilevanza del suo apparato industriale - nel cui ambito è possibile costruire o irrobustire nuove filiere molto ramificate di attività di trasformazione - e sia infine per la quantità di risorse comunitarie, derivanti ancora dal precedente ciclo di programmazione 2007-13, e da quello ormai prossimo, in avvio dal 2014 e vigente sino al 2020. Il Mezzogiorno dunque non è un costo per la collettività nazionale, ma ne costituisce una risorsa strategica. Ricordiamo alcune delle leve forti per la crescita dell'intero Paese presenti nel Sud? Pozzi petroliferi fra i più produttivi on shore d'Europa e altre cospicue riserve ormai accertate in Basilicata, ove Eni ed Erg stanno investendo circa 4 miliardi di euro per potenziarne o avviarne l'estrazione nelle rispettive concessioni; primati industriali assoluti a livello nazionale nella produzione di laminati piani grazie all'Ilva di Taranto, di piombo e zinco prodotti dalla Portovesme nel Sulcis; di etilene grazie ai 3 steam cracker della Versalis dell'Eni; di auto e veicoli commerciali leggeri prodotti dalla Fiat a Pomigliano d'Arco, Melfi (PZ) e Atessa (CH); di energia da fonte eolica, di conserve di ortofrutta, di paste alimentari, di grani macinati e di prodotti raffinati grazie alle sei grandi raffinerie di Sicilia, Sardegna e Puglia. Ma l'industria meridionale concorre con quote significative anche a produzioni nazionali di energia da combustibili fossili e dal fotovoltaico, aeromobili, Ict, cemento, materiale rotabile, farmaceutica, costruzioni navali, altre sezioni dell'industria alimentare. Quanti sanno poi che il valore aggiunto manifatturiero nell'Italia meridionale è stato nel 2010 superiore a quello di Finlandia, Romania, Danimarca, Portogallo, Grecia, Croazia, Slovenia, Bulgaria ? Insomma, senza sottovalutare i gravi fenomeni sociali esistenti nel Sud e l'indebolimento di taluni segmenti del suo apparato produttivo, è opportuno sottolineare che la sezione più rilevante della manifattura meridionale è ben lontana dalla raffigurazione di un ormai prossimo deserto industriale. Al contrario, il Sud è una grande piattaforma del Paese ove sarebbe possibile localizzare nuovi investimenti, partendo proprio dalle qualificate risorse umane e materiali esistenti e dagli incentivi a disposizione delle Regioni. Inoltre, se partissero o si accelerassero tutti gli investimenti previsti nel Meridione in diversi settori - vincendo anche in alcuni casi le resistenze di settori estremistici dell'ambientalismo locale - il tasso di crescita dell'economia meridionale sarebbe elevato e contribuirebbe ad innalzare quello dell'Italia. Ma anche l'occupazione avrebbe un deciso balzo in avanti.
Nel frattempo le mafie, le caste, la politica si alleano per spolpare la carcassa di un Sud lontanissimo da ogni riscatto; l' osceno sistema elettorale che la Consulta ha ora messo al bando ha aggravato il feroce clientelismo dei partiti, concentrandolo nelle poche mani di chi gestisce le liste bloccate dei fedelissimi. Secondo la favola, lo scorpione propose alla rana di traversare insieme il fiume, e la rana accettò perché lo scorpione non sa nuotare, e non l' avrebbe certo punta durante la traversata. Ma a metà del fiume, lo scorpione la punse a morte, e prima che tutti e due annegassero la rana fece in tempo a domandare: «perché l' hai fatto?», e lo scorpione rispose «è nella mia natura». Due versioni si contrappongono, in questa Italia una ma non unita. Secondo la prima, dopo il 1860 l' inerme Sud è stato spremuto dagli invasori del Nord, che ne hanno ingerito le risorse. L' altra versione, su cui insiste questo libro, mette a fuoco le terribili responsabilità del Sud. La verità è che il peggio del Sud e il peggio del Nord sono alleati in un solo saccheggio. Non si sa chi sia lo scorpione e chi la rana, in questa storia. Ma la morale della favola è comunque la stessa: affogheranno insieme.
Per cui i leghisti ed altri beceri razzisti della loro risma non si facciano illusioni, se il Sud affonda non sarà solo, un gorgo poderoso trascinerà sul fondo tutto e tutti e nessuno si salverà.



Le leggende dell’amore


La nostra tradizione culturale, greco-romana e giudaico-cristiana ha creato miti e leggende che hanno come motivo l’amore, divinità maggiori e minori affollavano il Pantheon greco da Venere ad Eros, da Afrodite a Cupido, ma pochi sanno che gran parte di questo materiale proviene da una fonte risalente al 2500 a.C., a Gilgamesh, il Re sumero di Uruk ed è stata scritta su tavolette di argilla, le quali fortunatamente, ci sono pervenute. Anche tante radici di miti letterari e religiosi derivano da quell’antica Epopea: dal serpente che condanna gli uomini alla mortalità al diluvio universale, ai numerosi viaggi nel regno dei morti che ispirò quelli di Orfeo, di Enea, di Dante. Gilgamesh fonda Uruk, la prima vera città e da sicurezza ai propri sudditi, ma in cambio pretende da loro, uomini e donne, che obbediscano ad ogni suo capriccio. A renderlo più docile arriva Enkido, una sorta di suo alter ego: se Gilgamesh è per due terzi Dio, Enkido è un uomo animale (un antenato dei centauri), fino a quando una donna non gli fa scoprire il sesso e lo rende uomo a tutti gli effetti. Tra Gilgamesh ed Enkido nasce una rivalità, che sfocia in un combattimento feroce, dopo il quale nasce una forma di “amicizia particolare” come quella che Omero farà nascere tra Achille e Patroclo. Quando Enkidu muore, Gilgamesh disperato lo cerca nell’oltretomba e scopre una verità ben diversa da quella raccontata dalle altre epiche: non vi è nulla che attende l’uomo oltre la morte e questo rende la vita terrena un bene prezioso da utilizzare fino in fondo. 
Per chi volesse approfondire questa straordinaria epopea, consigliamo un libro uscito di recente “Gilgamesh, l’epopea del Re di Uruk”, un affascinante viaggio dall’argilla all’acquerello, un volume a tre mani tra la grafica francese Lurie Elie, la pittrice iraniana Forough Raihani e la giornalista italiana Alessandra Grimaldi, a cui è collegato un mp3 letto da Francesco Pannofino con musiche di Giorgio Giampà.

L’amore al tempo della galera



Avrei voluto intitolare questo capitolo Il sesso nelle carceri poi sono stato attirato da questo titolo di derivazione cinematografica e ho deciso di adottarlo per discutere di quello che, a parere dei detenuti, quasi tutti molto giovani, è la privazione più grave: l’impossibilità di continuare a praticare una dignitosa affettività con le persone care, anche loro condannate, senza alcuna colpa, alla stessa pena e non vogliamo parlare solo di sesso negato, ma anche dell’impossibilità di continuare ad intrattenere un decente, anche se discontinuo rapporto, con i propri figli in tenera età, che sono sottratti per lunghi periodi da qualsiasi contatto col genitore. Tutti riconosciamo che l’essere umano ha bisogno di affetto, tanto più quando viene a trovarsi in situazioni di disagio e senza dubbio la restrizione della libertà è una delle condizioni più penose da sopportare. Nella repressione degli affetti si verificano gravi deviazioni, comprese quelle sessuali. A questo proposito lapidario è il pensiero di Friedrich Nietzsche: "È noto che la fantasia sessuale viene moderata, anzi quasi repressa, dalla regolarità dei rapporti sessuali, e che al contrario diventa sfrenata e dissoluta per la continenza e il disordine dei rapporti." (Umano, troppo umano, I, n. 141).
Allora la soluzione va cercata in una politica illuminata che, nell’esecuzione della pena, privilegi sin dall’inizio, se non è possibile l’uscita dal carcere, almeno l’incontro periodico coi propri cari e non il distacco netto e la drastica separazione, causa di infiniti problemi esistenziali, di relazione e interpersonali. Nell’interno del carcere è opportuno creare degli ambienti, che pur rispondendo a tutti i requisiti di sicurezza, offrano al recluso ed ai suoi familiari dei momenti di intimità. Se un detenuto riesce a mantenere una rete solida di rapporti affettivi, oltre a tollerare di buon grado la pena da scontare, corre molti meno rischi di tornare a commettere reati, inoltre conserva un comportamento corretto, quando queste occasioni di incontri ravvicinati sono subordinati ad un condotta assolutamente irreprensibile. Le sorprendenti scoperte di Reich hanno dimostrato in maniera inequivocabile quanto la repressione sessuale generi violenza e come le istituzioni tendano a canalizzare l’esplosione di queste pulsioni primitive per utilizzarle nei conflitti bellici. La violenza che si produce nelle carceri, impedendo anche solo la parvenza di un’attività sessuale, non giova a nessuno, certamente non alla società che si trova a ricevere individui incattiviti, nei quali cova l’odio e la vendetta, invece che la volontà di reinserimento. La storia del carcere è lunga quanto quella dell’uomo, ma le segregazioni nell’antichità e nel medio evo ripugnano la sensibilità moderna per le atrocità ed il costante utilizzo della tortura, per cui un’analisi storica sulla nascita dei sistemi penitenziari bisogna farla risalire alla nascita della società industriale ed all’accentuazione dell’esercizio del potere dello Stato, in momenti dominati dalla cultura religiosa, che ha sempre dato al sesso una valenza particolare di demonizzazione.
Pensiamo alle Lettere di San Paolo ai Padri della chiesa, ad Origene, a San Girolamo, a Sant’Agostino, fino ad Alberto Magno e San Tommaso d’Aquino. Di conseguenza una soluzione al problema "affettività", intesa in particolare nella sua dimensione sessuale, deve cominciare necessariamente attraverso una critica storico culturale puntuale e puntigliosa. Dobbiamo ripercorrere e rivisitare tutta la nostra tradizione culturale sull’argomento, ereditata in duemila anni di storia dell’Occidente, che ha accompagnato ed influito sul concetto del sesso e del piacere in generale, vissuto costantemente come peccato, male necessario solo per la procreazione ed a salvaguardia della specie. La cattolicissima Spagna o la democratica Svizzera da tempo consentono i "colloqui intimi" ed hanno ottenuto ottimi risultati.
In Italia per evitare che qualcuno confonda le "stanze dell’affettività" con le "celle a luci rosse" è necessaria una rivoluzione culturale. La pena è privazione della libertà, ma non deve significare anche distruzione degli affetti ed annullamento completo di una normale vita sessuale. 
Naturalmente non bisogna considerare unicamente le esigenze di affettività degli uomini sposati o conviventi, trascurando i bisogni, impellenti ed improcrastinabili dei più giovani, che non hanno legami fissi, ma in compenso hanno ormoni in ebollizione e desideri difficile da placare. La masturbazione o l’omosessualità, i rimedi ai quali sono obbligati non sono certo la soluzione del problema. Anche per loro bisogna predisporre un programma che tenga conto delle loro esigenze. In Italia il meretricio è legale e sarebbe eccessivamente licenzioso pensare ad una cooperativa di prostitute che si convenzioni con le istituzioni carcerarie? Vi sarebbe spazio anche per volontarie, moderne suffragette pronte ad immolarsi per una giusta causa, eventualmente anche per fanciulle poco attraenti, in virtù del fatto che molti detenuti a seguito della lunga astinenza sarebbero pronti a tutto.
Naturalmente agli ammogliati sarebbe vietato di accedere a questo servizio.
Naturalmente la prestazione sarebbe a spese del recluso. Naturalmente sarebbe un evento sporadico molto dilazionato nel tempo. Naturalmente potrebbero usufruirne solo quelli che osservano una condotta corretta. Naturalmente tutti, politici ed opinione pubblica devono impegnarsi per risolvere lo spinoso problema.

Amore e morte


L’ammore è comme fosse nu malanno ca,
all’intrasatta, schioppadint’ ‘o core
senza n’avvertimento, senza affanno,
e te pòffàmurì senza dolore.

Cominciamo questo capitolo con i versi immortali di una poesia di Totò (al secolo Antonio De Curtis), che, noto per la sua ‘A Livella, ha scritto numerosi versi ispirati al nobile sentimento.
Spesso gli amanti, nel culmine della passione, adoperano frasi ad effetto: “Ti amo da morire”, “Se mi lasci mi ammazzo”, ma, sempre più spesso, anche “Se mi lasci ti ammazzo”. Infatti, una delusione amorosa, un abbandono, possono farci divenire santi ma, con sempre maggiore frequenza, anche assassini.
Sono sempre di più gli uomini, di ogni cultura e latitudine, che non tollerano che la persona amata possa amare ed essere amata da altri.
Da qui nasce la piaga esponenziale di cui vogliamo parlare, analizzandone motivazioni ed origini.
Per millenni gli uomini, sulla base di una concezione patriarcale e maschilista della società, hanno educato le donne a ricoprire nella famiglia un ruolo subordinato sottoponendole ai voleri ed agli ordini degli uomini, costringendole a pagare un pesante tributo di violenza e di sangue ad ogni, pur larvato, tentativo d’insubordinazione.
Ancora oggi, in gran parte del mondo, soprattutto nelle società dominate da princìpi religiosi, ha dominato un modello maschilista e questo non solo nei paesi islamici, dove il Corano esplicitamente prevede sanzioni e comportamenti che le donne devono pedissequamente rispettare, ma anche nel mondo cattolico, dove la figura di Dio addossa interamente la concupiscenza, considerata peccato mortale, alla responsabilità femminile, a tal punto che più di una volta, preti ultramoralisti, oltre ad omelie infuocate dal pulpito contro gonne troppo corte e seni in libera uscita, hanno distribuito volantini nei quali giustificavano le violenze ai danni delle donna come giusta reazione ai loro comportamenti provocatori e spudorati.
Chi legittima i rapporti di possesso dell’uomo sulla donna? Il Vaticano, ancora nel 1988, si esprimeva senza remore sulla “dignità e la vocazione della donna”, facendo esplicito riferimento ad essa unicamente come “moglie e madre ubbidiente, succube dell’uomo per fondamentale retaggio dell’umanità”. Ovvero, come fatto voluto da Dio, che, dunque, non gradisce una donna autonoma ed indipendente, impegnata in un’attività lavorativa qualsiasi, magari di natura dirigenziale. La Riforma protestante, per parte sua, liberò le suore dai loro voti controllando, tuttavia, che esse divenissero brave “donnette” di casa, docili e mute. Lutero in persona definì l’uomo “superiore e migliore” e la donna “un mezzo bambino, un animale pazzo”.
Anche questo monaco, in verità, parlò con l’animo ed il lessico più tipico del proprio sesso predicando come “massimo onore della donna mettere al mondo figli maschi”. Ma anche Papa Giovanni Paolo II, nel 1996, si è richiamato all’apostolo Paolo utilizzando una tra le innumerevoli frasi più misogine del celebre santo dispregiatore della femminilità: “La donna impari in silenzio, con sottomissione. Non sia permesso ad essa d’insegnare, né di usare autorità sul marito, perché Adamo fu formato per primo, poi venne Eva; perché Adamo non venne sedotto, bensì fu la donna, la quale cadde in tentazione. Nondimeno, essa sarà salvata partorendo figlioli e perseverando nella fede, nell’amore e nella santificazione con modestia”. Così parlò San Paolo: che le donne sappiano, una volta e per sempre, cosa debbono o non debbono fare. La misoginia clericale dimostra, insomma, come la volontà della Chiesa non senta minimamente bisogno di trasformarsi: i suoi capisaldi rimangono univoci, la definizione dei ruoli sociali immutabili, stabiliti nel tempo. Ma quel che storicamente appare più grave è il fatto che, quando la predicazione clericale inizia a non dare più frutti, ecco che si comincia a far ricorso al “femminicidio”.
Innumerevoli sono state, nella Storia, le donne denunciate come “streghe” che, in base a tale accusa, dovettero morire, perché così vollero gli annunciatori della “Lieta Novella”. Fintantochè questa Chiesa avrà potere sugli animi e non rianalizzerà le proprie colpe millenarie, gli uomini la faranno sempre “pagare” alle donne, mantenendole in una condizione di subalternità. Di quale e quanta morale dispone, dunque, la Chiesa cattolica? Il “Maglio delle streghe”, pubblicato nel 1487, ebbe la benedizione di un Papa. Esso venne divulgato in tutto il mondo come autorevole documento della Chiesa e, in tutte le sue edizioni (una trentina), vi è perennemente rimasta inclusa una “bolla” che incitava espressamente all’uccisione delle donne. Contro di essa, per più di 200 anni, non vi fu uno “straccio” di pontefice disposto a spendere una parola in senso contrario. Ecco, dunque, con quale pretesto giuridico le donne vennero sottoposte a penosi interrogatori o furono oggetto di invereconde investigazioni da parte dei religiosi. Essi estorsero confessioni utilizzando la tortura, unitamente ad altre innumerevoli sconcezze. L’Occidente cristiano si è concesso migliaia di carnefici che mai si sono stancati di esaminare sul corpo e sulla pelle delle donne la loro appartenenza a Satana. Le donne, in ultima analisi, come anche dichiarato nel protocollo di un processo del XIV secolo, “non possono che lasciarsi conciliare con la Chiesa, senza tuttavia impedire di essere consegnate al potere temporale, che provvederà alle pene richieste”. Il Concilio di Trento (1545-1563) fruttò nuovi importanti dogmi per reagire allo scisma luterano, senza spendere nemmeno una parola sullo sterminio degli eretici, degli ebrei e delle donne. La qual cosa ha sempre dato luogo a legittimi interrogativi circa le effettive origini del nazismo, fondato da un cattolico austriaco di nome Adolf Hitler. I roghi, che da quel Concilio discesero, non hanno mai destato, più di tanto, l’interesse degli storici, soprattutto in Italia. Eppure quella strage, protratta nei secoli, non ha riguardato solamente alcuni casi isolati di “peccatrici”: fu una vera e propria dottrina papale. Si pose fine alle uccisioni solo dopo che s’imposero voci provenienti dall’esterno della Chiesa, che si è sempre giustificata attribuendo le proprie “malefatte” alla volontà di Dio.
Il sommo teologo Alberto Magno definiva le donne “esseri difettosi”, mentre San Tommaso d’Aquino, dottore supremo, sulle cui disquisizioni si basa gran parte dell’edificio culturale della Chiesa, oltre a corbellerie del tipo che l’anima entra nel corpo dell’uomo a 40 giorni dalla fecondazione e nella donna dopo 90, definiva l’altra metà del cielo come “degli uomini mal riusciti, delle persone cui manca qualcosa per realizzare la più autentica natura umana”.
La tradizione cattolica ritiene che le donne devono aspirare a presentarsi come verginali fidanzate del Signore, come consorti fedeli e madri di molti bambini. La conseguenza non può essere che una società esposta al dominio del maschilismo più retrivo. Viviamo in una società, giustamente definita “liquida”, rissosa e priva di guida, condannata a seguire gli errori e gli orrori della storia, in preda all’aridità morale ed alle più ataviche delle pulsioni. 
Non vi è più speranza nel futuro: cadute le ideologie, siamo divenuti un popolo di morti che camminano.

domenica 26 gennaio 2014

Il battesimo del futurismo



Pochi sanno, neanche tra gli specialisti, che il battesimo del movimento futurista avvenne a Napoli, dove il Manifesto di Marinetti vene pubblicato il 14 febbraio del 1909 dell'editore Bideri, famoso per le sue copie delle canzoni di Piedigrotta, 6 giorni prima della sua comparsa sulle pagine del Figaro di Parigi. E dopo pochi mesi, il 29 aprile 1910, vi fu il battesimo del fuoco al teatro Mercadante davanti ad un pubblico battagliero ed interessato con poltrone e palchi presidiate dalla intellighenzia partenopea, da Croce a Scarpetta, da Scarfoglio a Matilde Serao, oltre a politici, professionisti ed un plotone di giornalisti, i quali variamente commentarono l'evento sui loro giornali.
Tra i paladini del nuovo movimento Marinetti, Palazzeschi, Boccioni e Carrà, i quali erano andati nell'antica capitale, inebriati da quella atmosfera avvolgente della Belle Epoque, accoppiata ad un momento esaltante di creatività culturale ed artistica, testimoniata da un numero senza eguali di Teatri e giornali, in stridente contrasto con una fase di severa crisi economica e di degrado morale del ceto dirigente.
Durante la presentazione al Mercadante, come ci racconta Generoso Picone dal palco dove sedeva donna Matilde giunse sulla scena, al posto del fatidico pomodoro, un'arancia che Marinetti, impassibile, prese al volo, sbucciò e mentre continuava a parlare cominciò a mangiarla.
il pubblico da un lato applaudì per il gesto coraggioso, ma continuò a far piovere di tutto su quei personaggi originali che apparivano come degli alieni e nello stesso tempo a manifestazioni di approvazione si alternavano fischi e pernacchie.
Un posto particolare se lo ritagliò Vincenzo Gemito con la sua barba lunga, i capelli scompigliati, il volto spiritato, si affacciava dal suo palco inneggiando ai futuristi, al punto che Marinetti interruppe la sua lettura per andargli a baciare la mano. Lo scultore rimase talmente colpito dal nuovo verbo, che volle invitare Boccioni e Marinetti a casa sua e volle apporre una corposa dedica al loro Manifesto tecnico della pittura futurista: "Ai cari amici un augurio per la loro nobile  missione di promozione di un nuovo ideale di arte in Italia, da parte di un amico che ha avuto la fortuna di applaudirli".
Da quella sera memorabile per settimane nei circoli intellettuali e nei cenacoli letterari si parlò solo di Futurismo, alternandosi adesioni incondizionate e critiche feroci, sguardi perplessi a sorrisi ammiccanti "I terribili provocatori futuristi, gli strambi apostoli di nuove dottrine, gli avanguardisti irriverenti che volevano uccidere il chiaro di luna, potevano anche trascorrere l'intera giornata a dettare i loro programmi d'intenti belligeranti: poi però la sera non rinunciavano alla passeggiata sul lungomare di Posillipo, continuando a discutere, gustando del buon pesce nei migliori ristoranti.
La prima adesione napoletana al gruppo futurista fu quella di Francesco Cangiullo, fino ad allora autore di canzonette e musiche, tra cui "Mastrottore", una cantilena composta nel 1904 molto apprezzata da Igor Straviskiy, che la inserì nel suo Pulcinella e da Tzara Ball che la introdussero nel cabaret Voltaire del 1916, con cui lanciarono il  movimento Dadaista.
Nel 1912 Cangiullo dedicò a Marinetti "La cocotta Futurista", un divertisment da leggere nei cafè chantant, che ricevette un premio durante la Piedigrotta. Compose anche una canzone pirotecnica si sole lettere e note ed a Roma fu autore di un gesto eclatante quanto irriverente, portando in processione la testa di Croce scolpita a colpi schiaffi. Il sommo filosofo godeva viceversa dell’ammirazione di Carrà, il quale, si recò più volte a casa di Don Benedetto, discorrendo amabilmente di estetica e di impressionismo, timorosi che i quadri alle pareti, rigorosamente figurativi, stessero ad ascoltare.
Nel 1914, sempre Cangiullo, nel nobile Palazzo Spinelli in via dei Mille interpretò con Marinetti, Balla e Depero un poema che parodiava la Piedigrotta, al frastuono assordante di putipù, scetavajasse e triccaballacche e davanti ad un pubblico partecipe che non si fermò un attimo dallo scompisciarsi dalle risate.
Non contento Cangiullo condusse Marinetti in trasferta a conoscere Capri, l’impareggiabile isola delle sirene ed a ripercorrere gli ectoplasmi di Diefenbach, Cerio, Gorkij, Lenin, Cocteau e tanti altri spiriti eletti che lì avevano soggiornato. Il padre del futurismo rimase talmente colpito dalla bellezza di albe e tramonti da comporre un dimenticato romanzo: “L’isola dei baci”.
I futuristi, impegnati nella loro missione dirompente verso il solenne, il sacro, il sublime e tutto ciò che fino ad allora era stato l’obiettivo dell’arte si accorsero che sabotaggio, presa in giro e parodia irriverente costituivano da tempo la miscela esplosiva del teatro di varietà che da anni furoreggiava a Napoli e sbalorditi approfondirono le più antiche tradizioni popolari, soprattutto la Piedigrotta, che in quegli anni assunse aspetti scoppiettanti con l’utilizzo di artifici pirotecnici.
Al carattere trasgressivo le edizioni della festa affiancarono ascensioni aerostatiche e sorprendenti giochi di luce, culminati nell’edizione del 1895 con un corteo di due chilometri che mise assieme orologi e fiori, telefoni ed animali, telescopi e macchine fotografiche, In un turbinio di effetti di luce, che rappresentò uno dei momenti più alti del futurismo. 

I salotti letterari napoletani





Il salotto di Donna Elvira, che si è tenuto per più di dieci anni nella sua villa di Posillipo, ha antenati illustri, perché sin dal Settecento ed ancor più nell'Ottocento, la nobiltà e l'aristocrazia del pensiero napoletana amava incontrarsi periodicamente nei loro lussuosi salotti non solo per sfoggiare le nuove tolette, ma anche e soprattutto per discutere, discutere, discutere.
Tra quelli di maggiore spessore culturale va annoverato il celebre "Salotto giallo" del magistrato irpino Giovanni Masucci, il quale, sull'onda del magistero desanctisiano del circolo filologico, si riuniva ogni martedì e tra i partecipanti letterati del calibro di Emile Zola, Giosuè Carducci e Giovanni Pascoli. Un faro della cultura come Benedetto Croce lo si poteva incontrare giovanissimo nel cenacolo letterario di Riccardo ed Enrichetta Carafa D'Andria.
Particolarmente ambite e sempre affollati, con rimbalzo sulle cronache mondane dei giornali, quelli del Principe Tricase, della Marchesa Sessa e della famiglia Barracco, antenati del marito della battagliera Mirella giustamente denominata ai nostri giorni per le sue lodevoli iniziative "L'ultima regina di Napoli" (e per la cui biografia rinvio alle pagine del 1° tomo del mio "Quei Napoletani da ricordare").



sabato 25 gennaio 2014

Achille Mottola

Achille Mottola


Dal 1826 il Conservatorio di San Pietro a Majella si trova nell'edificio che era il convento dei Padri Celestini vicino a piazza Dante e al decumano maggiore. 
Trae le sue origini nei quattro Orfanotrofi sorti nel Cinquecento nelle zone più povere e più derelitte di Napoli: il Santa Maria di Loreto, la struttura di Sant'Onofrio a Porta Capuana, i Poveri di Gesù Cristo e la Pietà dei Turchini. La scuola di musica nacque appunto dall'unione degli studenti di questi orfanotrofi. La sede attuale ospita una biblioteca dove sono conservati autografi, manoscritti e stampe rare con una sezione particolare dedicata alla musica Settecento napoletano. La sala Scarlatti, che ha un'acustica spettacolare, si affaccia su uno dei chiostri del conservatorio.
Uno scrigno con 5 secoli di partiture, manoscritti e strumenti che la cattiva gestione stava mettendo in pericolo. Ora la rinascita con un commissario che riesce a coniugare buona amministrazione e nuove iniziative artistiche. I suoni che arrivano dalle finestre sul vicolo San Pietro a Majella non sorprendono solo i viaggiatori di passaggio ma anche i napoletani. Gli archi pizzicati che si sovrappongono ai fiati, le voci dei cantanti che si intrecciano con i pianisti che corrono per lo loro scale diatoniche tutti insieme, ma ognuno per conto proprio. Le note di centinaia di esercizi rimbalzano anarchiche sulle pareti dei palazzi che si aprono su piazza Bellini e via Costantinopoli. E sotto nel vicolo, i turisti con il naso per aria che cercano di capire la magia di uno dei luoghi più simbolici di una Napoli decadente che resiste grazie alla passione di pochi.
Il Conservatorio di San Pietro a Majella è un’istituzione che non finisce mai di sorprendere, anche se negli ultimi anni è stata offuscata da questioni amministrative. Per mettere ordine tra le pareti dell’antico convento dei Padri Celestini è che stato nominato un commissario che ha fatto della musica una delle sue passioni vitali.
«Per me la musica è stata un sogno che e diventato segno - dice Achille Mottola, da un anno commissario con funzione di presidente del CDA nel conservatorio di San Pietro a Majella -  Non so se benedire o  maledire l’insegnante di scuola media che non ci faceva ascoltare la musica. Mi sarebbe piaciuto molto poterla studiare bene ma, quello che potevo fare era disegnare i tasti del pianoforte sul banco e farli sparire durante l’intervallo per non vano per non essere rimproverato dagli altri insegnanti. E’ stata una spinta, quello che ho capito è che l'insegnamento della musica è fondamentale fin dalla scuola dell'infanzia, importantissima nella scuola primaria e quindi nelle medie. E’ determinante avere degli insegnanti che sappiano leggere la musica e che siano in grado di capire e poi indirizzare la vocazione degli allievi». Achille Mottola ha cominciato una sua piccola rivoluzione per creare, parole sue, un “Conservatorio con le pareti di cristallo” «Deve essere possibile guardare all'interno del conservatorio - dice - per permettere a tutti di vedere e godere degli incredibili tesori che contiene ma anche per verificare che tutto si svolga secondo le regole. Quello che ho dovuto fare è riattivare le procedure amministrative contabili. San Pietro a Majella era in condizioni critiche, non erano stati fatti i consuntivi, non cerano bilanci di previsione. Sono partito da zero e i sogni rimangono sogni se non si trovano le energie per realizzarli». Mottola è uno specialista, dopo sei anni con un ruolo analogo al conservatorio di Benevento e dieci anni come presidente dell'associazione Amici della Musica, si muove tra le faccende musicali organizzando concerti e incontri. 
«Una volta trovate le energie, quello che rimane e la passione e la soddisfazione di aver coinvolto tanti ragazzi a fare una cosa meravigliosa. A Benevento ho trovato risorse per quasi sei milioni di euro. Abbiamo acquisito uno stabile del '700 per dare una sistemazione al conservatorio, eppure non è quella la grande soddisfazione del mio percorso. Uno dei risultati veri e che mi ha ricompensato di più è il concerto dei ragazzi diretti da Sir Anthony Pappano. Era estate e pur di essere seguiti dal grande direttore d'orchestra, anche lui di origini sannite, i ragazzi, erano settantuno elementi, rinunciarono alle vacanze e rimasero a provare chiusi in un cinema». 
I progetti legati alla crescita di istituzioni come un conservatorio devono comunque legarsi alla modernità anche per lasciare una traccia del percorso seguito. «Al conservatorio di Benevento - dice Mottola - ho sperimentato la creazione di un'etichetta discografica. Lo stesso ho fatto a Napoli. Abbiamo ora delle edizioni San Pietro a Majella, poi avremo anche un'etichetta discografica per poter promuovere e commercializzare la musica registrata da noi, avremo un bookshop. Però, la cosa principale è la tutela e la promozione di un patrimonio storico immenso».
C'è una parte molto arida dietro il corretto funzionamento di una grossa istituzione come un conservatorio di musica. La gestione corretta del patrimonio, anche quello immobiliare, è una componente decisiva per la riuscita di iniziative artistiche. «Per quanto si possa essere capaci a intercettare risorse e organizzarle, ci vogliono gli spazi per realizzare le cose. Ma in realtà quello che mi preoccupa di più non sono gli spazi fisici, ma quelli mentali. Via Costantinopoli potrebbe diventare la strada della cultura. In cento metri sono attivi due grossi poli culturali della città, il Conservatorio e l'Accademia delle Belle Arti. Se si riuscisse a creare anche un polo dedicato alla danza, sarebbero i cento metri più creativi della città».
Come la mostra dedicata a Giuseppe Verdi, inaugurata il 21 dicembre, realizzata tutta con materiali custoditi nella biblioteca. Ci sono la partitura originale dell'unico quartetto per archi scritto da Giuseppe Verdi, il calco della sua mano ed altre testimonianze del rapporto tra Verdi e la città. «La biblioteca archivio del Conservatorio di Napoli è la storia della musica degli ultimi cinque secoli dice il commissario. Contiene partiture autografe di Alessandro e Domenico Scarlatti, i manoscritti di Pergolesi e Monteverdi. Ho dovuto far installare un sistema di telecamere per una videosorveglianza attiva 24 ore al giorno. Quelle che c'erano o non funzionavano o erano finte. Erano scomparse 40 pagine di un manoscritto di Monteverdi».

Doma ma non vinta

Monica Guerritore


Monica Guerritore nata a Roma nel 1958 da una famiglia di origine napoletana esordisce nel 1974 a soli sedici anni sotto la regia di Giorgio Strehler ne Il giardino dei ciliegi (ma la sua prima piccola apparizione la vede appena tredicenne nel film di De Sica Una breve vacanza). Nel 1977 interpreta Elena nello Zio Vanya cechoviano diretto da Mario Missiroli con Annamaria Guarnirei e Glauco Mauri. Nel 1978/79 è Viola nella Dodicesima Notte, per la regia di Giorgio De Lullo, e Angelica ne Il malato immaginario con Romolo Valli. Nel 1981 si lega sentimentalmente e artisticamente a Gabriele Lavia, iniziando a recitare ne I masnadieri di Schiller, Lavia la dirige soprattutto in ruoli femminili molto forti come Giocasta, Lady Macbeth, Orfelia e la Signorina Giulia. Nel 1995 interpreta Il giardino dei ciliegi questa volta nel ruolo della madre Liuba. Successivamente ricopre il ruolo di Marianne in Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman. La coppia si separa nel 2001: la Bovary, Carmen e La Signora delle Camelie.
Accanto alla carriera teatrale porta avanti anche quella televisiva e cinematografica: nel 1976 è accanto a Marcello Mastroianni nel film Signore e signori, buonanotte, nel 1977 è protagonista del primo sceneggiato Rai a colori, Manon Lescaut; al cinema fa scandalo il suo film sull’incesto Fotografando Patrizia di Salvatore Saperi (1984). Ricopre il ruolo di co-protagonista accanto a Laura Antonelli ne La veneziana di Mauro Bolognini (1986).
Torna in Rai per sua decisione solamente nel 1997 con Costanza di Pierluigi Calderoni e nel ’99 con L’amore oltre la vita. Nel marzo 2004 la troviamo nel ruolo di Ambra in Amanti e segreti, e due anni più tardi in quello di Ada Sereni nel film in due puntate Exodus: i clandestini del mare. Gabriele Lavia l’ha diretta al cinema in due film dal forte contenuto sessuale: Scandalosa Gilda (1986). Nel 1996 Lavia la dirige insieme a Giancarlo Giannini, Raul Bova e Michele Placido nel grande successo La lupa (1996). Nel 2007 invece iniziano le riprese di Un giorno perfetto di Ferzan Ozpetek, che conquista consensi al Festival del cinema di Venezia nel 2008.
A marzo 2008 viene chiamata da Mimmo Calopresti per interpretare la madre di uno dei ragazzi uccisi nel film documentario sulla tragedia della THYSSEN-Krupp: La fabbrica dei tedeschi. A maggio lavora sul set dell’amico Pappi Corsicato per una partecipazione nel film che segna il ritorno del regista, Il seme e della discordia. A settembre-ottobre 2008 gira La bella gente con Antonio Catania e Elio Germano, per la regia di Ivano De Matteo. La pellicola vince il Festival di Annecy e riscuote in Francia notevole successo. Nel 2009 è stata impegnata nelle riprese di Sant’Agostino nel ruolo di Monica con Alessandro Preziosi e la regia di Christian Dugay, produzione Lux Films. La miniserie televisiva è andata in onda su Raduno nel gennaio 2010. Sempre sulla rete primaria l’anno successivo ritorna la serie “Rossella”, regia di Gianni Lepre. Nel cinema ottiene un altro grande successo con “La peggior settimana della mia vita” di Alessandro Genovesi.
Ma è nel teatro che Monica Guerritore trova la sua via, anche come interprete-regista, drammaturga di spettacoli di grandissimo successo come Giovanna d’Arco e Dall’Inferno all’Infinito. Il 25 febbraio 2011 le viene consegnato il premio Morioni come “Protagonista della scena”. L’importante riconoscimento internazionale è stato assegnato all’artista per la sua forte personalità artistica e per la passionalità delle interpretazioni teatrali e cinematografiche. Il primo maggio 2012 è andata in onda la commedia di Eduardo De Filippo Sabato, domenica e lunedì in cui la Guerritore ha interpretato il personaggio di Rosa Priore. In quest’occasione si registra una polemica piuttosto accesa con il giornalista Bruno Vespa. Quest’ultimo, per motivare l’assenza dell’attrice nella puntata di Porta a porta dedicata alla commedia eduardiana, asserisce che è molto malata. Di fronte alla secca smentita dell’interessata Vespa è costretto a chiedere pubblicamente scusa.
Con Mi chiedete di parlare, un testo su Oriana Fallaci da lei scritto e interpretato, conquista il Festival di Spoleto nel 2011. Nel 2012 torna al Piccolo Teatro registrando il tutto esaurito. Nel febbraio 2013 va in onda Trilussa di Michele Placido, dove interpreta Rosa Tomei la popolana che fu accanto al poeta per tutta la vita, morendo poi sola e di assoluta povertà.
Intensa è stata la sua vita sentimentale: ha due figlie, Maria e Lucia, avute dal suo matrimonio con Gabriele Lavia. Negli anni Settanta ha avuto una relazione con l’attore Giancarlo Giannini ed una con Giancarlo Leone. Dal 2001 è la compagna dell’ex presidente della RAI, professore di Diritto Costituzionale e parlamentare del PD Roberto Zaccaria, sposato poi nel 2010.
Ha tenuto sempre a dichiarare: ”ti salva solo l’abbraccio di un uomo: dopo il divorzio ed un tumore, un giorno mi sono sentita forte, concentrata”. E per questo ringrazia Dio e suo marito.
L’ultimo lavoro della Guerritore è ”Endoft the Rainbow. Vita e morte di una grande stella” di Peter Quilter, con l’attrice che dà voce, anima e corpo alla star hollywoodiana in un musical agiografico, che ripercorre le ultime sei settimane prima della morte. Siamo nel 1968 a Natale e la Garland alloggia in un’elegante suite dell’Hotel Ritz Carlon al centro di Londra. Con il suo amico pianista e compagno di tante avventure, Anthony (interpretato da Aldo Gentileschi), e con il suo nuovo giovane amante, Mickey Deans (Alessandro Riceci), si prepara una serie di concerti nella capitale londinese. Ha 46 anni ed è decisa a tornare alla ribalta alla grande. I matrimoni falliti, i tentativi di suicidio, le dipendenze da alcol e farmaci sembrano lasciati definitivamente alle spalle.
“La Garland sta cercando di disintossicarsi – racconta la Guerritore – E’ spiritosa, folle, piena di ironia e leggerezza, ma attraverso le sue canzoni si percepisce una profonda solitudine. La vicinanza delle persone di cui si fida sembra a tratti scaldarla è offrirle riparo, ma il suo immenso talento brucia una energia tale da divorarla e la luce del palcoscenico, i lustrini, le paillettes, gli abiti eleganti, le pellicce, nascondono una solitudine assoluta che la porterà a crollare in scena per overdose da barbiturici. E’ il destino comune ad altre stelle come Edith Piaf, la Houston, la Winehouse…”
Un musical tragico ma anche divertente, assicura la protagonista che, per l’occasione, si è totalmente trasformata: “canto tutti i brani dal vivo, con musicisti che suonano in scena – tiene a precisare – Non ho mai cantato, in tanti anni di teatro, ma non ho avuto paura di mettere nella mia voce Judy Garland e il suo mondo, i suoi gesti, le sue intemperanze, la sua leggerezza. Non penso alle conseguenze dei miei gesti, non mi interesso di me…E’ l’esperienza straordinaria la materia che voglio maneggiare, a quella voglio dare il mio sudore, la mia energia…E’ la prima volta che in uno spettacolo, attraverso la musica, lo sfavillio straordinario e accecante dello star system hollywoodiano, le luci della ribalta, racconto quello che c’è dietro il mondo dello show business. Le sue stelle e la loro tragica fine”
Essere una star è stato facile, vivere è stato difficile. Magnetica, sicura, irresistibile in scena, fragile lontano dal palcoscenico.
Judy che incantava intonando Over the Rainbow o saltellando nel Mago di Oz, Judy che ebbe cinque mariti e per amante Fred Astaire, Judy il cui sorriso era lo spot della Hollywood scintillante degli anni Quaranta, Judy che tentò il suicido, che viveva di anfetamine e scappava di scena per farsi un cicchetto, Judy che ebbe per figlia Liza Mannelli, Judy che morì a 47 anni, sola in bagno, nel mezzo di una serie di concerti londinesi. Overdose di barbiturici. Judy che aveva una fragilità nota a tutte le donne, parola di Monica Guerritore, che di donne ne h interpretate molte. Madame Bovary, Oriana Fallaci, La Lupa, Gorge Sand sono solo alcune. Donne a volte talentuose e fragili, a volte solo fragili. In End of the Rainbow, il musical di Peter Quilter che ha spopolato a Broadway e racconta le ultime settimane di Judy Garland, Monica Guerritore, oltre a ballare, canta ed è la sua prima volta: otto brani, pubblicati anche in CD.
Le grandi dive sono fatte per stare sotto i riflettori e quando questi si spengono si perdono. La Gardland, infine, sposò il suo pusher. Cinque mariti tra cui Vincente Minelli (da cui ha avuto la figlia Liza), una schiera di amanti, felice solo con chi la capiva davvero, gli amici gay, la Garland è il volto scintillante di Hollywood e una maschera tragica. Schiava delle anfetamine, muore a 47 anni per un’overdose di barbiturici. “Mi ha affascinato” racconta la Guerritore “Ritrovo nella sua parabola la fine di tanti talenti immensi, star fragili che si sentivano inadeguate. Penso a Amy Winehouse, Whitney Houston, Edith Piaf. Il corpo umano non sopporta tanta divinità. Abbiamo aggiunto un momento nel musical: Judy muore cantando i primi versi di Over the rainbow, vestita di piume e lustrini. Finisco io e parte la voce della Garland che canta senza musica. Il pubblico resta muto, è un momento magico. Dedico tutte le sere il musical a Judy e ad Andrea, il ragazzo gay che si è tolto la vita; Judy i gay li sentiva vicini e in qualche modo bisognosi d’amore. Come lei che si sentiva estranea al mondo”.
Cos’altro ha imparato dalle donne che ha interpretato?
“Che c’è un filo rosso che le accomuna tutte, tranne una, ed è il senso di vuoto dentro, come se soffrissero la mancanza di qualcosa. La Lupa cerca di riempire il suo buco in petto con il sesso. Madame Bovary non può fare a meno di andare verso l’amore, senza progetto, anche se va verso il suicidio. Solo Giovanna D’Arco sa ascoltare e sa cosa vuole ed è piena: è anima, corpo e mente.
A volte, avverto che qualcosa di meravigliosamente grande mi accompagna. L’ho sentito dopo essere uscita dal tunnel della separazione di Gabriele, un periodo in cui mi svegliavo di notte con gli attacchi di panico. Dopo aver superato quel dolore, e dopo il cancro, un giorno, mi sono sentita centrata, forte, accompagnata dagli angeli. Mi sono inginocchiata e ho ringraziato Dio”.