domenica 5 gennaio 2014

Amore ed evoluzionismo

dall'ominide all'Homo sapiens



Amore ed evoluzionismo
L’uomo condivide con gli scimpanzé il 99% del patrimonio genetico ma quello che fa la differenza è il restante 1%, perché i geni non si comportano tutti in egual maniera e piccole differenze quantitative possono produrre sostanziali differenze qualitative.
La nostra storia è lunga milioni di anni. Comincia nel cuore dell’Africa, dove settanta milioni di anni fa sciamarono le prime Australopitecine (ominidi e predecessori di ominidi), nello spettro di tempo in cui si estinguevano i dinosauri, da cui prese l’abbrivio la moltiplicazione e distribuzione dei primati del Paleogene.
Detta in breve, dovettero passare un’altra sessantina di milioni di anni prima che apparissero in Africa le scimmie che avrebbero dato origine alla nostra specie: anno domini sei milioni prima della nascita di Cristo. Passò un altro milioncino di anni e le australopitecine si misero su due piedi a causa di mutate condizioni ambientali: fu il prototipo degli ominidi da cui rampollò, circa tre milioni di anni più tardi, il genere Homo: dapprima fu quello Erectus, che migrò verso oriente, quindi i rami si divisero e furono il Neandertal, il Cromagnon e, finalmente, il Sapiens, comparso in Africa 200 mila anni fa, da dove colonizzò l’intero pianeta.
La successiva storia della diffusione planetaria del Sapiens è nota, ciò che è meno nota è invece la definizione della nostra natura, che è insieme biologica e culturale, ovvero la confutazione vivente della teoria lamarckiana dei caratteri acquisiti: detta in parole povere, da un palestrato non nascerà per forza un palestrato; palestrati ( o musicisti) lo si diventa per questioni culturali. Similmente, la specie umana è l’unica ad avere trasformato l’impulso procreativo in una forma di rapporto sociale e culturale, infine sganciata dalla finalità della riproduzione; così siamo gli unici, fra gli animali, a trarre un vantaggio competitivo nella strategia della seduzione da cose come la musica, il senso etico e l’arte, ovvero da quell’uno percentuale di cui fanno piazza pulita i neoriduzionisti, fra cui possiamo annoverare l’antropologo Robin Dunbar, per il quale quell’uno per cento differenziale è poco più che spazzatura. Il suo saggio Amore e tradimento (Raffaello Cortina editore, pagg.300, euro 23) è infatti un esempio dell’applicazione del riduzionismo biologico al fenomeno dell’amore. Dunbar, da par suo, si diverte a demistificare l’amore romantico evidenziandone le motivazioni evoluzionistiche, con tutto il kit d’attrazione per assi morfologici e somiglianza di odori, sino alla teoria che lo scambio di saliva tra innamorati sia essenziale per capire se il partner sia appropriatamente corredato per l’accoppiamento.
Afror di ascelle e brute pulsioni biologiche, accortamente sublimate in fatti culturali, avrebbero innescato la trepida attesa dello sposo del Cantico dei Cantici o il bacio galeotto di Paolo e Francesca. E’ evidente che Dunbar, a differenza di Manzi, confonde ciò che è animale con quanto è specificatamente umano, sino alla teorizzazione che l’amore e il matrimonio altro non sono che strategie per massimizzare la riproduzione dei nostri geni: da questo punto di vista il campione dei Sapiens sarebbe Gengis Khan dai cui lombi discende lo 0,5 per cento degli odierni viventi, e poco importa  se la progenie sia il frutto di stupri di massa praticati da Gengis. Dopo tutto, ciò che importa a Dunbar, è quel novantanove per cento che ci accomuna agli scimpanzè: qualche milione di anni fa, a prestar credito a Dunbar, i nostri antenati si sarebbero innamorati allo stesso modo che accade a noi, nell’ambito di una strategia riproduttiva, al limite con qualche sospiro e dolce parola in meno. Il salto evolutivo che ha condotto i nostri antenati ad un tipo di attaccamento particolare ci ha distinto dagli altri mammiferi. La lunga gestazione ed i cambiamenti ormonali hanno reso più vantaggioso per i maschi proteggere la prole per trasmettere meglio i propri geni.

2001,Odissea nello spazio

geografia dell'amore

La monogamia compare 200.000 anni fa, perché la donna aveva bisogno di un maschio che proteggesse la prole. Il primo marito fu una guardia del corpo, di certo non un procacciatore di cibo perché in tal senso l’uomo è sopravvalutato: le calorie portate in tavola dall’uomo cacciatore erano molto inferiori a quelle procurate dalla donna raccoglitrice. E poi l’uomo non è nemmeno necessario per l’accudimento dei figli: la coppia mamma-nonna si è dimostrata decisamente più efficiente in questo compito, e forse è anche per questo che nella nostra specie la menopausa arriva prima che negli altri primati: per affrancare la donna dalla necessità di riprodursi e permetterle di accudire i nipoti. Il legame continuo con un  uomo è servito alla donna non solo per difendere se stessa ma anche, e soprattutto, per prevenire l’infanticidio da parte di altri uomini desiderosi di accoppiarsi. E’ così che ci siamo differenziati da animali come il leone che, quando ha una nuova compagna, le uccide i cuccioli, figli di altri leoni, per mandarla di nuovo in estro ed avere dei figli suoi.
L’amore romantico è un effetto collaterale di queste forti spinte evolutive. Perché si creasse un legame specifico – anche se temporaneo, proprio come oggi – tra un uomo ed una donna, abbiamo dovuto aspettare di avere un cervello abbastanza evoluto da poter cogliere ciò che distingue la nostra anima gemella dagli altri e per differenziare noi stessi dai nostri rivali. Inoltre dobbiamo entrare in sintonia con il partner capendo la sua prospettiva, ci tocca ricordare ciò che il partner ama  e ciò che non gradisce e sincronizzare il nostro comportamento con il suo: tutte sfide che fanno crescere il cervello. Facciamoci caso: in quasi tutti gli animali le specie monogame hanno il cervello più voluminoso di specie simili ma poligame.
L’evoluzione ci fa e poi ci accoppia ma soprattutto, ci spinge nella mischia. Biologicamente, non possiamo perdere tempo ad aspettare l’anima gemella così, quando vediamo una persona attraente, si riduce l’attività nelle aree cerebrali che ci rendono lucidi. E’ il “richiamo dell’evoluzione”: lo psicologo James Pennebaker ha trovato, ad esempio, che chi si trova in un locale tende a trovare più attraenti le stesse  persone man mano che ci si avvicina all’ora di chiusura. Come se qualcosa, ad un certo punto, ci dicesse: “Ma insomma, guardala meglio: è una bella ragazza, dopotutto. E muoviti!”. Quella persona diventa unica. Al solo vederla, anche in foto, il nostro cervello rilascerà dopamina, neurotrasmettitore che ha un effetto simile a quello della cocaina, perché facilita l’attivazione dei centri cerebrali del piacere ed inebrianti cascate di endorfine ad ogni contatto fisico con il partner. Inoltre, da innamorati, perdiamo interesse per i potenziali rivali del nostro amore. Lo psicologo americano Jon Maner ha trovato che tendiamo a distogliere lo sguardo dagli altri quanto più questi altri sono attraenti e quindi potrebbero rappresentare una minaccia per la stabilità del nostro rapporto di coppia. I maschi dei mammiferi hanno sempre avuto la possibilità di scegliere tra l’essere un genitore amorevole od un implacabile Casanova. Ed anche l’Homo Sapiens può scegliere tra questi due estremi. In uno studio del comportamento sessuale maschile dei canadesi, lo psicologo Daniel Perusse trovò che un terzo circa degli uomini era abitualmente promiscuo, anche se il 90 per cento degli uomini era sposato. Una spiegazione affascinante, ma discussa, riguarda l’ormone dell’attaccamento maschile, la vasopressina: ha effetto soprattutto sugli uomini accoppiati da poco. Sugli accoppiati da molti anni ha invece lo stesso effetto blando che ha sugli scapoli. Il maschio lazzarone tipico dei mammiferi, insomma, è lì pronto ad affiorare.



Innamorati di Peynet

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