giovedì 27 febbraio 2014

La pittura del secolo d’oro

di Elvira Brunetti

1-Caravaggio: Flagellazione di Cristo, Capodimonte Napoli
La pittura napoletana del Seicento è giustamente ricordata come il “Secolo d’oro” per i numerosi artisti che si espressero con punte di livello europeo, come il Caravaggio, che soggiornò due volte nel 1° decennio e con i suoi quadri: Le sette opere di misericordia, La Madonna del Rosario e la Flagellazione, rivoluzionò la scuola locale ancorata ad una parlata provinciale e a moduli tardo cinquecenteschi di matrice raffaellesca, manierista e fiamminga.
2-Battistello Caraccciolo: La fuga in Egitto, Capodimonte Napoli

Tra i suoi più importanti seguaci citiamo Giovan Battista Caracciolo, detto il Battistello, il primo ad assimilare il nuovo verbo caravaggesco inteso soprattutto nei suoi valori luministici. Egli utilizzò l’effetto luce per definire le forme con un vivace contrasto nel chiaroscuro dai toni bronzei ed un disegno netto ed accurato, come possiamo apprezzare nella Madonna nella fuga in Egitto, conservata a Capodimonte. Una interpretazione di grande efficacia con un’attenta cura del dettaglio naturalistico, vedi la Salomè degli Uffizi. Fu in seguito ad un suo viaggio a Roma influenzato anche dalla lezione carraccesca, ben evidente nelle sue magniloquenti opere successive al 1620 come gli affreschi nella chiesa del Gesù Nuovo ed i dipinti per la certosa di San Martino.

3-Ribera: Martirio di San Filippo, El Prado Madrid

Jusepe Ribera, spagnolo naturalizzato, portò il luminismo caravaggesco a forme esasperate con un nudo realismo, che dava risalto ai particolari più realistici, spesso macabri ed un compiacimento nell’indulgere nella descrizione del disfacimento fisico con corpi straziati dal martirio o vecchi macilenti, con pennellate dense, cariche di colore ed un sapiente dosaggio di effetti luministici, come possiamo apprezzare nel Martirio di San Bartolomeo del 1630, conservato al Prado. Nel 4° decennio, per influsso del classicismo bolognese, il suo stile subì una variazione nella tavolozza con colori chiari, un modellato più morbido e composizioni pacate, che volgono al patetico, come nel San Sebastiano di Capodimonte. Altre opere di grande livello da ricordare sono L’apollo e Marsia ed i Profeti e la Comunione degli apostoli nella certosa di San Martino.
Un altro pittore che esercitò una grande influenza nell’ambiente napoletano, con una vera e propria scuola fu Massimo Stanzione, il cui percorso stilistico parte da una formazione tardo manierista, evidente nella Presentazione al Tempio, del 1618, in una chiesa di Giugliano, per toccare un momento caravaggesco, nelle Storie di Cristo morto della Galleria Corsini a Roma, per sfociare poi, con il tangibile influsso del Reni verso forme più delicate e monumentali, come si evince nella Madonna del Rosario della chiesa di San Lorenzo o nei tardi dipinti per la certosa di San Martino.

4-Bernardo Cavallino: Santa Cecilia, Capodimonte Napoli

Uno spazio a sé occupa Bernardo Cavallino, autore di dipinti, prevalentemente di piccolo formato a soggetto biblico, mitologico o cavalleresco, interpretati con sottile lirismo e contorni di racconto fiabesco. La ricostruzione del suo percorso artistico, che conosce anche un fugace momento caravaggesco, si basa su un solo dipinto, firmato e datato 1645, un Santa Cecilia, caratterizzata da uno stile originale e su accordi di colore delicati e privi di forti contrasti. Altre opere sue famose sono la Cantatrice, a Capodimonte, realizzati con un disegno elegante ed una grazia po’ languida, già di sapore settecentesco.

5-Artemisia Gentileschi: Giuditta ed Oloferne, Capodimonte Napoli
Lunghi soggiorni napoletani hanno anche pittori bolognesi: Domenichino, Reni e Lanfranco, responsabili di un tangibile influsso sull’ambiente figurativo locale in senso classicista.
Un altro artista trasferitosi all’ombra del Vesuvio come Ribera è Artemisia Gentileschi, la quale muta la sua tavolozza virando verso colori scuri. Rimarrà a Napoli per oltre 20 anni, salvo una breve interruzione, nel 1638, per recarsi in Inghilterra ad assistere il padre Orazio, anche lui grande pittore, gravemente malato.
I suoi soggetti drammatici e violenti, come le tante Cleopatre o le varie versioni di Giuditta e Oloferne, sono realizzate con un forte effetto di luce. Maestra del dettaglio raffinato, ebbe uno stretto rapporto alla pari di dare ed avere con i colleghi napoletani.

6-Mattia Preti: Convito di Baldassarre, Capodimonte Napoli

Il primo grande interprete della pittura barocca, che viene ad interrompere il corso del naturalismo napoletano fu Mattia Preti, detto il Cavaliere Calabrese, la cui permanenza a Napoli, di circa 8 anni, fu fondamentale sullo sviluppo delle arti figurativa locali. Egli seppe trasfondere nel Barocco i principi formali del caravaggismo. Egli si avvalse di una luce radente che utilizzava in funzione dinamica nelle sue composizioni affollate di personaggi in continuo movimento su fondali di cielo tempestoso o di scenografie architettoniche, in un ricchissimo repertorio di variazioni luministiche.
Egli rendeva i suoi personaggi con colori lividi, cianotici, ai limiti dell’anossia, come possiamo evincere nello spettacolare Convito di Baldassarre del museo di Capodimonte. Nel 1656 realizzò una serie di giganteschi ex voto sulle porte della città, tutti perduti ad eccezione di quello di porta San Gennaro, purtroppo coperto da una coltre di sudiciume: Per fortuna si sono salvati 2 bozzetti, conservati nella sala Preti a Capodimonte, uno dei quali raffigura la Peste.
Nel 1661, non riuscendo psicologicamente a reggere il confronto con l’astro Giordano, si ritirò a Malta, dove, oltre alla spettacolare Gloria dell’ordine, realizzata nella Co-Cattedrale di La Valletta, continuò per 40 anni a produrre, inviando tele in tutta Europa, sempre più aiutato da una valida bottega.
Antagonista del Preti fu Luca Giordano, il più fecondo pittore del Seicento napoletano. La sua prima fase risente dell’influsso del Ribera, le cui opere copiò, imitò ed a volte falsificò. Quindi numerosi viaggi di studio e di lavoro, che lo portano a contatto delle opere di Pietro da Cortona e dei Carracci. Ritorna a Napoli nel 1658 per una serie di importanti commissioni chiesastiche, da San Gregorio Armeno a Santa Brigida.
Un artista poliedrico e velocissimo, denominato per questa sua qualità: “Luca fa presto”. Ebbe la straordinaria capacità nell’assimilare ogni influsso di altri artisti, fonderlo e rielaborarlo in una cifra personale, caratterizzata da un cromatismo luminoso e da una pennellata fluida e sciolta. Ed a proposito di pennello si diceva maliziosamente che ne avesse uno d’oro, uno d’argento e uno di rame a secondo di quanto venisse pagato. Fu abile in egual misura nel cavalletto e nelle grandi imprese decorative come quelle eseguite nella galleria di Palazzo Medici-Riccardi di Firenze o negli appartamenti reali spagnoli, durante il decennio che trascorse nella penisola iberica, chiamato dal re Carlo II per decorare i vasti ambienti dell’Escorial e del Palazzo Reale di Madrid.
La sua produzione fu debordante e tra le tante opere ricordiamo il Gesù tra i dottori, conservato nella Galleria d’arte antica di Roma, espressione della sua maniera dorata.

7-Luca Giordano: L'apoteosi dei Medici, Palazzo Medici-Riccardi Firenze

8-Salvator Rosa: Apparizione di Astrea, Kunsthistorisches Museum Vienna
Salvator Rosa fu una singolare figura di pittore, poeta satirico, attore ed organizzatore di spettacoli. Si dedicò alla pittura di paesaggio e di battaglia, memore del suo maestro Aniello Falcone. Si stabilì prima a Roma e poi a Firenze, dove iniziò a dipingere paesaggi di gusto classicista, abbandonando poi il genere per una visione della natura più spettacolare nelle sue manifestazioni geologiche ed atmosferiche, immersa in una luce irreale, come nella sua famosa “Marina”, conservata al Pitti a Firenze. Altri paesaggi rappresentano dirupi, alberi contorti, cieli tempestosi, espressioni di una sensibilità inquieta e fantasiosa che anticipa il Romanticismo. In questo spirito rientrano anche i quadri di “Stregonerie” celebre Le tentazioni di S. Antonio a Palazzo Pitti eseguito poco prima del rientro a Roma nel 1649 e l’inizio del periodo di riflessione filosofica, con dipinti di soggetto biblico con intenti moraleggianti. Fino al termine si dedicò alla pittura di paesaggio ed all’incisione dedicando la sua attenzione a boschi e coste della Campania, ripresi da numerosi seguaci anche nei secoli successivi.

9-Solimena: Trionfo della fede sull'eresia, San Domenico Maggiore Napoli

L’ultimo grande gigante fu Francesco Solimena, detto l’abate Ciccio, che visse 90 anni, protrudendo nel Settecento con una schiera folta di allievi di prima, seconda e terza battuta, interessando più generazioni. Non si mosse mai da Napoli e fu lo stesso ammirato anche all’estero, dove arrivavano i suoi dipinti. Più del Giordano egli, dopo aver appreso l’arte nella bottega paterna, guardò agli esempi del Lanfranco, da cui desunse il modellato saldo delle figure e di Mattia Preti, al quale si ispirò nella ricerca di contrastanti effetti luministici, come nella Rebecca al Pozzo, nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Con il Giordano si confrontò nelle grandi imprese decorative, come nella sagrestia di San Paolo Maggiore, rilevando tutto il suo talento di organizzatore di grandi scenografie. Fu anche architetto e nel Settecento mutò il suo stile in senso classicista, consolidato in questa direzione, come si apprezza nella Cacciata di Eliodoro del Gesù Nuovo e negli affreschi della cappella di San Filippo Neri ai Gerolomini.
La natura morta ebbe grande sviluppo, acquisendo una valenza inferiore solo alla coeva fiamminga. In quella napoletana vi è una sorta di trasposizione del dato reale in chiave barocca, con un graduale passaggio dall’ammirazione per la fedeltà oggettiva della rappresentazione allo stupore e la meraviglia per la fantasia dell’invenzione compositiva. I migliori specialisti furono talmente bravi da renderci l’odore dei fiori ed il sapore dei dolciumi raffigurati.


10-Luca Forte: Albero di pesche con tulipani e pappagalli, Collezione privata Napoli

11-Giuseppe Recco: Natura morta di pesci con gatto, Collezione privata Napoli

Tra i primi generisti ricordiamo Luca Forte, ancora legato alle esperienze del caravaggismo romano, splendido il suo Vaso con tulipani di una celebre raccolta napoletana e Paolo Porpora, che dipinse ortaggi, fiori e frutta, per passare poi, trasferitosi a Roma, anche ad insetti e rettili dai colori vivaci. Di gusto pienamente barocco sono le opere di Giovan Battista Ruoppolo e del figlio Giuseppe, mentre i pesci furono la specialità della famiglia Recco, che ebbe in Giuseppe il principale esponente, in grado di fissare nei suoi trionfi marini il delicato momento di trapasso tra la vita e la morte. Lo scorfano fu il suo pesce preferito, seguito dall’anguilla. Vedi ad esempio lo splendido scatto felino nel dipinto di collezione napoletana.
Non possiamo chiudere la nostra carrellata senza accennare ad alcuni “Minori”, come Andrea vaccaro, artefice di splendide fanciulle in estasi, dallo sguardo proteso al cielo ed il seno procace generosamente offerto all’osservatore. Domenico Gargiulo, più noto come Micco Spataro, illustratore di cronaca cittadina, come nella famosa Peste del museo di San Martino o cruenti supplizi come nel Martirio di San Gennaro in collezione privata napoletana.
Concludiamo con Aniello Falcone, conosciuto come l’Oracolo delle battaglie, leader indiscusso nel suo genere con dipinti anche al Louvre, che “firmava” criptaticamente le sue tele con un patognonimico polverone sullo sfondo ed un caduto nel combattimento in prima fila.

13-Domenico Gargiulo (detto Micco Spataro): Decapitazione di San Gennaro, Collezione privata Napoli

14-Aniello Falcone: Scontro di fanti e cavalieri, Pinacoteca Tosio-Martinengo Brescia

mercoledì 26 febbraio 2014

Manuale per una vita da ristretta



Presso la biblioteca Papillon di Rebibbia, presenti i vertici dell’Istituto, vi è stato un piacevole scambio d’idee tra i detenuti del Gruppo Universitario e le autrici, anch’esse recluse di un istruttivo libro “Ricci, limoni e caffettiere. Piccoli stratagemmi di una vita ristretta”. Il volume regolarmente distribuito in libreria, è una piccola summa per sostenere al meglio la vita in una cella.
Vi è un capitolo dedicato alla bellezza, uno alla salute, uno al gioco e non potevano mancare una serie di ricette, per preparare con pochi ingredienti gustosi manicaretti. Infine sono consigliati vari espedienti per sopperire ad alcune mancanze nella dotazione penitenziaria, da come depilarsi o stirare i capelli, a come approntare un prosaico quanto indispensabile bidet di fortuna, ottenuto tagliando a metà una bottiglia di coca cola e versandovi acqua riscaldata, stando seduti sul WC.
Il carcere tende a comprimere fino all’annullamento la personalità delle ristrette attraverso la privazione di poche ma indispensabili cose.
Si viene a creare così un universo di piccoli e grandi rimedi, grazie alla natura fantasiosa delle donne, per salvaguardare la salute e la forma fisica, ma anche la bellezza, che va preservata per non turbare un equilibrio interiore, indispensabile per sopravvivere. E poi le ricette, perché la vita passa anche attraverso la cucina e come rendere più gradevole una cella, attraverso il riciclo di ogni materiale.
Tutto questo è esposto con genuina semplicità in questo manuale di umanità femminile, con scritti, poesie e immagini offerti al lettore esterno, ignaro delle problematiche del Pianeta carcere, come chiave di lettura, non priva d’ironia e ottimismo, della penosa vita delle detenute e di alcuni semplici rimedi per sopravvivervi.
Un libro che dovrebbe essere letto e meditato e dal quale ho prelevato il rimedio consigliato da una Rom, Gina, contro “Il Malocchio, non è vero ma ci credo”, che sarà presente nel 3° tomo del mio “Napoletanità: arte, miti e riti a Napoli”

Il dramma delle due guerre

1943 arrivo delle truppe alleate a Monreale


Se gli orrori della Seconda guerra mondiale hanno avuto straordinari narratori italiani e spesso Napoli, con Malaparte e Lewis, è stata al centro di questi scritti, a detta della critica il primo conflitto bellico del ’15-’18 non ha mai avuto una degna declinazione narrativa. Forse però bisogna ricredersi, e anche in questo caso Napoli gioca il suo ruolo. Basta leggere, in una preziosa edizione appena arrivata in libreria, La paura e altri racconti della Grande guerra di Federico De Roberto, noto finora soprattutto per il suo romanzo I vicerè – finora perché da oggi in poi non si potrà non tenere conto di questi suoi testi quando si parlerà degli orrori della Prima guerra mondiale, e in generale di tutte le guerre.
De Roberto nacque a Napoli nel 1861, quando da pochissimo si era compiuta l’Unità, e nella sua infanzia ascoltò gli insegnamenti di un padre che di mestiere faceva proprio il soldato, ufficiale di stato maggiore agli ordini di Francesco II. Dunque ebbe modo di crescere nutrendosi delle aspirazioni dei popoli a sentirsi nuovi protagonisti di un nuovo Stato, ma anche ascoltando i racconti militari di un padre che proprio delle esperienze di guerre napoletane aveva fatto il suo mondo da tramandare al figlio. Il sapore di questa infanzia napoletana con sottofondo di fanfare militari si ravvisa spesso in questa raccolta, il cui tema principale fu affrontato dall’autore per la prima volta in diverse pubblicazioni stampate nel 1919 dall’editore napoletano Treves. Non a caso, anche qui, ci troviamo in presenza di un “libraio napoletano”, che durante la guerra riesce a rifornire di libri il Capitano Tancredi; si ravvisa spesso anche la figura di un moderno Pulcinella dietro il comportamento di alcuni soldati raccontati tra il serio e il faceto; capita che gli spaghetti siano una trappola per prigionieri. Di questi racconti, il più amaro è Il rifugio, storia di un disertore e della sua fucilazione raccontata da un ufficiale ospitato per caso proprio dai genitori del soldato fucilato; il più toccante è La paura, dove l’orrore della guerra contagia anche la natura, a sua volta percepita come un elemento mostruoso. Lo stile è secco e diretto, ma si avverte un sottofondo tragicomico, a tratti grottesco, che ha il merito di anticipare l’unica rappresentazione artisticamente valida della Grande guerra, l’omonimo film di Monicelli.
De Roberto racconta la quotidianità squallida e deprimente dei commilitoni e il loro sacrificio, mandati al macello da condottieri ottusi e impreparati. Questi chiamano uno ad uno i loro soldati e ordinano di lanciarsi all’attacco mandandoli incontro a morte certa. Prima di obbedire, ognuno si esprime nel proprio dialetto, ancora incapaci di comprendersi a vicenda. In questa raccolta di scritti siamo in presenza di un grande affresco sulla bestialità della guerra: dove “la natura aspra e crudele, impervia e tenebrosa del paesaggio- fa sfondo a inutili eroismi e patetiche diserzioni, e l’uso virtuosistico dei diversi dialetti, oltre a confermare l’attitudine plurilinguistica della scrittura derobertiana, testimonia di una unità nazionale irrealizzata”.
E se la “Grande guerra” fu vissuta da lontano, salvo qualche sporadica apparizione di minacciosi dirigibili, attraverso il pianto disperato per i tanti napoletani caduti al fronte, la seconda guerra mondiale vide la popolazione protagonista e la città martellata da oltre 100 bombardamenti.
Cannoni puntati sulle case alle falde del Vesuvio. E dietro il vulcano che erutta fumo, in gara inconsapevole con i carri armati della Quinta Armata statunitense in marcia tra pietre di lava e macerie sul colle dei Camaldoli. E’ l’avanzata degli Alleati, una guerra di liberazione che si allungherà in calvario per i liberati. E’ l’immagine, inedita e muta, scelta come copertina e contraltare delle Voci dalla guerra, raccolte a Torre del Greco. Un libro, cento testimonianze, il racconto corale di una città negli anni 1940-1945.
“Ma sai che per i nostri ragazzi Mussolini è lontano come Giulio Cesare?”. E’ iniziata così. Chiacchiere di quattro professoresse in pensione: Lina De Luca, Lucia Forlano, Anna Maria Galdi, Anna Maria Incaldi. Confidenze. Ricordi. Agendine paterne frugate nei cassetti. Documenti rispolverati all’archivio storico del Comune. E la scoperta di un sentimento condiviso: il rammarico per la memoria perduta nei figli e negli alunni, inconsapevoli come quel Vesuvio con lo sbuffo. Così la deformazione professionale diventa avventura: riproviamoci noi, a insegnar loro cos’è successo nel luogo in cui vivono. Settant’anni fa. “Primo ottobre 1943: percorrendo via Nazionale, gli americani entrano in Torre del Greco”. E’ l’appunto olografo sull’agenda di Domenico Forlano. E’ uno spartiacque. Fasullo. Il prima e il dopo accomunati dai lutti e le privazioni della guerra. Perché, come spiega Flavio Russo nell’efficace ricostruzione dell’”operazione Avanlanche”, che fa da prefazione al volume, tra lo sbarco degli Alleati a Salerno e l’agguerrita resistenza della X Armata germanica, “per le popolazioni dei tanti abitati che si vennero a trovare sulla direttrice dell’avanzata fu l’inizio del martirio, alla mercè del vecchio alleato disperato quanto feroce e senza alcun aiuto da parte del nuovo, diffidente quanto guardingo”.
La gente di Torre lotta e muore. Nelle Vocidallaguerra, le storie di chi ce l’ha fatta e chi no. Ma non è una spoon river in salsa vesuviana, questo libro pubblicato dalle Edizioni Scientifiche e Artistiche per volontà dell’Associazione culturale Arcobaleno con il contributo del Comune di Torre del Greco e della Banca di Credito Popolare. E’, semplicemente, “la nostra città che si racconta”, secondo l’orgoglio pudico delle autrici.
“Chi ha perso ‘na creatura?”. Teresa è nata nell’estate del ’43. In un ricovero. Lo stesso in cui la madre corre, con lei neonata infagottata in braccio. E’ un attimo, la “mappata” si apre. Teresa non c’è più. La madre lo scopre nel rifugio, Con orrore. E subito con sollievo, quando ascolta il tam tam delle voci che arrivano dalla strada. Qualcuno ha salvato Teresa. E tutta Torre fa coro per restituire la bambina alla madre. “Chi ha perso ‘na creatura?”. Perse per sempre, invece, le piccole orfane di Santa Geltrude sepolte sotto le bombe del 13 settembre. E qui il racconto, tratto dall’archivio tornese, si fa raccapricciante. I cadaveri dilaniati e smembrati vengono raccolti alla rinfusa dai vigili. Non c’è tempo per la pietà. Neppure per la precisione. Nove mesi dopo, una lettera della madre superiora lamenta che dalle macerie “esala un lezzo di carne in putrefazione”. I vigili tornano, scavano, dopo un tempo lungo quanto una gravidanza si potrà dare sepoltura anche alle orfanelle uccise due volte dalle bombe e dall’oblio.
E’ un mondo spietato quello narrato nelle Voci dalla guerra. Ma anche no. C’è spazio per la solidarietà. La gentilezza. La poesia, pure. Ad esempio quella dei versi con cui Salvatore Argenziano rievoca “un momento di misticismo”. Accade giù al porto, “abbasciammare”, sotto gli occhi stupiti dei torresi. Indiani con i turbanti scendono dalla jeep, in corteo portano sugli scogli la salma di un compagno avvolta in un sudario. Le danno fuoco. Nenie sommesse intorno alle fiamme. “Sotto la ferrovia la folla tace, come in un anfiteatro, in attesa di un insolito spettacolo”. E’ un funerale d’altre latitudini. I torresi capiscono. E partecipano. Il rito è un vassoio che gira con del cibo. “In tanti spettatori dagli scogli si avvicinano per partecipare alla inattesa esotica mensa”.
Torre del Greco non dimentica le sue “voci dalla guerra”. Anzi, le moltiplica. E’ l’effetto cascata dei ricordi. E’ la contagiosa e salvifica voglia di testimoniare, perché, come scrivono le autrici prendendo a prestito Kabil Gibran, “il ricordo è un modo d’incontrarsi, a Yotte. Ogni volta che il libro viene presentato, in un circolo, una sala parrocchiale o una scuola – saltano fuori altre storie, altri ricordi, altri documenti, altre persone che sanno. E che vogliono raccogliere il monito di De Luca, Forlano, Galdi e Incaldi: pronunciare ai ragazzi d’oggi “parole che ritornano a parlare”.
La fotografia di Robert Capa coincide con l’immaginario di guerra del Novecento. Eppure, rispetto al già noto e universalmente riconosciuto, l’archivio Capa di New York raccoglie e conserva una serie di immagini circolate molto meno, almeno poco viste, che possono raccontare diversamente o moltiplicare i punti di vista. Alcune di queste riguardano l’Italia del 1943-44, appartengono all’Italia Meridionale, a Napoli e Palermo, raccontano di un territorio per lo più contadino e di una popolazione sofferente, dell’incontro con le truppe alleate, di una vita quotidiana durissima e di città massacrate dalle bombe. L’occhio di Capa accompagna le truppe alleate, da Monreale a Troina, fino a Cassino, segue pedinando i combattimenti sul Valico di Chiunzi, fotografa gli appostamenti degli alleati e i prigionieri tedeschi, racconta l’incontro con un’Italia essenzialmente povera e contadina e la trasformazione degli spazi dettate dalle esigenze della guerra.
C’è una sequenza bella che potrebbe evocare le staged photograpy contemporanea: mostra una chiesa di Maiori trasformata in ospedale per i feriti, una sagrestia che assume le sembianze di una sala operatoria, dove con luci, lettini e strutture di emergenza l’intervento è ancora in corso. Insieme c’è lo scontro e il possibile incontro, i soldati americani accolti festosamente per le strade di Monreale e la fuga dai luoghi dove impazza il combattimento nelle campagne che circondano Montecassino, i cingolati alleati che si incrociano con gli asinelli dei contadini meridionali. Naturalmente Napoli, con una sua parte importante, nel quotidiano di ristrettezze e povertà. Tradotto essenzialmente da donne, anziani e bambini in fila per l’acqua con le bocce di vetro in spalla in una foto che ricorda gli scatti della Farm Security Administration durante la grande depressione americana. O ancora con la posta centrale ridotta ad una montagna immensa di macerie. Distrutta da una bomba ad orologeria lasciata dai tedeschi ad un esercito di americani a spostare pietra su pietra. Al fianco di una scena tragica e famosa anche grazie alle fotografie di Capa e pubblicata da “Life” l’8 settembre del ’43, con la disperazione e la pietà delle madri al funerale dei ragazzi vittime dei combattimenti delle Quattro Giornate di Napoli. Nel suo racconto diventerà questa l’immagine che accompagna il suo arrivo in Europa: le venti bare troppo piccole, per contenere anche i piedi dei bambini.
A settant’anni di distanza dallo sbarco degli alleati in Italia, le fotografie di Andre Friedmann, ebreo ungherese, consegnato alla storia con il nome di Robert Capa, ricostruiscono una guerra fatta di gente comune, di soldati e civili, vittime di una stessa strage. L’obiettivo di Capa tratta tutti con la stessa solidarietà, possa essere la guerra in Indovina o la guerra civile spagnola, e si vede per esempio in una sequenza dedicata ad Agrigento, dove sulle stesse macerie dei palazzi passano e si arrampicano i bambini, i soldati stranieri, e le donne anziane vestite rigorosamente di nero.
Monte di Dio si erge alta sul cunicolo che stiamo per scendere: la scala del Settecento ci porterà giù per oltre venti metri. Il palazzo soprastante e i palazzi vicini, forse una gran parte del quartiere, L’ha usata per cercare scampo durante gli interminabili quattro anni di bombardamenti subiti da Napoli nell’ultima guerra. La sala in cui entriamo era adibita a studio veterinario – gabbiette per animali, grossi lavatoi e, sulle mattonelle bianche, le foto degli anni di guerra, i bombardamenti, i rifugiati – quindi ci ha abitato un falegname – casa e puteca. Scendiamo nelle strette spire delle scale e subito la domanda affiora: come facevano di corsa, spaventati, i vecchi e i bambini oltre agli adulti, a non cadere lungo queste scale? Giunti nel primo, arioso spazio sotterraneo: i napoletani arrivavano giù rotti, gambe e braccia spezzate, come minimo feriti. E i grandi antri dell’acquedotto della Bolla, le cave antiche dei cavamonti, i passaggi dei pozzari – nella tradizione popolare diventati monacielli a causa delle improvvise comparse notturne dagli anfratti del sottosuolo – si trasformavano subito in ospedale da campo. Ad attrezzare gli spazi l’UNPA, Unione Nazionale Protezione Antiarea, che nelle antiche cisterne e nelle cave realizzò allacciamenti di luce, allargò i passaggi, costruì i bagni: latrine col buco o latrine con i water, più chic, per il quartiere Chiaia, dove il Tunnel spunta, in via Domenico Morelli. E poi gli spazi per le partorienti, la calce per coprire il tufo che dopo qualche ora manda esalazioni: i rifugiati restavano spesso giorni e settimane sottoterra, specie i più anziani che a salire e scendere ad ogni allarme non ce la facevano proprio. Racconta la nostra dolce ed entusiasta guida che qualche testimone sopravvissuto è venuto in visita al Tunnel: erano bambini fra il ’40  e il ’44. Si divertivano, beati loro, a vivere l’avventura sotterranea, la fuga dalle abitudini, il ritrovarsi tutti insieme con gli altri bambini del quartiere sottratti in parte allo stretto controllo dei genitori, alla scuola, alle case.
Qualcuno ha segnato il suo nome e ora controlla dov’è e lo ritrova nel punto esatto in cui lo ricordava, inciso nella parete: è più in basso, commenta. Tutta la nostra infanzia si è svolta più in basso e non finiamo mai di stupirci d’essere diventati alti, di averlo potuto fare, nel caso di chi è sopravvissuto. “Noi vivi”, si legge a grandi lettere sul fondo di una delle caverne, fra i resti pompeiani dei tetti di guerra, delle lettighe per gli per gli ammalati, persino dei giocattoli – minuscole carrozzine per bambole – rimasti a testimoniare il passato. Questa scritta potrebbe essere la nostra lapide di oggi, una lapide senza marmi, senza bellurie, tutta disperazione, come un urlo di spavento o di sollievo, di speranza. Ma la città è piena di lapidi in ogni punto in cui sono morti cittadini inermi sotto i bombardamenti inglesi, americani e tedeschi. Napoli è la città d’Italia più danneggiata dai quattro sganci di bombe – sempre primati sgradevoli – in quanto porto strategico, ponte nel Mediterraneo, base navale militare.
Si muore in pieno giorno nei tram, ancora seduti e diretti verso una meta che mai si raggiungerà, a scuola e nelle strade, cercando la via per una delle mille scale sotterranee che punteggiano la città scavata dalle acque e dagli uomini. Si muore sotto le ventiquattromila bombe lanciate in centotrenta incursioni, per un totale mai certo di ventimila vittime con conseguente distruzione del quaranta per cento delle case della città. Ancora fino al decennio scorso si sono restaurate, abbattute e riaperte strade – vedi via Marina – e i quattrocento ricoveri napoletani, oggi in parte visibili nei percorsi turistici e archeologici della città sommersa, conservano ogni segno, ogni ombra di morte.
La lapide più famosa, simbolica, è quella posta dentro Santa Chiara, bombardata il 4 agosto 1943, scambiata per obiettivo militare a causa del grande tetto o forse bombardata comunque, nonostante i segnali messi per indicare chiese, palazzi storici, l’Archivio di Stato.
“Dopo secoli di glorie questo tempio dalla guerra distrutto risorge ara di pace nel cuore di Napoli antica ed accoglie nomi e memorie di quanti versarono il sangue in auspicio di amore tra i popoli, il 4 agosto 1953”. La chiesa che i secoli avevano reso barocca e stuccata tornava gotica, le are dei re danneggiate, gli affreschi irrimediabilmente persi. Lo stesso giorno, poiché il bombardamento coprì l’intera città, in vico Fiorentine a Chiaia: “Unione cattolica operaia. M.SS. dell’Arco ai caduti del 4 agosto 1943” Una bella lapide con il bombardamento aereo ritratto nel marmo, che fa’ il paio con la lapide in via Poggioreale, 52: “Ai caduti civili della zona industriale che dal profondo abisso delle iniquità umane irrorando il cammino di sangue innocente assursero alla gloria dei cieli”. Anche qui, una lapide con aerei in volo e macerie. E in via Reggia di Portici, 9: “Ai caduti Rione S.Erasmo militari e civili della guerra 1940-1943 l’Ass.S.Gennaro dei sinistrati del III° Granili memore del loro sublime sacrificio – 19 settembre 1953”. E ancora in via San Biagio dei Librai: “Ai caduti della parrocchia di S. Gennaro all’Olmo nella guerra 1940-’44 sul campo di battaglia, nelle incursioni (seguono molti nomi) il parroco abate e il gruppo uomini cattolici Giuseppe Moscati posero”. L’anno è il 1948. L’anno prima, nel ’47, è posta la lapide di via Giuseppe Marotta: “La Sezione Porto con infinita pietà ed affetto ricorda i suoi caduti civili vittime innocenti delle atroci incursioni aeree dell’infausto periodo 1940-1944”. E chissà quante altre ora me ne sfuggono, a tracciare sprofondamenti, crolli di mura nei rifugi seppelliti dalle macerie come accadde a via Salvator Rosa, l’11 gennaio 1943, dove il ricovero crollò e fu ricoperto dalla calce nell’impossibilita’ di recuperare i corpi.
Fa caldo sottoterra. Lungo i percorsi della Bolla inseguiamo il tracciato del livello delle acque, incontriamo le ossa di un cagnetto morto lungo un corridoio, alziamo la testa a verificare i pozzari riuscivano a passare in corridoi larghi appena una trentina di centimetri e ad arrampicarsi mani e piedi per altezze vertiginose, sfruttando i buchi a scala dei cavamonti. Ma il freddo della paura e il tepore della solidarietà che pure i napoletani seppero sviluppare nei rifugi – nessuno rubava le borsette con gli Oro Saiwa, nessuno toglieva il cibo all’altro, nessuno sottraeva un bene al proprio vicino – non ci lascia . A giorni qui sotto si aprirà un percorso “avventura” e gli speologi porteranno i visitatori a scoprire profondità acquatiche del Tunnel lungo l’acquedotto del Carmignano.
Una grande occasione per rivisitare i giorni del dolore e della paura.
I morti ed i vivi della città di sotto ci aspettano.

La grande guerra film Monicelli

contadini a Troina dopo la liberazione

Fila per l'acqua

il sottosuolo

martedì 25 febbraio 2014

Hooverphonic






Video del gruppo belga  Hooverphonic. Una della location del video è Villa Elvira ad Ischia.

Villa Elvira 

Villa Elvira

Villa Elvira

Villa Elvira


IL MAGO DELLA CIBERNETICA

Eduardo Caianiello


Eduardo Caianiello, nato a Napoli nel 1921, scomparso nel 1993, è stato uno dei più grandi fisici italiani.
Laureato in Fisica a Napoli nel 1944, conseguì il PhD all’università di Rochester (New York) nel 1950.
Dopo aver insegnato a Torino, Roma e Princeton, dal 1956 è stato professore di Fisica Teorica prima all’Università di Napoli e poi, dal 1973, in quella di Salerno.
I suoi principali contributi hanno  riguardato la Teoria Quantistica  dei Campi e la cibernetica. In particolare, è stato un pioniere nello studio delle Reti Neurali. 
Ha affiancato alla ricerca scientifica un’intensa attività organizzativa e direttiva. Ha fondato e diretto l’Istituto di Fisica Teorica all’Università di Napoli, il Laboratorio di Cibernetica del CNR ad Arco Felice (Napoli), la Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali dell’Università di Salerno, l’Istituto Internazionale per gli Alti Studi Scientifici (IIASS)  a Vietri sul Mare (Salerno) e la Scuola di Perfezionamento in Scienze cibernetiche e fisiche.
I suoi principali contributi riguardano la teoria delle reti neurali adattive. Fondamentale contributo in tal senso è l’Equazione di Caianiello (Caianiello’sequation) con cui si formalizza la teoria dell’apprendimento hebbiano.
Molti sono gli allievi e continuatori del pensiero scientifico di Caianiello. Tra questi: Francesco Guerra, Francesco Lauria, Salvatore Rampone, Luigi Maria Ricciardi, Giuseppe Trautteur.
L’Istituto di Cibernetica nasce nel 1968 da un’idea, particolarmente ambiziosa per quegli anni, del suo fondatore, Eduardo Caianiello, di raccogliere intorno ad un obiettivo comune, la Cibernetica, competenze provenienti da discipline diverse. Durante le direzioni che sono seguite, le attività dell’Istituto si sono orientate, seguendo un trend mondiale, verso una sempre maggiore specializzazione tematica in specifici settori disciplinari che si sono nel frattempo affermati e consolidati, mantenendo allo stesso tempo una spiccata capacità d’interazione interdisciplinare a livello metodologico. Negli ultimi anni questa “capacità di dialogo”, oltre a facilitare l’elaborazione di collaborazioni multi ed interdisciplinari con varie istituzioni scientifiche, ha condotto ad elaborare diversi progetti interdisciplinari anche all’interno dello stesso Istituto.
Ebbi occasione negli anni Ottanta, durante le feste natalizie, di trascorrere un’intera giornata con il personaggio, ospite della sua splendida casa nel castello sul mare a Rivafiorita. Mi ci recai grazie a Giosi Campanino, un estroso personaggio del quale purtroppo da tempo ho perso le tracce.
Durante l’incontro ebbi modo di raccogliere una sorta di confessione da parte del professore, amareggiato per le difficoltà che s’incontrano a Napoli per organizzare un progetto con criteri d’efficienza e competitività.
“Se decidessi d’andarmene da Napoli, me ne andrei a Tokio”. L’Estremo Oriente l’affascinava. Nel suo salotto pitture e stampe cinesi alle pareti ed in vetrina e negli scaffali, avori indiani, smalti indonesiani, statuette giapponesi.
Egli citava disinvoltamente Confucio e proverbi nipponici. Spiegava agli ospiti: “Il Giappone è passato direttamente dal feudalesimo all’elettricità, senza attraversare la civiltà del vapore. Una rivoluzione tecnologica che potrebbe attuarsi anche nel meridione, se si decidesse di entrare in una società cibernetizzata. Forse potrebbero farlo i nostri giovani, che sono molto dotati, ma costretti a muoversi tra strutture carenti”.
Sogni che purtroppo non si sono realizzati ed inconsciamente Caianiello lo sapeva e cercava di consolarsi nel tempo libero leggendo libri di storia, una passione coltivata da quando era ragazzo e componeva in latino  e scriveva poesie. Credeva che avrebbe scelto una facoltà umanistica, invece abbracciò la via della matematica e della fisica. Riteneva però che scienza ed umanesimo s’intrecciassero nelle tre più importanti creazioni dell’intelligenza umana: alfabeto, sistema numerico decimale, teorema di Pitagora.
Sono state fondamentali per il bene ed il male del genere umano: hanno favorito lo sviluppo della civiltà ma anche i calcoli balistici.
La quarta grande creazione è la cibernetica.
Fu il padre della cibernetica, l’austriaco NorbertWiener, durante una passeggiata tra i vicoli di Spaccanapoli, a pensare ad una valorizzazione turistica della zona greca di Napoli”.
Concluse con un invito alla città ed ai giovani: “E’ inutile litigare su come ripartire la povertà quando, guardandoci in giro, possiamo adoperarci per creare la ricchezza”.

LO SCULTORE SIMBOLO DEL NOVECENTO

Augusto Pereznasce

Augusto Pereznasce a Messina nel 1929 ma fin da bambino si trasferisce a Napoli, dove frequenta per qualche anno la Facoltà di Architettura. Ben presto, però, la scultura assume un ruolo centrale nella sua vita ed egli vi si dedica completamente a partire dagli anni ’50.
E’ stato definito un “hidalgo spagnolo” per la nobile figura, alta e slanciata, oltre che per  i gesti gentili, sotto i quali nascondeva una certa inquietudine.
Artista appartato e schivo, a tratti visionario, ha contraddistinto la scultura italiana del ‘900 partecipando ad importanti mostre in Italia ed all’estero, oltre ad una serie di personali.Uno dei soggetti centrali per questo artista è quello dell’ombra, sottolineato persino dai titoli in alcuni lavori più famosi (si pensi a “Crepuscolo”, “Notte” o alla serie della “Meridiana”).
Il trascorrere del tempo segnato dalla luce giustifica l’uso della tecnica, a base di potenti chiaroscuri, attuata anche nei bellissimi disegni.
Tutta la sua poetica si può dire che aspiri ad un valore simbolico.
Ecco perchè “l’importanza dell’opera di Perez potrà essere compresa se si avvertirà quanto grandioso e disperato c’è nella sua ostinazione a tenere saldamente congiunta la forza di rappresentazione dell’immagine con una tagliente ed ossessiva tensione intellettuale” (F. Simongini). Tale poetica, emersa peraltro fin dagli anni ’60, viene oggi registrata dalla critica più avanzata. Già alcuni anni orsono G.Testori, a proposito dell’opera di Perez, parlava a buon diritto di scultura che “sprofonda in se stessa  e traduce lo strazio del nostro essere uomini nello strazio della bellezza”.
L’ispirazione artistica gli scoccò mentre frequentava il ginnasio al Sannazaro, quando in un libro scopri una vecchia monografia di Bistolfi, scultore liberty, che lo entusiasmò al punto da spingere sua madre ad accompagnarlo al cimitero di Milano a studiare da vicino alcuni monumenti funebri.
Poi si avvicinò alle sculture di Gemito e cercò con l’argilla di riprodurre alcuni suoi lavori. 
Il padre volle che s’iscrivesse ad architettura ma, in segreto, continuò ad impastare creta fino a quando una sua creazione, “Una venditrice di sigarette”, attirò l’attenzione di Raffaello Causa e Paolo Ricci, con il risultato che lasciò l’università e, presa la licenza per insegnare disegno, cominciò ad insegnarlo in una scuola media di Terracina: nel frattempo, a 22 anni, si sposò con Sisina.
S’interessano ai suoi lavori Armando De Stefano, che gli consiglia di tornare a Napoli, e Guttuso, che presenta una sua opera ad una esposizione a Roma.
Rompe ogni indugio quando Emilio Greco l’invita a fargli da assistente presso la cattedra di scultura dell’Accademia di Belle Arti napoletana, al cui fianco resterà per dodici anni. 
Nel frattempo ha l’occasione di presentare alcuni suoi lavori alla Quadriennale di Roma, dove incontrano successo tra i critici. E’ il 1956 e la repressione dei moti in Ungheria l’induce ad abbandonare il partito comunista.
Un anno dopo ottiene, ancora trentenne, un’intera sala alla Biennale di Venezia, privilegio che si ripeterà anni dopo alla Quadriennale di Roma.
Il Presidente Leone gli assegna, assieme a Cagli, il prestigioso premio dell’Accademia di San Luca per la scultura.
Tra le sue creazioni frequentemente ricorre “L’ermafrodito”, un’immagine impietosa e tragica non solo dell’ambiguità della nostra epoca ma anche della lotta interiore che ha sempre lacerato quest’artista, convinto che una scultura perfetta non esiste, rimane un’aspirazione irraggiungibile, ad eccezione forse della sfera che può dare l’idea della deità fino al momento che precede la sua contaminazione attraverso l’assunzione di una qualsiasi forma.
Scomparso nel 2000, dopo dieci anni l’Accademia di Belle Arti, dove insegnò polemicamente per lungo tempo, ha inaugurato una grande mostra delle sue opere per ricordarlo, curata da Aurora Spinosa.
Fu possibile apprezzare una serie di disegni, sculture in gesso, in bronzo ed in argento della fine degli anni Cinquanta ed i trofei del ’62 – ‘63, oltre ad una serie di specchi ed il “Narciso”, uno dei suoi capolavori, esposto alla Biennale del ’66.
Ricordo l’interesse tra i numerosi visitatori, molti dei quali non lo conoscevano affatto, probabilmente perché le sue opere sono in giro per il mondo e Napoli ne possiede una soltanto, un gigantesco “Centauro” posto nell’atrio della Cassa Marittima.
Dieci anni di attesa per una mostra, molti di più per un museo a lui dedicato nello storico Palazzo dello Spagnolo alla Sanità, al fianco di quello dedicato a Totò, divenuto ormai la prova tangibile e perenne dell’inefficienza delle amministrazioni cittadine ed ancora più grave l’attesa, promessa anni addietro, di un mausoleo funebre nel circolo degli uomini illustri nel cimitero di Poggioreale. 
Ma tanto, per i morti il tempo non esiste e possono tranquillamente attendere.

2-Crepuscolo, di Augusto Perez

3-Meridiana Fontana, di Augusto Perez

4-Ermafrodito, di Augusto Perez

5-Narciso, di Augusto Perez

6-Centauro, di Augusto Perez-mostra a Castel dell'Ovo anno 2000



domenica 23 febbraio 2014

Ingiurie bonarie: Babbasoni, Scualarci e Curnutoni



Queste benevoli ingiurie sono declinate al maschile a cominciare dal titolo, che richiama un ciccione con le mani appoggiate sui fianchi che fa venire in mente, appunto, la carta napoletana in questione. Se il vostro peggior nemico invece vi da l’idea di un individuo deforme, rachitico e brutto, potete chiamarlo «squaquecchio» o «scunciglio» o «scatobbio». Se prevalere è la bruttezza, l’espressione più adatta è: «sibrutto comme ‘a fammma e notte», mentre se abbiamo a che fare con un tipo insignificante, allora «cazzillo» e «cazzetiello» sono perfetti. Più ricercata è la parola «scicchignacco», spesso usata nel modo di dire, ancora più ricercato «scicchignacco int’ ‘a butteglia», immortalata nella canzone di Raffaele Viviani «A rumba d’ ‘e scugnizzi». Lo «schicchignacco» deriva dalla fusione di due parole, «cicco», che significa maiale e «gnacca», che significa macchia, sgorbio.
In fin dei conti però, quando si vuole inquadrare in una battuta qualcuno che ci è davvero antipatico e, ai nostri occhi, non può che risultare brutto e stupido, non possiamo che dirgli «si io caccio ‘o culo e tu ‘a faccia, ci pigliano pe’ gemelli». Anche per gli uomini bassini la vita a Napoli riserva un bel po’ di offese. Si possono chiamare «scazzuoppoli», ma soprattutto si possono prendere in giro con un bel numero di detti. Dopo aver urlato contro costui «Sì accussi curto ca…» si può concludere con tre varianti: «ca può scupà allert sott ‘o lietto’», «ca quanno te faie ‘a doccia, l’acqua ‘n capo t’arriva fredda», «ca te faie ‘o bagno ‘int ‘o bidè».
 Nell’ambito dei difetti fisici, però il napoletano si sbizzarrisce con i grassi (babbasoni, pachialoni, vuttazzielli) e con i magri (spellacchione, spilapippa, struncone, scaluorcio). Altra categoria messa sempre in croce a Napoli è quella dei cornuti. Se uno di questi si sta aggiustando i capelli davanti a noi, possiamo dirli con estrema eleganza e una dolce punta di ironia: «allustrate ‘o cornicione», ma se proprio vogliamo rimanere nel vago e non infierire, ci resta sempre la possibilità di: «tiene nù bell’ cappiell’ d’uosso».
«Curto e male ‘ncavato» è il peggiore dei complimenti che possa essere rivolto a un napoletano, il quale, oltre che di bassa statura è mal sagomato.
«Scicchignacco ‘ncopp ‘a votta» oltre alla bassa statura il nostro interlocutore è anche goffo. «Figli ‘e ‘ntrocchia», un complimento vero, un omaggio alla scaltrezza.
«Giorgio Cutugno» si dice di personaggio che assume atteggiamenti da guappo.
«Ommo ‘e ciappa» dicasi di uomo di vaglia e ritegno, in contrasto con l’opinione di Zazzera, che la ciappa non sia l’abbottonatura della toga, ma più volgarmente ‘a vrachetta. 
«Fessarie e cafè» dicasi di persone che affermano cose di nessuna importanza.
«Cu ‘na man annante e una areto» di persone che debbono togliersi di scena sconfitti.
«E pizziche ‘ncoppa ‘a panza» persona che è costretta a rassegnarsi.
«Palla corta» di persona che non ha raggiunto il suo obiettivo.
«Tene a capa pe’ spartere ‘e recchie» uno stupido privo d’intelligenza.
«’O gallo ‘ncoppa a munnezza» il presuntuoso che si da troppe arie.
«Sfruculià ‘a mozzarella ‘e San Giuseppe», «Sfruculià ‘o pasticci otto» locuzioni entrambi da riferirsi ad un provocatore.
Potremo continuare a lungo a dimostrazione che il napoletano non è un dialetto, ma una vera lingua dalle peculiarità linguistiche e dal ricco vocabolario. Il vernacolo è ricco di locuzioni derivate dalla saggezza popolare, che costituiscono l’espressione più pregnante della napoletanità.

giovedì 20 febbraio 2014

I vicoli di Caravaggio e di Ribera



i gradini pendino santa barbara


Nel budello scuro del Cerriglio, tra chiese abbandonate, vicoli puteolenti e palazzi nobiliari in rovina, si possono ancora vedere nei volti dei popolani, oramai mischiati agli extracomunitari in un coacervo inestricabile le creature cupe immortalate dal pennello di Ribera, mentre a pochi passi rivive l’atmosfera della celebre taverna dove Caravaggio fu raggiunto dai sicari inviati dai familiari di Rainuccio Tomasoni, l’uomo da lui ucciso a Roma per un futile litigio e lo ridussero talmente male che i giornali dell’epoca scrissero addirittura che il lobardo era morto per le ferite dell’aggressione. Caravaggio non era l'unico artista a frequentare il Cerriglio (che probabilmente si chiama così perché c'era un piccolo albero di "cerro" a delimitare la zona). Dei tavoli della taverna hanno parlato, nei secoli, anche Giovan Battista Della Porta, Giambattista Basile, Sgruttendio, Giovan Battista del Tufo, Carlo Celano, Giulio Cesare Cortese, Emmanuele Bidera, Vincenzo D'Auria, Benedetto Croce. Pare che sulla porta della locanda fossero riportati questi versi popolari: «Magnammo, amice mieje, e po' vevimmonfino ca stace ll'uoglio a la lucerna: Chi sa' si all'auto munno nc’è vedimmo! Chi sa' si all'auto munno nc'è taverna!». 
Cerriglio: un posto pieno di storia popolare e grande arte. Non a caso, c'è un'altra espressione, attribuita al cuoco della Taverna del Cerriglio: «è ffritto 'o ffecato». Sta a significare, per metafora, «ormai le cose sono andate così». Eppure, a parte lo spirito e la storia, non tutti i turisti si accorgono di quanto Caravaggio sia parte integrante del centro antico della città. Percorrendo questo angolo dimenticato ci si interroga sul destino di quella che fu una antica capitale uno sguardo alle tante edicole votive e si intravedono gli spetti di un lontano passato, sembra di poter vedere il cammino di re Ladislao e dei sovrani borbonici, di Matilde Serao e di Malaparte.
Piazza Borsa alle spalle si sale lungo viuzze protette da archi tra lamiere divelte e monnezza ubiquitaria, fino a raggiungere la quattrocentesca chiesa di San Pietro in Vinculis, chiusa da un tempo infinito, saccheggiata ed oltraggiata dentro e fuori. Una zona popolare oggi colonizzata dai Cingalesi gente pacifica, commista a studenti universitari fuori sede. Più avanti vico San Geronimo dei Ciechi, naturalmente senza sbocco e vico Melofiocco, puntellato dal terremoto del 1980. un odore pungente di marcio, forse perché il mare, prima che i lavori del Risanamento lo facessero arretrare arrivava fino a queste mura portando merci e odori dal lontano Oriente.
Mura strette che danno l’impressione di palazzi grandiosi, oltraggiati dalle lenzuola stese tutto l’anno a tutte le ore.
All’improvviso, vicino all’Orientale lo splendido portale della cappella Pappacoda e ti convinci che il passato possa essere un viatico per il futuro.
Quassù, il mare non lo immagini neanche più. Lo si avvista dagli attici che si rincorrono da un tetto all'altro. A livello di strada, invece, tra palazzi sontuosi, così vicini che quasi si compenetrano come un disegno dalle prospettive allucinate di Escher, la nobiltà non è ancora precipitata nella miseria, ma a tratti ne ha l'aspetto. Le botteghe sono a misura di quartiere. il salurniere, il fruttivendolo, la merceria, la piccola officina, l'artigiano si alternano a qualche negozio etnico a beneficio degli studenti. Turisti se ne vedono pochi, facce straniere quante ne volete: universitari o immigrati. Eppure, se la bellezza e la memoria scuotessero gli animi, facessero mettere mano alla tasca, sveltissero le burocrazie, Napoli offrirebbe su un piatto d'argento una delle sue anime più misteriose. Del resto siamo poco lontani dall'insula di Santa Chiara. Zona dove al posto dei pazziarielli di buona memoria è ora dominata dagli artisti di strada «Fanno feste, si mangia, si beve e da qua partono i loro spettacoli per le vie della città. Da quando ci sono loro, c'è di nuovo allegria. E pure qualche turista». Basta poco.

la flagellazione del caravaggio

murales

vicolo


Per Palazzo Penne, invece, il tempo non basta mai. Da dodici anni è al centro di una vicenda di ordinari paradossi, con il corollario di carta bollata e processi. Quando la strada dei Banchi Nuovi si allarga in piazza Teodoro Monticelli, per presentarvi sulla sinistra la gialla facciata delle chiesa dei santi Demetrio e Bonifacio, scoprite la sagoma grigia del palazzetto del segretario di re Ladislao, Antonio Penne, uomo di penna, di nome e di fatto. Bugnato toscano e portale ribassato alla maniera durazzesca. Un capolavoro. Ma solo il portale è stato ripulito e fa l'effetto di una passata di rossetto su un viso decrepito. Dietro la facciata c'è un numero enorme di stanze, su tre piani: si arrampicano fin sotto la cupola della chiesa. Dodici anni fa fu acquistato dalla Regione Campania. Era ridotto a rudere. Ora è pure peggio. Nel 2004 la Regione lo ha ceduto, in comodato d'uso all'Orientale, per fame un polo universitario d'eccellenza, con laboratori, aule per seminari e convegni. L'avete mai visto? Lungaggini, appelli (del presidente Giorgio Napolitano), indagini (dell'Unesco e della magistratura) e il Palazzo sta ancora tutto sporco, pieno di monnezza, come il mare della canzone di Pino Daniele, è «Nisciuno 'o pò guardà». 
Di fronte Palazzo Penne si può ancora leggere su una lapide un ammonimento sanzionatorio di Ferdinando IV del 1773 contro chi lasciava rifiuti per strada. Pena prevista la galera. Se fosse ancora valido Poggioreale dovrebbe decuplicarsi. Una lapide simile, anteriore di venti anni (1753), collocata durante il regno di Carlo, padre di Ferdinando, è all'imbocco del Cerriglio, accanto a un'officina meccanica. 
Da quassù di vede la stretta ferita del Pendino Santa Barbara che riporta giù a Sedile di Porto. Strada letteraria per eccellenza. Presa a simbolo del degrado sociale e umano. Già dall'imbocca, prima delle bitte di pipemo che lo restringono a esclusivo uso pedonale, folklore e creatività si danno la mano, ma alla maniera napoletana, trasformandosi in rifiuto. C'è un casaruoppolo di legno, tutto pittato di azzurro Calcio Napoli. Dentro, chiuso da un catenaccio, resiste occultato il chiosco di marmo di Nennella, un' istituzione cittadina. Al suo banco dell'acqua, fino a 15 anni fa quando è scomparsa, si sono abbeverati migliaia e migliaia di passanti. Lei stessa è stata immortalata in decine di fotografie. Ora non c' è più, ma il chiosco resiste, sebbene ridotto a custode di un cumulo di rifiuti che gli cresce sotto. Un colto sanzionatore ha lasciato una scritta in franco- napoletano: «Ceci n'est pas une monnezza». È una parafrasi del celebre «Ceci n'est pas une pipe» («Questa non è una pipa») di Magritte. E infatti non era una pipa, ma un quadro. Questa, invece, è proprio monnezza. 
Qui, lo sversamento incontrollato era un'abitudine che scandalizzò Matilde Serao: «Da una parte e dall'altra abitano femmine disgraziate, che ne hanno fatto un loro dominio e, per odio di infelici disoccupate, nel giorno e per cupo odio contro 1'uomo, buttano dalla finestra, su chi passa, bucce di fichi, di cocomero, spazzatura, torsoli di spighe: e tutto resta, su questi gradini, così che la gente pulita non osa passarvi più». Tutta questa zuzzimma adesso non c'è, ma neanche riluce di pulizia. Non ci sono più neanche le nane che Curzio Malaparte immortalò nella sua «Pelle»: «Son così piccole, che giungono a stento al ginocchio di un uomo di media statura. Sono laide e grinzose; fra le più brutte nane .che siano al mondo». 
Continua la ricerca del punto esatto dove vi era la famosa taverna del Cerriglio. Niente da fare il punto esatto non lo troviamo anche se ci aiuta ciò che scriveva sul finire dell’Ottocento Salvatore Di Giacomo, pencolante tra la nostalgia dei vicoli opachi e il disgusto dei fondachi verdi: «La via larga e nuova del Rettifilo ha ingoiato il Cerriglio grande ov'ella principia, da San Giuseppe. Il piccolo Cerriglio è murato, e i tempi nuovi e il novello commercio milanese in Napoli gli han piantato davanti il negozio del signor Carsana». 
La via s'inerpica in vuoto riempito solo da scooter parcheggiati o distrutti e abbandonati. Qua e là resti di spazzatura. È uno scorcio spettrale a ridosso della frenetica piazza Bovio. Più che un ritorno al passato, all'epoca in cui questi minuscoli sentieri tra mura servivano a proteggere la città dai temuti attacchi dal mare, sembra di essere precipitati in un futuro inquietante, come se si passeggiasse negli angoli più segreti di Capri o Positano dopo un bombardamento che avesse messo a tacere per sempre le voci di dentro che sussurrasse: «Senza bellezza non c' è salvezza». 
E vorremo concludere con un ricordo giovanile: sfidando il tempo è ancora attivo il Casino di Santa Chiara (leggi sul web il mio articolo che racconta la sua storia) brulicante di vita è solo cambiata la nazionalità delle “signorine”.
palazzo Penne


I PITTORI ABRUZZESI DELL’OTTOCENTO

01-Ritratto di Nicola Zingarelli,di Costanzo Angelini

La pittura abruzzese dell’Ottocento, particolarmente ricca di artisti, alcuni tra i più famosi del secolo, viene confusa con quella napoletana perché quasi  tutti i pittori furono attratti dalla più vivace realtà della grande città o da Parigi per cui, avendo svolto altrove gran parte della loro attività, se ne dimentica il luogo di nascita.
Francesco Paolo Michetti, i fratelli Palizzi, Teofilo Patini sono nomi conosciuti da studiosi ed appassionati ma vengono catalogati erroneamente sotto altre scuole più conosciute.
Tra i pittori da ricordare potremmo partire da Costanzo Angelini, nato a Santa Giusta di Amatrice, a lungo direttore dell’Accademia di Belle Arti di Napoli a partire dal 1809, autore di bellissimi ritratti a pastello e ad olio.
Un’altra figura rimasta immeritatamente nell’ombra, esclusa persino dalla grande mostra ”Civiltà dell’Ottocento a Napoli”, è quella di Giuseppe Bonolis, nativo di Teramo (1800-1851) del quale ricordiamo il ritratto del Principe di Fondi, conservato nel Museo di San Martino, ed il ritratto di gentildonna nell’Accademia delle Belle Arti napoletana.
Uno specialista della pittura en plein air e degli studi dal vero è Gabriele Smargiassi (1798-1882) trasferitosi diciottenne da Vasto per frequentare prima l’Accademia di Belle Arti e poi la scuola privata dell’olandese Pitloo per assurgere infine, nel 1837, alla cattedra di paesaggio nella prestigiosa accademia napoletana.
Un posto di rilievo è occupato dai quattro fratelli Palizzi. Pochi cenni dedicheremo a Nicola (Vasto 1820-1871) e Francesco Paolo (Vasto 1825-1871). Il primo operò prevalentemente insieme a Filippo e si dedicò alla pittura dal vero,  il secondo lavorò principalmente in Francia, dove si era trasferito il primogenito Giuseppe. Ritornò a Napoli dopo lo scoppio della guerra franco-prussiana e morì ancora giovane.
Giuseppe si forma alla scuola di Pitloo e di Gabriele Smargiassi, oltre a frequentare lo studio di Fergola ed i pittori della Scuola di Posillipo.

02-Ritratto del Principe di Fondi, di Giuseppe Bonolis

03-Ritratto di gentildonna,di Giuseppe Bonolis

04-Studio di pianta,di Gabriele Smargiassi

05-Rocce,di Nicola Palizzi

06-Contadini con armenti a Paestum, di Nicola Palizzi

07-Il taglialegna a Fontainebleau,di Giuseppe Palizzi

08-Interno di stalla con figure, di Giuseppe Palizzi


Esordisce alla Biennale Borbonica del 1837, vincendo il primo premio con una veduta acquistata dal re. Si attesta sul genere del panorama romantico ed a seguito di contrasti con alcuni docenti dell’Accademia decide di trasferirsi in Francia dove frequenta lo studio di Troyon per stabilirsi poi nei pressi della foresta di Fontainebleau, che diviene il soggetto preferito di molti suoi dipinti. 
L’intescambio culturale con i seguaci della scuola di Barbizon gli fa abbandonare la classica veduta posillipina. Si dedica ad una pittura monumentale con grandi quinte arboree, approfondendo la resa naturalistica della luce e delle ombre, inserendo spesso nelle sue opere figure di animali inviategli dal fratello Filippo, rimasto a Napoli. 
Dal 1845 espone regolarmente ai Salons e nel 1859 viene insignito della Legion d’Onore.
Ritorna saltuariamente a Napoli ed ottiene riconoscimenti anche da Francesco II di Borbone nel 1860 e da Vittorio Emanuele II nel 1861.
Dopo un lungo viaggio in Italia nel 1866, continuerà ad esporre a Parigi, salvo la sua presenza a Napoli nel 1877 in occasione  della grande Esposizione Nazionale
L’anno successivo morirà in Francia, a Passy. 
Filippo Palizzi (Vasto 1818 - Napoli 1899), trasferitosi a Napoli nel 1837 presso il fratello Giuseppe, insofferente degli insegnamenti accademici, si dedica allo studio del vero sotto l’influsso di artisti come Pitloo e Gigante.
Pratica assiduamente il disegno e trasforma sulla tela gli stimoli provenienti dal mondo naturale, prediligendo paesaggi con animali, scene di genere ed interni di stalle. Monumentale è “Dopo il diluvio” conservato al Museo di Capodimonte, richiesto da Vittorio Emanuele nel 1863.
Esordì infatti all’Esposizione Borbonica del 1839 con “Studi di animali”, premiato con medaglia d’argento.
Per un periodo si dedicò anche al “Paesaggio storico”, come attestano dipinti come “Pia de’ Tolomei”, “Tasso che incontra il brigante”, “Marco Sciarra” e “Sogno di Caino fratricida”. 
L’esperienza del fratello nella foresta di Barbizon lo indusse a trascorrere le estati dipingendo, più modestamente, nelle colline di Cava de’ Tirreni.
Tra il 1853 ed il ’57 fornì quarantotto disegni per il famoso volume di De Boucard “Usi e costumi di Napoli”.
Nel 1878, dopo numerosi viaggi a Parigi in occasione delle Esposizioni universali, accettò l’incarico di Presidente del Regio Istituto di Belle Arti di Napoli.
A volte svolse anche attività di ritrattista, come nel ritratto del barone De Riseis che presenta un impianto formale di tipo rinascimentale, ma la sua passione furono sempre gli animali, raffigurati nella loro quotidianità, come “L’interno di stalla con caprette” dove la resa minuziosa dei particolari è rafforzata da effetti luministici, con un fascio di luce radente che fissa la staticità della scena a dare vivacità ad una tavolozza dove prevalgono toni di colori terrosi.

09-Pastorelli nel bosco,di Filippo Palizzi

10-Dopo il diluvio, di Filippo Palizzi

11-Ritratto del Barone De Riseis, di Filippo Palizzi

12-Interno di stalla con caprette, di Filippo Palizzi

13-Interno di stalla, di Valerio Laccetti

14-Interno con famigliola abruzzese, di Valerio Laccetti


Prima della morte, avvenuta a Napoli, donò gran parte delle sue opere, divise oggi tra la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, l’Accademia di Belle Arti di Napoli ed il Museo Civico di Vasto.
Tra gli allievi più validi di Filippo Palizzi va ricordato Valerio Laccetti (Vasto 1836 - Roma 1909), anch’egli autore di accurati interni di stalla nei quali, sfruttando effetti di luce radente, raffigura la pacifica vita degli animali domestici dopo un giorno di fatica nei campi. 
S’interessò con eguale trasporto agli “umani”, come in “Interno con famigliola abruzzese” dove raffigura una mamma col suo bambino sulle ginocchia mentre gli altri sono sparpagliati per la stanza in compagnia di un gatto. Laccetti seppe sposare gli elementi di derivazione palizziana con una scrupolosa cura del dettaglio di impronta neo fiamminga, che sarà alla base del suo successo con una clientela internazionale.
Predilesse un  rassicurante ambiente familiare alla denuncia delle misere condizioni delle classi sociali più disagiate, anche per venire incontro ai gusti del pubblico.
Negli anni Settanta, alle scene d’interni, affiancò dipinti di paesaggio della campagna romana, condotti con una tecnica memore degl’insegnamenti francesi
Sul finire della carriera, oltre alla pittura, si dedicò anche al teatro e scrisse alcuni romanzi storici: “Arrigo VIII Re e Papa”.
Un posto di rilievo nel panorama figurativo abruzzese è occupato da Pasquale Celommi (Montepagano di Roseto degli Abruzzi 1851 - Roseto degli Abruzzi 1928), capostipite di una dinastia di quattro generazioni di pittori, definiti pittori della luce, che attraversano per due secoli la storia artistica regionale.
Le opere di Pasquale, eseguite con tecnica minuziosa che gli permetteva di riprodurre “i particolari del particolare”, raccontano con spiccata sincerità e lirismo splendide marine e robuste lavandaie, rappresentando una vera fotografia del suo tempo.
Uno “Sposalizio abruzzese”è caratterizzato dalla disposizione orizzontale delle figure in un’atmosfera primaverile con una sapiente cromia che infonde allegria alla composizione: una scena festosa, brulicante di personaggi, che imprimono dinamicità alla narrazione, impostata su un tema tipico della civiltà contadina meridionale. 
La “Lavandaia” rappresenta una giovane prosperosa, dalle mani consumate dal sapone, intenta al suo lavoro quotidiano. La modella, più volte raffigurata dall’artista, si rivolge sorridente all’osservatore, china  su di una tinozza d’acqua saponata ed indossa sugli abituali abiti dei vezzosi orecchini ed una camicia bordata di fine merletto, dalla quale s’intravede il seno, ed un piccolo scialle a fiori: un’immagine gentile dal tono affabile ed accattivante. 
“L’operaio politico” decretò il successo per Celommi. Il quadro raffigura un anziano operaio intento alla lettura di un giornale, “La Vedetta”, che reca ben visibile la data: 3 giugno 1988. 
La luce si staglia vigorosa  sulla figura, esaltando l’aspetto meditativo dell’anziano operaio, dove alberga l’ansia di riscatto di un’intera classe sociale vittima da sempre di soprusi ed angherie.
La tela ci ricorda, per effetti di luce e resa compositiva, un’altra opera famosa dell’autore, “Il ciabattino”, conservato a Roseto nel palazzo comunale.
In “Verso l’inverno”  vediamo la modella preferita dall’artista, elegantemente vestita con uno scialle variopinto mentre s’incammina sorridente, incurante della pioggia da cui si ripara con un ombrello di grosse dimensioni.
“Il primo bacio”ci raffigura un innocente scambio di effusioni tra due giovani pastorelli mentre un gregge di pecorelle è intento a brucare un invitante manto erboso sul cui sfondo olivi e mandorli in fiore sembrano confondersi con il cielo di un azzurro luminoso.
La scena bucolica è resa con colori caldi e luminosi come nei migliori esiti di un Dalbono o di un Michetti. I due fanciulli sembrano dimenticare la fatica ed il sudore e vivono con intensità un momento di incantevole piacevolezza che li proietta lontano dalla realtà quotidiana.
Francesco Paolo Michetti (Tocco Casauria 1851 - Francavilla al Mare 1929) è uno dei pittori abruzzesi più famosi. A 17 anni frequenta l’Accademia di Belle Arti di Napoli e viene attratto dal realismo di Domenico Morelli, dei fratelli Palizzi e della Scuola di Resina. 
Nel 1872 è presente al Salon di Parigi, dove ritornò nel ’75 e nel ’77. 
Nel 1882 illustrò il “Canto Novo” di Gabriele D’Annunzio, il quale recensì il suo monumentale dipinto “Il voto” favorendo il suo ingresso nella raccolta della Galleria Nazionale di Arte Moderna.
“I morticelli”, eseguito a 29 anni, raffigura il funerale in riva al mare di due neonati gemelli ed è sviluppato in verticale, come su di uno schermo cinematografico.
Presentato all’Esposizione Nazionale di Torino, ottenne il consenso della critica per la novità del tema trattato e la vivace impaginazione. Michetti trasfigura l’evento doloroso in una processione composta e serena, in un’epoca in cui i decessi infantili erano purtroppo frequenti. Anche quest’opera ottenne una recensione di D’Annunzio sul “Fanfulla della Domenica”. “Prima nidiata” è una tempera a pastello che raffigura un paffuto neonato avvolto in strette fasce e cuffia ricamata, che dorme sereno in una culla di vimini in compagnia di una nidiata di pulcini, anch’essi da poco affacciati alla vita: il tutto in un’atmosfera di grande serenità. 
Al dipinto seguì un altro, “Seconda nidiata”, nel quale la culla è vuota e la madre piange disperata sul guanciale vuoto mentre i pulcini pigolano tra le sue gambe.  Il dipinto, esposto a Milano, suscitò curiosità per la novità del tema e l’abilità del pennello dell’artista.  
Tra i suoi ritratti, i più noti rappresentano D’Annunzio,  lo scultore Costantino Barbella ed il musicista Francesco Paolo Tosti, tutti frequentatori del famoso Cenacolo di Francavilla, dove Michetti riuniva periodicamente intellettuali di varie branche con l’intento di abbattere le barriere settoriali nel nome dell’arte.
Nel 1895 il dipinto “La figlia di Iorio” venne premiato alla I Biennale di Venezia e la motivazione della giuria sottolineò come il pittore avesse reso un dramma umano con sincerità e rara potenza naturalistica. 
In qualche opera, come nel “Vitellino a riposo”, sembra esprimersi alla stregua di un Palizzi, di cui ammirava il crudo realismo che ben definì nelle tele “Le serpi” e “Gli storpi” elaborati su materiale fotografico.
Nominato senatore nel 1909, rallentò la sua attività e solo sporadicamente inviava del paesaggi alla Biennale di Venezia. 
A concludere il panorama dei pittori abruzzesi dell’Ottocento vi è la figura di Teofilo Patini, al quale abbiamo dedicato un articolo specifico dal titolo “Un grande pittore della realtà: Teofilo Patini”, per cui non ci ripeteremo.

15-Sposalizio abruzzese, di Pasquale Celommi

16-Lavandaia, di Pasquale Celommi

17-L'operaio politico, di Pasquale Celommi

18-Verso l'inverno, di Pasquale Celommi

19-Il primo bacio, di Pasquale Celommi

20-Il voto, studio preparatorio, di Francesco Paolo Michetti

21-Il voto, studio preparatorio per il crocifero, di Francesco Paolo Michetti

22-I morticelli, di Francesco Paolo Michetti

23-Prima nidiata, di Francesco Paolo Michetti

24-Ritratto di Gabriele D'Annunzio, di Francesco Paolo Michetti

25-Ritratto di Costantino Bardella, di Francesco Paolo Michetti

26-Ritratto di Francesco Paolo Tosti, di Francesco Paolo Michetti

27-La figlia di Iorio, di Francesco Paolo Michetti

28-Vitellino a riposo, di Francesco Paolo Michetti