mercoledì 30 aprile 2014

Quattro nature morte napoletane

001 - Brueghel Courtois - Vaso di fiori con figura femminile - Varese collezione privata

Tra i dipinti inviatimi negli ultimi mesi da collezionisti e case d'aste per stabilire paternità e qualità dell'opera spiccano  quattro interessanti nature morte, che vanno ad incrementare il catalogo di artisti che hanno lavorato a Napoli tra il Seicento ed il Settecento.
Cominciamo con un quadro di altissima qualità: Un vaso di fiori con figura femminile (fig.001), conservato a Varese nella collezione Cerini, frutto di una collaborazione tra Guillaume Courtois, cui spetta la delicata fanciulla ed Abraham Brueghel, che realizza l'elegante vaso grondante di fiori multicolori.
L'opera appartiene agli anni del soggiorno romano del Brueghel, fino al 1675, quando si trasferirà a Napoli dove vivrà fino alla morte avvenuta nel 1697.
Egli è ricordato dal De Dominici col nomignolo di "fracassoso", per definire il suo stile brioso e leggero, che cozzava con quella solida lucidità ottica che contraddistingue gli epigoni della scuola napoletana suoi contemporanei, da Giovan Battista Ruoppolo a Giuseppe Recco.
Proseguiamo con una Natura morta di pesci (figg. 002 - 003 - 004), appartenente alla raccolta Enrico Tedesco eseguita da Nicola Maria Recco, figlio del più noto Giuseppe e fratello di Elena.
Egli seguì le orme paterne, ma ad un livello decisamente inferiore, con una pennellata priva di slanci vitali, stanca ripetitrice di formule stereotipate attinte al patrimonio iconografico familiare. Alcune tele firmate, sovrapponibili a quella in esame, gli hanno ritagliato un suo piccolo spazio nella storia della natura morta napoletana.
Achille della Ragione

002 - Nicola Maria Recco - Natura morta di pesci  -Italia collezione Enrico Tedesco

003 - Nicola Maria Recco - Natura morta di pesci (particolare) - Italia collezione Enrico Tedesco

004 - Nicola Maria Recco - Natura morta di pesci (particolare) - Italia collezione Enrico Tedesco 


Concludiamo con una Coppia di vasi (figg. 005 - 006) di Francesco Lavagna, conservati nella collezione Li Mura di Catania.
Francesco e Giuseppe Lavagna sono probabilmente legati da vincoli di parentela, ma non sappiamo quali e sono attivi nella prima metà del XVIII secolo.
Il De Dominici parla solo di Giuseppe Lavagna (1684-1724), affermando che era discepolo di Belvedere” ma ingrandì un po’ soverchio i suoi fiori e gli dipinse con più libertà”. Divenne cieco e morì nel 1724 a quaranta anni. L’Urrea Fernandez segnala una serie di Vasi di fiori, uno dei quali firmato, nella Collegiata di Villagarcia de Campos, presso Valladolid in Spagna. Anche Bologna riferiva a Causa, di averne identificate alcune sul mercato antiquariale dell’epoca.
Di Francesco Lavagna, viceversa, negli ultimi anni sono comparse alcune tele firmate per esteso, che ci permettono di definire meglio il suo stile, come nel caso della Natura morta in un giardino comparsa nell’aprile 1981 presso la Finarte di Roma.
Il Salerno, che per primo ha pubblicato il dipinto prima descritto, ha reso noto anche una Natura morta di Frutta, nella quale la possibilità di riconoscere la grafia del pittore è legata al particolare di un piccolo gruppo di fiori sulla destra della composizione.
Al Lavagna può essere ragionevolmente attribuito il Vaso di fiori, già presso l’antiquario Parenza a Roma, un bouquet denso di sfumature vivaci e di tinte calde, che si inserisce pienamente nel gusto rococò imperante a Napoli in quegli anni. Molto vicina alla tela precedente è anche una coppia di Grossi vasi ornamentali con fiori, caratterizzati dalla stessa cromia nella quale prevalgono le varie tonalità del rosso ed il bianco ed il Vaso di Fiori  della collezione Onofri di Roma.


005 - Francesco Lavagna - Vaso di fiori - Catania collezione Li Mura

006 - Francesco Lavagna - Vaso di fiori - Catania collezione Li Mura


domenica 27 aprile 2014

Elogio del ragù



Per le nostre mamme la cucina era il cuore della casa. Vi passavano ore vicino ai fornelli preparando cibi e inventando nuove pietanze per far piacere ai mariti e ottenerne l' elogio. Una piccola innocente ambizione di spose e al tempo stesso una prova di passione casalinga. L'ora di pranzo e l'ora di cena erano il momento dell' indivisibilità familiare. La tavola era il nostro altare. Intorno ad essa padre, madre, figli grandi e figli piccoli si componevano in un' unità sacrale. Le vecchie mamme avevano la fierezza delle brave massaie e anche se si facevano aiutare da una buona donna di servizio, la guida della cucina spettava a loro, un privilegio a cui tenevano come a un titolo nobiliare. La donna di servizio badava al governo della casa; in cucina ci stava solo per dare una mano alla padrona nelle incombenze minori e ne approfittava per apprendere i segreti dell' arte culinaria. Imparava a controllare la giusta cottura degli spaghetti, operazione tra le piu' difficili, preparava le verdure, passava i pomodori a setaccio per la salsa, puliva il prezzemolo, coglieva il basilico bello fresco dal vaso e spezzava i maccheroni per la "genovese". 
Per spiegare cosa vuol dire "spezzare i maccheroni" e cos' è la "genovese", dobbiamo attingere alla dottrina di Gabriele Benincasa, studioso anche di storia gastronomica. La parola "maccherone" in origine era il nome generico di una qualsiasi forma di pasta. Una volta, nell' uso corrente, per maccheroni s' intendeva quella pasta lunga, tonda con un buco in mezzo. A quei tempi non c'erano né "maltagliati" né i "rigatoni". C'erano invece le "zite", che si ricavavano dal maccherone tenendolo con la sinistra mentre con la destra lo si spezzava al punto giusto, in modo da ottenere una misura uniforme. 
Delle "zite" ebbe anche ad occuparsi Antonio Baldini in uno di quegli elzeviri che pubblicava sul "Corriere" sotto il titolo di Tastiera, un genere di deliziose divagazioni, ora serie ora scherzose. Quella volta lo scrittore, per far capire meglio ai lettori cos' erano i maccheroni spezzati, cambiò il titolo e dalla famosa "Tastiera" passò all'accattivante "Pastiera". Per la "genovese", piatto tipicamente napoletano, il discorso e' diverso. Essa non ha niente a che fare ne' con Genova ne' con i genovesi: il Benincasa azzarda l' ipotesi che l' origine del nome sia dovuta a Ginevra (Gene' ve e genevoise). A tale conclusione lo studioso e' arrivato ricordando la lunga presenza delle guarnigioni svizzere al servizio dei Borboni, i quali preferirono sempre gli svizzeri del Cantone francese, appunto quello di Ginevra. Ufficiali e soldati portarono così a Napoli le proprie abitudini culinarie come l' uso della cipolla cucinata in varie maniere a cominciare dalla "soupe a' l' oignon". Infatti nella "genovese" napoletana la cipolla è la base. 
Trascrivo la ricetta, tale e quale, dai "Consigli per la buona tavola alla moglie di un amico" del grande libraio napoletano Alfredo Casella, amico di Croce, di Anatole France e di tutta la letteratura italiana. Prima si fa rosolare un pezzettino di cipolla con una testa di sedano; poi si mette un pezzo di carne nel tegame e lo si riempie di cipolle tagliate fini facendole consumare a fuoco lento, fino a disfarsi completamente. Allora si aggiungono un bicchierino di vino bianco e un bicchiere d' acqua e, a chi piace, una grattatina di noce moscata. Man mano che il sugo si amalgama, diventando cremoso e di colore biondo dorato, per la casa si diffonde un odorino "da far resuscitare i morti", come dice Casella. Solo osservando queste vecchie liturgie, le nostre mamme hanno potuto mantenere i sapori antichi dei cibi, tramandando una delle piu' preziose tradizioni del Mezzogiorno. Quello per la cucina era un loro vero amore, fatto di dedizione e di pazienza. Perché senza la pazienza nessuna donna avrebbe mai potuto preparare un ragù come quello indicato da Eduardo nella commedia Sabato, domenica e lunedì . Un ragu' infatti puo' durare anche tre giorni. A causa mia si cominciava a farlo la sera del sabato. La mamma dava l' avvio facendo soffriggere la cipolla assieme al pezzo di carne nel tegame di creta e riempiendolo poi di salsa di pomodoro. Quindi chiamava Nennella, la nostra donna di servizio, incaricandola di badare al ragù . Orgogliosa della missione affidatale, Nennella non si muoveva piu' dai fornelli. Per ore e ore, seduta su una sedia, girava col mestolo lentamente nel tegame che andava a fuoco lento, aggiungendo acqua man mano che la salsa tendeva a farsi densa. A una certa ora smetteva per ricominciare al mattino della domenica fino al "momento sublime" del ragù . Ma qual è il "momento sublime"? L'ha descritto nel suo saggio Partenope in cucina un letterato, Mario Stefanile. E' quando la carne ben cotta e insaporita "ceda al suo sugo ogni sua piu' lieve e segreta fragranza, rosolandosi, baciandosi, cuocendosi, fino a diventare tenerissima. E' quello il momento che la salsa si raddensa, si scurisce, perde ogni asprezza e ogni crudezza e si fa ricca, vellutata, morbida". Il ragù è il profumo di Napoli, ma è anche il ricordo della domenica, tutti i figli intorno al tavolo con papa' e mamma nella stanza da pranzo, con la lampada a scorrimento al centro. Con la pasta che restava (di proposito se n'era cucinata di più ) si faceva la "frittata" alla sera o per il giorno dopo. Mia madre diceva che per farla riuscire bene era meglio far "riposare" i maccheroni conditi, per un po' di ore, in modo che la pasta potesse assorbire il sugo del ragu' . Nel Sud, la frittata di maccheroni e' considerata il cibo degli angeli. Il mio ricordo e' legato al trambusto e ai litigi che nascevano fra noi ragazzi quando la mamma faceva le porzioni. Misuravamo con gli occhi la grandezza delle fette e cominciavamo a protestare: "Io ne ho avuto meno, lui ne ha di più ...". "Non è vero, la mia è più stretta!". "La finite o non la finite?", interrompeva dolcemente arrrabbiata mia madre, ma visibilmente contenta per il nostro desiderio insaziabile. Nella mia memoria quelle sere restano l'immagine di un'infanzia felice.

giovedì 24 aprile 2014

Triste ritorno a Napoli




Mancavo a Napoli da 6 anni e, nonostante ne avessi seguito attraverso i giornali il precipitoso declino, non immaginavo di vedere, col cuore sanguinante, un degrado ubiquitario e soprattutto, più delle saracinesche calate e della spazzatura trionfante, una mutazione antropologica della popolazione con una percentuale di vecchi soverchiante ed i pochi giovani sbandati dai volti smarriti, incorniciati da piercing, tatuaggi e capigliature degne di un selvaggio. Un linguaggio scurrile anche in bocca alle ragazze ed un vestire trasandato ai limiti della decenza, senza contare l'esercito dei mendicanti che non ha eguali in nessuna città europea.
Bisogna essere eroi per continuare ancora ad amare questa splendida e sfortunata città.

mercoledì 23 aprile 2014

Equo canone per i negozi



Ogni giorno centinaia di negozi sono costretti a cessare l'attività per l'esosità del canone di affitto.
Se si vuole rilanciare il commercio e creare nuovi posti di lavoro è necessario che il Parlamento vari una forma di equo canone per i locali commerciali, nello stesso tempo quadruplicando la tassazione per chi li lascia chiusi


mercoledì 16 aprile 2014

Uno splendido Sansone e Dalila di Niccolò de Simone

 Niccolò de Simone: Sansone e Dalila (Collezione Orlando Magli LECCE)


Niccolò de Simone, “geniale eclettico” dalle molteplici componenti culturali, fu pittore e frescante, operoso per oltre venti anni sulla scena napoletana e, pur con le difficoltà di classificare il suo pennello multiforme, in grado di recepire le più diverse influenze, può rientrare ragionevolmente nella cerchia falconiana, in parte per il racconto fantasioso del De Dominici, che ce lo descrive partecipante alla Compagnia della morte, ma precipuamente per un evidente rapporto stilistico con la produzione di Aniello Falcone, di Andrea De Lione e di Domenico Gargiulo, da cui prendono ispirazione molte delle sue opere.
Nulla sappiamo sulla sua data di nascita e di morte, anche se l’improvvisa mancanza di documenti di pagamento a partire dal 1656, prima numerosi, fa ipotizzare che possa essere morto, alla pari di tanti altri artisti e di un terzo della popolazione napoletana, durante l’epidemia di peste. Nella Nota sugli artisti napoletani che, nel 1675, Pietro Andrea Andreini spedì da Napoli al cardinale Leopoldo de Medici l’architetto Niccolò di Simone viene citato fra gli artisti ancora viventi, ma si tratta di persona affatto diversa. Il primo mistero da affrontare è basato sulla molteplicità di firme e di citazioni nei documenti con i quali l’artista viene indicato e l’assidua presenza del nome del padre, Simone o Simon Pietro, dopo il suo nome di battesimo, al punto da aver fatto perdere le tracce del suo vero cognome e di averlo fatto diventare nel tempo de Simone. Il riferimento costante al genitore fa supporre che egli vivesse in città con lui e fosse noto, forse un pittore del quale abbiamo perso ogni traccia. Probabilmente era lui il “fiammegno” trasferitosi a Napoli sul finire del Cinquecento, come tanti suoi celebri colleghi e Nicolò potrebbe anche essere nato all’ombra del Vesuvio, mentre la città di Liegi, indicata accanto alla sua firma nel Baccanale di collezione genovese, essere la città di origine della sua famiglia. Se veniva dall’estero, come è probabile, non si conosce la data del suo arrivo, né quanti anni avesse, se andò a bottega da qualche maestro locale o fosse già indipendente. Nelle polizze di pagamento il suo nome viene spesso accompagnato da un soprannome: Loket, Lokel, Lopet, Lozet o Lo Zet, appellativi di origine fiamminga e tra questi il più frequente è proprio l’ultimo, il quale in olandese significa il matto, che compare in almeno tre documenti, come pure sulle tele egli, alternava alla firma la sigla NDS con le lettere intrecciate. Il biografo settecentesco lo definiva “ragionevole pittore dei suoi tempi” che lavorava “con studio ed amore” e nel fornirci un piccolo elenco di sue opere, ci racconta che il pittore aveva molto viaggiato all’estero, soprattutto in Spagna e Portogallo, ipotesi che non ha trovato conferme documentali. Il De Dominici elargisce al pittore una breve citazione, a differenza di altri suoi colleghi che la critica odierna ritiene di pari importanza, ai quali dedica una Vita. Originario di Liegi, come si evince nella sua firma, in passato sfuggita alla critica, sotto il Baccanale di collezione privata genovese, de Simone è documentato a Napoli dal 1636 al 1655 e non al 1677 come erroneamente indicato in tanti testi autorevoli, incluso il catalogo sulla Civiltà del '600 e sorprendentemente anche il recente regesto dei dipinti del secolo XVII del museo di Capodimonte.
I suoi esordi sembrano affondare nella cultura tardo manierista dominata dal Corenzio, in seguito egli nei suoi dipinti, oltre al marchio della cerchia falconiana risente dell'influsso del Poussin e del Grechetto, dai quali trae spunto anche per particolari tipi di paesaggio, tematiche preferenziali, fisionomie caratteristiche. Citato saltuariamente nelle antiche fonti e trascurato da studiosi come l'Ortolani che lo definì un "mediocrissimo, manierista ritardatario".
Oggi la critica, grazie ai contributi prima della Novelli Radice e poi, più volte, della Creazzo, conosce più che bene i caratteri distintivi del suo stile pittorico: anatomie sommarie, tipica concitazione delle scene, caratteristico volto delle donne, tutte mediterranee dai pungenti occhi scuri, assenza di profondità spaziale con bruschi passaggi di scala, evidentissimi nel dipinto dell’Educazione della Vergine, folle in preda ad un’intensa agitazione, cieli tempestosi e baluginanti, squisita sensibilità da espressionista nordico, ripetitività nella costruzione dell’impianto generale della scena, personalissima resa cromatica nell’uso di colori stridenti ed incarnati rossicci. Il soggetto testamentario, assieme a quello mitologico, costituisce una parte cospicua nella produzione da cavalletto del de Simone e le opere, oramai numerose, che gli si possono attribuire con certezza restituiscono l'immagine di un artista assai versatile, in stretto rapporto con quel florido mercato che nella prima metà del Seicento favorì la crescita in area napoletana di diversi generi. Le sue composizioni affollate di personaggi in scala ridotta non sfigurano paragonate agli esiti dei migliori specialisti in circolazione. I suoi dipinti tracimano dai contrasti rudi del verace naturalismo meridionale alle ovattate atmosfere neovenete della pittura romana, esaltando il confronto con gli esempi più illustri del Falcone, del Castiglione e del Poussin.
Accenniamo ora ad uno splendido dipinto di grande impatto cromatico: un Sansone e Dalila, presso l'antiquario Orlando Magli a Lecce, il quale presenta caratteri in comune con la pittura del Beinaschi nei toni dorati e nei colori sensuali, nella composizione dal respiro monumentale, nella luce che promana dal fondo a scandire le figure centrali, tra le quali giganteggia quella di Dalila, dal seno poderoso, che si accingere a castrare la forza dell'eroe tagliandogli i capelli. Una importante aggiunta che arricchisce il catalogo dell'artista.

Scritti di storia dell'arte

domenica 13 aprile 2014

Detenuti attori onorano il teatro




Viaggio all’isola di Sakhalin


In occasione della giornata mondiale del teatro, un gruppo di detenuti di Rebibbia ha messo in scena, nella splendida struttura del penitenziario, per i compagni di sventura, presenti i vertici dell’istituto, uno spettacolo avvincente: Viaggio all’isola di Sakhalin, sotteso da una triste metafora sulla quale lo spettatore è indotto a meditare e molti, tra cui il sottoscritto, sono ritornati nel buio delle celle con le lacrime agli occhi.
La compagnia, composta da una trentina di reclusi, tra cui molti ergastolani, si avvale della sapiente regia di Laura Andreini Salerno e di Valentina Esposito e fra qualche mese presenterà il lavoro al Teatro Argentina per tre sere consecutive e si prevede il tutto esaurito.
Dopo un breve saluto del Direttore Mariani al pubblico ed agli ospiti, tra cui in prima fila alcuni magistrati di sorveglianza, si spengono le luci e la prima scena si apre con la lettura di un brano di Chechov riguardante l’ergastolo, scritto negli ultimi anno dell’Ottocento, nel quale il celebre scrittore, che era anche un medico, ritiene che entro qualche decennio tale pena sarà abolita e l’opinione pubblica la guarderà come un orrore del passato al pari della tortura.
Il racconto si svolge tra il freddo polare dell’isola di Sakhalin, nel cuore della Siberia, dove un gruppo di internati è costretto a vivere, privo di ogni rapporto con l’esterno, fino alla morte.
Gradualmente questi infelici non riescono più a percepire i colori, prima vedono solo un bianco abbacinante e poi diventano completamente ciechi.
Chechov, come medico, è incuriosito dallo strano fenomeno, e si reca nell’isola per studiarlo e trovare una terapia per questi derelitti.
Il personaggio è magistralmente interpretato da “Piuma e papero” e usufruirà di un valido assistente: Giovannino, più conosciuto come “O fotografo”.
Si alternano scene dove hanno modo di mettere in mostra la loro bravura tanti detenuti, da Marco “O truffatore” ad Antonio “O napoletano”, da Giuseppe, universalmente conosciuto come “Borzacchiello”, ad Angelo e Vincenzo “L’ergastolano”, ad Emanuele “O quequero”.
Alla fine il medico scrittore scopre che non si tratta di una cecità degli occhi, ma dell’anima: lontani dagli affetti il mondo perde i colori, diventa prima grigio e poi si precipita nel buio più profondo.
Riesce ad ottenere dalla direzione che gli internati possano incontrarsi con i familiari e miracolosamente tutti riacquistano la vista.
Un miracolo dell’amore, in grado di vincere la solitudine e la sofferenza, un messaggio di solidarietà e di pace per tutti gli uomini di buona volontà.











sabato 12 aprile 2014

Dalle regine ai pedoni il fascino degli scacchi



La grande metafora del potere


Nel 1972 il mondo intero assisteva attonito ad un capitolo della guerra fredda: la sfida in Islanda tra l’americano Bobby Fischer ed il russo Boris Spasskij.
I russi da decenni si succedevano sul trono di campioni del mondo di scacchi e la sconfitta contro il genio americano rappresentò un affronto ed umiliazione difficile da digerire. Fischer dichiarava che i movimenti dei pezzi sulle 64 caselle rappresentavano una guerra ed anche se tutti i giochi sono in certa misura un surrogato simbolico della violenza, nessuno più degli scacchi somiglia ad una battaglia svolta a tavolino, con due eserciti contrapposti pronti per l’attacco: i pedoni (la fanteria) in prima linea ed i pezzi pesanti (gli ufficiali) nelle retrovie. 
Ogni scacchiera mostra una società in guerra, per cui i nomi dei pezzi assumono sembianze diverse in India (dove il gioco è nato), in Medio oriente o in Europa.
I giochi da tavolo esistono da oltre 5000 anni, mentre gli scacchi sono più recenti. Nati in oriente, furono poi gli arabi a portarli in Europa, dove alcuni pezzi cambiarono fisionomia per riflettere la società locale. In India, ad esempio, ci sono gli elefanti, mentre in Islam, dove ci sono riserve sulla rappresentazione della figura umana, i pezzi sono astratti, in Europa invece hanno caratteristiche antropomorfe.
I pezzi in passato erano molto più grandi di quelli di oggi, intagliati con zanne di tricheco o denti di balena.
In Europa i pedoni raffiguravano i contadini, che nel medioevo erano carne da macello sui campi di battaglia, mentre i pezzi maggiori erano fortemente caratterizzati: guardie scelte, cavalieri, re autoritari e regine pensose. Il soldato a cavallo è una presenza costante in ogni epoca e paese. Alle estremità si dispongono le torri a presidiare il territorio.
Negli scacchi medioevali la regina non era un pezzo potente, si muoveva solo di una casella, mentre la sua sorella moderna è il pezzo più forte della scacchiera. L’alfiere nei paesi anglosassoni aveva le sembianze di un vescovo, che rappresentava uno dei poteri dello Stato.
Oggi nel mondo i giocatori di scacchi sono centinaia di milioni e tutti i grandi giocatori sono animati da una volontà di combattere ed hanno tutti l’istinto del killer.



mercoledì 9 aprile 2014

L'abuso vergognoso delle perquisizioni





Una delle pratiche più perverse alle quali sono sottoposti i reclusi, con un accanimento degno di miglior causa, sono le perquisizioni delle celle, che avvengono con ritmo incessante al punto da configurare senza ombra di dubbio il reato di stalking.
Nel migliore dei casi, prima delle 8 del mattino, una squadretta di 6-7 guardie penitenziarie si presenta all'improvviso ed invita perentoriamente gli occupanti della cella a svegliarsi, a lasciare la latrina, anche se nel pieno di un improcrastinabile bisogno fisiologico e dopo una perquisizione personale, chiusi a chiave in una saletta dove attendere la fine delle operazioni.
Nessuno può essere presente e qui viene a manifestarsi  la  prima grave irregolarità, perché chi può assicurarci che tendenziosamente non vengano portati dall'esterno corpi di reato: una bustina di droga o una lima, la cui proprietà poi venga contestata ad uno dei detenuti.
In tutti i penitenziari europei, alla stregua di ciò che avviene nel corso di una perquisizione domiciliare autorizzata dal magistrato, è permesso assistere alla stessa e se alla fine viene riscontrata qualche irregolarità, l'interessato può fare le sue osservazioni sul verbale di sequestro.
Un altro palese abuso è costituito dalla possibilità di leggere la corrispondenza conservata dal recluso e qui ci troviamo davanti ad un palese reato previsto e punito dal codice penale.
Infine, e questo è l'aspetto più inquietante, al ritorno nella cella, il più delle volte, il detenuto trova i suoi  effetti personali sparpagliati sul letto se non a terra e deve a fatica cercare di rimettere a posto cose a cui tiene tantissimo: foto dei familiari, lettere, appunti, vestiti, generi alimentari.
Lo spazio fisico riservato ad ognuno è come sappiamo limitatissimo ed ancor più ridotto è quello dove riporre il necessario per sopravvivere: angusti armadietti con capienza limitata, per cui ci si arrangia conservando in scatoloni posti sulle bilancette ciò che materialmente non trova spazio negli armadietti.
Capita di frequente di trovare a terra tutto ciò che è contenuto in questi pietosi scatoloni, che vengono sequestrati e buttati nella spazzatura con minaccia di sanzioni disciplinari, che spesso fanno bollire di rabbia e per non reagire è necessaria una pazienza superiore a quella di quella di Giobbe.

Il crepuscolo dei diritti e della dignità umana

martedì 8 aprile 2014

La cucina napoletana dall’antichità ad oggi

Totò nel film Miseria e nobiltà
Giovan Battista del Tufo, del 1588. Tra gli ingredienti principali abbondano frutta e verdura, particolarmente i broccoli, che sono conditi con sarde, soffritto d’aglio, e succo di limone. 
Vi è stato un tempo che si mangiava per vivere, poi un lungo periodo in cui si viveva per mangiare. Una volta il simbolo del male era il diavolo, oggi è il grasso. Una fetta di salame paesano incute più timore di satana. Ma sugna, lardo, panna e insaccati continuano per molti a costituire un’attrazione fatale.
L’organizzazione mondiale della sanità li ha da tempo messi a bando, imponendo un codice etico basato sulle regole della dietetica. Un recente articolo comparso su un’autorevole rivista medica “grassi saturi, allarme poco chiaro” lascia un margine di speranza che finalmente la scienza possa sdoganare le gioie della gola,mettendo finalmente a tacere salutisti, bacchettoni e puritani della dietetica.
Peccato però che l’articolo in realtà conceda poco e niente alle aspettative del popolo gourmet. Anzi sin dalle prime righe appare chiaro che è il caso di mettersela via e patteggiare subito con il nutrizionista. Rassegnandosi a quel regime di semilibertà alimentare in cui versano ormai i cittadini dell’Occidente opulento. Evidentemente il mito della cuccagna è ancora vivo in noi. Ma altrettanto vivi sono i sensi di colpa che accompagnano i nostri desideri e i nostri piaceri. Insomma la tavola è più che mai il gran teatro della lotta fra bene e male.
Abbiamo già dedicato svariati capitoli all’argomento che invitiamo a consultare in rete, ma ora intendiamo fare una carellata attraverso i secoli, partendo dall’antichità per giungere ai nostri giorni, quando i piatti tradizionali si trovano a dover competere con i prodotti sfornati a getto continuo dagli ubiquitari fast food.
CFR-I Tomo-Napoletanità, arte miti e riti a Napoli La veritiera storia della sfogliatella pag.11-13 La cucina dai mille sapori – pag.164-168
III e IV-Tomo-Il trionfo della pizzaLa civiltà del caffèL’elogio del pomodoroLasagne, vino e chiacchiere. Il cibo dei napoletani: Il pesce  - dal Gambrinus al caffè del Professore.

Napoli: Un negozio di prodotti tipici
La mozzarella di bufala campana è il latticino più tipico della Campania

La pucchiacchella, pianta spontanea, una volta venduta come insalata insieme alla rucola da ortolani ambulanti.

Il Pomodorino vesuviano

Un fascio di friarielli, tipica verdura napoletana


Non è sempre facile ritrovare riferimenti diretti alla tradizione culinaria del periodo greco-romano. Tra le tracce dei gusti culinari classici, diversi piatti di fattura greca raffigurano pesci e molluschi, segno del consumo di piatti di mare in quell’epoca. In diversi affreschi pompeiani sono rappresentati cesti di frutta (fichi, melograni), mentre nella villa di Poppea ad Oplontis è dipinto un dolce, di cui non è dato conoscere gli ingredienti.
La cucina napoletana ha antichissime radici storiche che risalgono al periodo greco-romano e si è arricchita nei secoli con l’influsso delle differenti culture che si sono susseguite durante le varie dominazioni della città e del territorio circostante. Importantissimo è stato l’apporto della fantasia e creatività dei napoletani nella varietà di piatti e ricette oggi presenti nella cultura culinaria partenopea.
In quanto capitale del regno, la cucina di Napoli ha acquisito anche parte delle tradizioni culinarie dell’intera Campania, raggiungendo un giusto equilibrio tra piatti di terra (pasta, verdure, latticini) e piatti di mare (pesce, crostacei, molluschi).
A seguito delle varie dominazioni, principalmente quella francese e quella spagnola, si è delineata la separazione tra una cucina aristocratica ed una popolare. La prima, caratterizzata da piatti elaborati e di ispirazione internazionale, sostanziosi e preparati con ingredienti ricchi, come i timballi o il sartù di riso, mentre la seconda legata ad ingredienti della terra: cereali, legumi, verdure, come la popolarissima pasta e fagioli. A seguito delle rielaborazioni avvenute durante i secoli, e della contaminazione con la cultura culinaria più nobile, la cucina napoletana possiede ora una gamma vastissima di pietanze, tra le quali spesso anche preparate con gli ingredienti più semplici risultano estremamente raffinate.
Nonostante le contaminazioni avvenute durante i secoli, compreso quello appena trascorso, la cucina napoletana conserva tutt’oggi un repertorio di piatti, ingredienti e preparazioni che ne caratterizzano una identità inconfondibile.
Si può far probabilmente risalire al garum romano la colatura d’alici tipica di Cetara, ed è forse una reminiscenza del gusto agrodolce tipico della cucina di Apicio e degli antichi romani l’uso di condire diversi piatti salati con l’uva passa, come nella pizza di scarole, o le braciole al ragù. Dal latino ex Apicio potrebbe provenire il termine scapece, un modo tipico di preparare le zucchine con aceto e menta.
Anche l’impiego del grano nella pastiera, dolce tipico di Pasqua, potrebbe avere un valore simbolico legato ai culti di Cecere ed ai riti pagani di fertilità celebrati nel periodo dell’equinozio di primavera, Da vocabolo greco otooyyuaoc, strongylos.
Che significa “di forma tondeggiante” prendono il nome di struffoli natalizi. Ed il nome della pizza, infine, deriva probabilmente da pinsa, participio passato del verbo latino pinsere, che vuol dire schiacciare.
Lucullo aveva una splendida villa a Napoli, tra il monte Echia, oggi Pizzofalcone, e l’isolotto di Megaride, dove oggi si trova il Castel dell’Ovo. La villa era circondata dal mare, e nelle sue adiacenze Lucullo vi aveva fatto costruire vasche per l’allevamento di pesci, in particolare murene, che erano ingredienti pei i sontuosi banchetti organizzati dal padrone di casa che resero la villa celebre. Da questi banchetti ebbe origine l’aggettivo luculliano, per indicare una cena molto abbondante e deliziosa.

Napoli: Una pescheria
Piatto greco con pesci, probabilmente atto a contenere portate di mare (Altes Museum, Berlino).
Provenienza: Magna Grecia.

Pesci in un mosaico di Pompei. Provenienza: Museo archeologico di Napoli.

Il primo libro di cucina italiano è stato scritto a Napoli all’inizio del trecento dal cortigiano di Carlo II D’Angiò:  liber de coquina. Esso riporta ricette di varie provenienze in rappresentanza di un gusto francese al napoletano e dedica particolare attenzione ai piatti a base di legumi.
La cucina napoletana di fine Cinquecento è documentata dal Ritratto di Napoli di Giovan Battista del Tufo, del 1588. Tra gli ingredienti principali abbondano frutta e verdura, particolarmente i broccoli, che sono conditi con sarde, soffritto d’aglio, e succo di limone. Anche il pesce era molto diffuso, e la carne era preparata prevalentemente con ingredienti agrodolci, quali prugne, aglio, uva passa e pinoli, mandorle e cannella. Erano diffusi i latticini, paste di varia fattura e molti dei vini ancora oggi prodotti, quali l’Aglianico, il Fiano, l’Asprinio.
Napoli diventa celebre per i suoi piatti raffinati, mentre nei mercati i cibi sono esposti in spettacolari trionfi ornati di fiori, soprattutto il pescato colorato e guizzante.
Migliora anche l’approvvigionamento quotidiano di cibarie che giungono velocemente dalle campagne limitrofe.
Nel Seicento i napoletani lentamente si trasformano da mangiafoglie a mangia maccheroni e la pasta viene lavorata in varie trafilature, nascono cosi’: ziti, vermicelli e paccari.
Nel Seicento la fame affligge la plebe, e l’albero della cuccagna, con premi in pane, formaggio, salumi e carne diventa l’evento piu’ importante delle feste che la nobiltà concede al popolo più povero: festa farina e forca erano gli elementi principali su cui si fondava il governo dell’epoca. Tra il Cinquecento ed il Seicento i gusti culinari cambiano con il diffondersi dei prodotti importati dall’America: pomodoro, patate, peperoni, cacao, il tacchino e si va via via perdendo il gusto per i piatti agrodolci.
Nel Settecento l’influsso della cultura francese si comincia a diffondere in tutta Europa e presso la corte dei Borbone molti piatti tipici prendono il nome da una radice transalpina, come il ragù (da ragout), il gattò (da gateau), i crocchè (da croquettes). Tale tendenza ci viene confermata da Vincenzo Corrado nel suo libro Il cuoco galante.
Napoli diventa luogo di confronto delle più celebri cucine europee dopo il matrimonio di Ferdinando IV di Borbone con Maria Carolina d’Austria, che fa arrivare a corte cuochi francesi (monsieurs), imitata dall’aristocrazia e dalla ricca borghesia.



Un affresco di Pompei con un'aragosta e diversi molluschi,
 già ingredienti della cucina romana. Provenienza: Museo archeologico di Napoli.

Un affresco di Pompei con frutta, che può suggerirci alcuni dei gusti a tavola degli antichi romani.
Provenienza: museo archeologico di Napoli.

Pagnotta carbonizzata ritrovata a Pompei (Museo archeologico di Napoli)


Nell’Ottocento alcuni piatti tipici della tradizione locale diventano il veicolo che diffonde l’immagine di Napoli in Europa, attraverso la miriade di letterati e cronisti che includono la città come tappa d’obbligo del Gran Tour, mentre diventano celebri alcune figure come il maccaronaro, il maruzzaro, il sorbettaro, l’acquaiolo, l’ostricaro ed il franfellicaro, immortalati in dipinti, acquerelli ed incisioni.
Nel 1833 Ferdinando II di Borbone inaugura il primo stabilimento per la fabbricazione industriale della pasta.
Nel 1837 Ippolito Cavalcanti, Duca di Buonvicino pubblica la Cucina teorico-pratica, che avrà molte edizioni e nella quale compare per la prima volta la ricetta del ragù.
Nel frattempo Matilde Serao nel duo Ventre di Napoli descrive alcune ricette popolari come la zuppa di ma ruzze ed il brodo di polpo.
Nel Novecento vi sono molti cambiamenti nel costume che incidono anche sull’alimentazione.
Dopo il boom economico e lo sviluppo delle comunicazioni, comincia un periodo di contaminazione con altre cucine italiane ed internazionali. Ma, mentre sbarca anche a Napoli McDonald’s, e i cibi precotti abbondano nei supermercati, viene rivalutata dai nutrizionisti, su basi scientifiche, l’importanza della dieta mediterranea, di cui la cucina napoletana tradizionale, con abbondanza di carboidrati, verdure, pesce ed olio d’oliva, puo’ essere considerata uno dei migliori esempi.
Il Novecento è anche il secolo della diffusione su scala mondiale dei più famosi piatti della cucina napoletana, come gli spaghetti e la pizza, anche con alcune varianti, che si ripercuotono di riflesso anche a Napoli, dove alcune pizzerie cominciano a servire pizze con l’ananas, una vera bestemmia.
Nel nuovo millennio, continua la contaminazione della cucina napoletana, come l’uso del crudo di pesce, versione napoletana del sushi giapponese, insieme alla riscoperta e rivalutazione di piatti e ingredienti tipici. Diverse catene di ristorazione propongono esclusivamente cucina napoletana con diffusione nazionale ed internazionale.
Passiamo a trattare dei principali capisaldi della cucina napoletana.
Esiste una grande varietà di pasta napoletana. Nella cucina napoletana è molto diffusa la pasta di semola di grano duro, di produzione industriale, rispetto alle paste di casa, che sono molto più diffuse nell’entroterra campano ed in altre regioni d’Italia. La produzione su larga scala della pasta del napoletano risale almeno al XVI secolo, quando a Gragnano si trovavano le condizioni ideali per essiccarla e conservarla. A Napoli sono considerati molto importanti anche i tempi di cottura della pasta, che deve essere ben “al dente”, in particolare se deve essere successivamente mantecata in padella.
Tra le varietà più diffuse vi sono, oltre a quelle classiche, come spaghetti, linguine e bucatini, anche i formati tipici locali, come paccheri e gli ziti, che tradizionalmente vengono spezzati a mano, prima di essere cotti e conditi con il ragù. Per la preparazione di pasta con i legumi viene usata anche la pasta mista (pasta ammescata), una volta venduta a prezzo più basso perché risultante dai rimasugli spezzati degli altri formati, ma oggi venduta come formato a sé stante. Da non trascurare sono gli gnocchi, preparati con farina e patate. Vi sono anche formati meno tradizionali, ma oggi molto diffusi, tra i quali gli scialatielli.
Il pomodoro, originario dell’America, fu importato in Europa dagli spagnoli nel XVI secolo, ma venne ignorato dal punto di vista alimentare per circa due secoli. Solo tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX secolo la salsa di pomodoro divenne comune a molte ricette, e la sua coltivazione si diffuse fino a diventare una delle piu’ importanti della Campania. Tra le varietà più famose a Napoli vi è il pomodoro Sanmarzano, quasi estinto alla fine del XX secolo e recentemente recuperato alle coltivazioni, ed il pomodorino vesuviano che si conserva a lungo raccolto a grappolo da appendere fuori al balcone (‘o piennolo).
A Napoli è sorta l’industria conserviera che ha portato in tutto il mondo i celebri “pelati” e il “concentrato” di pomodoro. Molti sono poi i metodi casalinghi di conservarlo, dai pomodori in bottiglia, fatti a pezzi oppure passati per essere sempre pronti agli usi più vari, alla famosa “conserva” in cui il pomodoro viene stracotto e concentrato fino a diventare una crema scura e vellutata.
I piatti a base degli ortaggi dell’agro campano, come la parmigiana di melanzane o i peperoni ripieni, possono diventare veri e propri protagonisti della tavola. Tra i prodotti più tipici vanno ricordati i friarielli, la scarola liscia o riccia, diverse varietà di broccoli, la verza, le verdure da minestra,e le puntarelle. Diffusissimi sono tutti i tipi di legumi.
Le zucchine sono ampiamente utilizzate; le più grandi vanno preparate a scapece, fritte e condite con l’aceto e la menta. I fiori maschili delle zucchine si possono preparare fritti in pastella: sono ottimi succedanei dei sciurilli, che sono i fiori di zucca. I germogli raccolti dalle piante di zucchine in tarda estate, dopo la fase di produzione, vengono chiamati talli, e sono ingredienti di ottime zuppe oppure vanno soffritti in padella. Tra le cucurbitacee ha diffusione locale la zucchetta di pergola o zucchetta del prete, dal gusto delicato, ottima con la pasta o a zuppa con pomodorini.
Lazzaro napoletano che mangia maccheroni. Incisione datata 1690,
 una delle prime rappresentazioni di questo soggetto, accompagnata dalla scritta "Mangia bene".


Bartolomeo Pinelli (1781–1835), Lazzari napoletani che mangiano maccheroni. Incisione

Litografia tratta da un originale di Teodoro Duclère (1816–1869), intitolata "Il tavernaio"

Oltre ai normali peperoni di grosse dimensioni, rossi e gialli, tipici sono i peperoncini verdi dolci, che si preparano fritti. I carciofi più pregiati sono le cosiddette mammarelle, grandi, tondeggianti e con le estremità delle foglie violacee. Sono ideali per essere gustate semplicemente lesse con un pinzimonio di olio extravergine. L’insalata accompagna molti piatti, specialmente quelli a base di pesce. Più spesso della lattuga viene impiegata l’incappucciata (simile a quella che oggi viene chiamata iceberg), più croccante, che viene mescolata anche a carote, finocchio, rucola, che una volta veniva raccolta spontanea nelle campagne e venduta dagli ambulanti insieme alla meno nobile pucchiacchella, e ravanelli, tradizionalmente quelli lunghi e più piccanti, oggi sempre più rari e quasi completamente sostituiti da quelli tondi più dolci. L’insalata di pomodori primeggia nel periodo estivo.
Presenza importante nella cucina napoletana e campana sono i latticini, la cui storia è documentata da tempi antichissimi. Tra questi sono molto importanti le produzioni di latticini in pasta filata, come il fiordilatte, provola e mozzarella. La mozzarella di bufala, in particolare, viene citata per la prima volta con il nome mozzarella nel 1570 da Bartolomeo Scappi ma ha origini sicuramente più antiche.
Tra i formaggi più famosi ricordiamo: la ricotta, fresca e salata, la caciottella, la mozzarella di bufala, la scamorza, il fiodilatte, la provola ed i caciocavalli.
Tutto il pesce del Tirreno è abbondantemente presente nella cucina napoletana. Molto apprezzati sono anche i pesci meno pregiati e più economici, tra i quali soprattutto le alici ed il pesce azzurro in generale. Ottimo è il pesce per la zuppa: scorfani, tracine, cuoccu, così come pesci di media e grande taglia, tra i quali le spigole e orate, ormai venduti prevalentemente da itticoltura, o come dentici, saraghi e pezzogne. Anche pesci di piccolissimo taglio sono usati:
- I cicenielli, novellame di pesce azzurro, piccolissimi e trasparenti, cotti lessi o fritti con la pastella.
- I fravagli, lunghi pochi centimetri, principalmente di triglia o retunni, da passare nella farina e friggere rapidamente.
Il baccalà, importato dai mari del nord Europa, è anche un ingrediente che fa parte della tradizione, e viene preparato fritto o anche con le patate e pomodoro.
Tra i cefalopodi molto consumati sono polpi, seppie e calamari.
I frutti di mare: cozze, cannolicchi, tartufi, casolari, telline sono a volte consumati anche crudi.


Giorgio Sommer (1834-1914), "Napoli - Fabbrica di maccheroni".
Fotografia colorita a mano. Numero di catalogo: 6204.


Giorgio Sommer (1834–1914): Mangiatori di spaghetti, precedente al 1886. Foto numerata n.1444.
continua

Un inedito siglato di Giorgio Garri

fig. 1

Nella schiera degli specialisti minori impegnati a Napoli nel settore della natura morta va collocato Giorgio Garri (Napoli? – 1731), del quale la più antica testimonianza ci è fornita dal De Dominici, che lo segnala nella bottega di Nicola Casissa, per quanto fosse suo coetaneo.  Il biografo tiene a sottolineare l’abilità dell’artista nel dipingere fiori e frutta, imitando lo stile non solo del suo maestro, ma anche del sommo Belvedere e ci racconta che egli lavorava con studio e con amore, morendo nel 1731 dopo aver perso la vista.
Anche Giorgio appartiene ad una famiglia di generisti, infatti suo fratello Giovanni fu “buon pittore di marine e paesi” e la figliola Colomba brava nel realizzare “fiori e pescagione ed anche cose dolci, seccamenti, cose da cucina e sul finir dell’attività anche vedute di città in prospettiva”. A sua volta Colomba aveva sposato il pittore ornamentista Tommaso Castellano ed anche le sue figlie Ruffina, Apollonia e Bibiana furono avviate al disegno ed ai pennelli con un mediocre successo.
Causa nella sua esegesi sulla natura morta napoletana del 1972 mostra di non conoscerlo, anche se una mezza figura di donna era comparsa  sul giornale Les Arts del febbraio 1907 ed un suo quadro era registrato nel 1747 nell’inventario del principe di Scilla Guglielmo Ruffo.   La ricostruzione della sua personalità è merito del Salerno, che nel 1984 ha pubblicato un suo dipinto di grosse dimensioni transitato sul mercato e firmato per esteso, raffigurante una Donna ed altre figure in un giardino (fig. 1) da collocare nell’ambito del decorativismo di ascendenza giordanesca.
Nel 1990 presso la Finarte di Milano è stata aggiudicata una coppia di dipinti raffiguranti: Giardino di delizie con fontane, fiori, frutta e Giardino di delizie con fontane, fiori, frutta, uccelli e figure (figg. 2 - 3), che, per quanto non firmata, richiama a viva voce il quadro reso noto dal Salerno.
Infine un’altra opera del Garri si trovava nella pinacoteca D’Errico  ed oggi nel museo di Matera, si tratta di una Natura morta con cocomero, mele cotogne, uva e lazzeruoli con sfondo di paesaggio (fig. 4), firmata Giorgio Garri, che ci rivela come il pittore, si fosse orientato a seguire i modi pittorici di Giovan Battista Ruoppolo.

fig. 2

fig. 3

fig. 4

Probabilmente la tela proviene dalla collezione del principe Ruffo, nel cui inventario redatto nel 1748 dopo la morte del nobile da Rogadeo di Torre di Torrequadra sono menzionate due tele del Garri, una delle quali risponde come soggetto a quella già D’Errico, anche se con misure diverse, a dimostrazione forse di una replica seriale dei dipinti più riusciti: “due quadri compagni originali di Garri, uno rappresenta mezzo melone d’acqua e tre cotogni, azaroli rossi e bianchi et una pigna d’uva, l’altro quattro granati, mela et uva, colla cornice indorata di palmi 3 e 2 e mezzo”.
“ Il sottile realismo con cui l’artista dipinge i frutti accuratamente ricercati, il modo di lumeggiare i viticci attorcigliati, toccati da una lieve brezza, le preziosità materiche ravvisabile nella cromia vibrante e soprattutto l’ambientazione all’aperto della scena, immersa in una luce densa e fonda”, ci permettono di apprezzare un pittore le cui opere andranno ricercate con più attenzione nel mare magnum delle tante nature morte di autore ignoto o sotto le più diverse attribuzioni.
Infine molto interessanti le due Composizioni monumentali di frutta e fiori con figure (figg. 5 - 6) dell’antiquario Tornabuoni di Firenze. Esse presentano alcuni putti e prosperose fanciulle immersi nell’atmosfera arcadica di un giardino patrizio con statue di gusto classico, fontane zampillanti e preziosi vasi baccellati coronati da vaporose ghirlande di fiori e frutti multicolori, mentre all’orizzonte si intravedono alti obelischi in una selva di cipressi. Avvicinate alla produzione di Aniello Ascione e ad uno specialista giordanesco per le figure, noi riteniamo, per palmari somiglianze con alcuni dipinti del Garri (figg. 2 - 3) di poter attribuire a quest’ultimo i due pendant, mentre per la discinta fanciulla e per i putti pensiamo al pennello di Paolo De Matteis o di un suo stretto collaboratore. 
Di recente in una nobile famiglia napoletana ho avuto modo di identificare una splendida natura morta del Garri, siglata "G.G.", raffigurante al centro della composizione delle melograne eseguite con grande abilità ed un vivo cromatismo al punto di stimolare l'appetito dell'osservatore e sovrapponibile ad altre presenti in dipinti certi dell'autore (figg. 7 – 10)
Un importante aggiunta al catalogo dell'artista, che merita di essere conosciuto ed apprezzato non solo da pochi specialisti, ma da tutti gli appassionati dell'arte.

fig. 5

fig. 6

fig. 7

Bibliografia
De Dominici B. - Vite de pittori, scultori ed architetti napoletani 1742 – 45 (ristampa anastatica del 1979), pag. 575 - 576  - Napoli 1742 – 45
Rogadeo di Torrequadra  E. - La quadreria del principe di Scilla, in Napoli nobilissima, VII,  pag. 108 – Napoli 1898
AA.VV. in Thieme U. – Becker F., vol. XIII, ad vocem, pag. 216 – 217 – Lipsia 1920
Giannone O. – Giunte sulle vite de’ pittori  napoletani(a cura di Morisani O.), pag. 189 – Napoli 1941
Prota Giurleo U. – Pittori napoletani del Seicento, pag. 33 – Napoli 1953
Causa R. – La natura morta a Napoli nei Sei e nel Settecento, in Storia di Napoli, V, tomo 2,  pag. 1053, nota 113 – Cava de Tirreni 1972
Salerno L. – La natura morta italiana 1560 - 1805, pag. 254, fig. 68.1 – Roma 1984
Tecce A.  – in La Natura morta, II, pag. 950, fig. 1154 – Milano 1989
Galante L. - in La Natura morta, II, pag. 980, fig. 1199 – Milano 1989
Galante L. – I dipinti della collezione D’Errico, pag. 262 - 263, fig. 182 – Galatina 1992
Capobianco F. – Garri Giorgio in Saur Allgemeines Kunstlerlexicon, pag. 432 - 2006
Sansone E. - in Splendori del Barocco defilato(catalogo), pag. 138 – 242 – 2009
della Ragione A - La natura morta napoletana del Settecento, pag. 70 – 71 – 72, fig. 86,  tav. 172 – 173 – 174 – 197 – 198 -  Napoli 2010
fig. 8

fig. 9

fig. 10


LA SEZIONE DI ARTE MODERNA DEI MUSEI VATICANI

un mirabile connubio tra impressionismo, cubismo e cristianità.


Bernard Buffet: Il battesimo di Cristo (1961)

Dopo essere rimasti in estasi davanti alle stanze di Raffaello ed il capolavoro della Cappella Sistina, entrare nella sezione di arte religiosa moderna dei musei vaticani provoca sconcerto e stupore per la improvvisa discontinuità nell'espressione artistica. Soltanto dopo il visitatore percepirà che questi dipinti fanno parte di un vasto progetto culturale che ha per oggetto il dialogo della Chiesa con la modernità scaturito dal concilio Vaticano II. Nella sua storia due volte millenaria il rapporto della chiesa con le arti è stato fecondo e fruttuoso. Tutto quello che è possibile vedere attraversando i musei vaticani; Raffaello nelle stanze e Michelangelo alla Sistina, i sarcofagi paleocristiani e il Beato Angelico, Botticelli e Caravaggio; è gloriosa dimostrazione di quella felice alleanza plurisecolare. Per gran parte del suo percorso la storia dell'arte in Occidente è la storia di un equilibrio mirabile fra autonomia e libertà espressiva degli autori e valori spirituali, dottrinali e politici di una religione che si affidata alle figure per dare efficacia al suo messaggio. Mi pare che il bisogno di realtà, di fisicità nella cultura cristiana sia sempre vivissimo. Se io penso che per ricomporre l'universo nella sua totalità e giustizia, Dio ha detto che l'anima riprenderà il suo corpo solo quando, dopo la pausa che intercorre dalle innumerevoli morti particolari al giudizio universale, l'uomo riacquisterà la sua completa realtà, alla sua esatta conferma.
Ma il demonio con il nostro consenso e aiuto, ha capovolto questo bisogno di realtà fisica da lucente in oscuro e perverso: in peccato. Così facendo ci siamo poi messi di fronte alla incompletezza del nostro considerare l'uomo solo materia. La morte ci ha lasciato il suo terribile interrogativo tra le  mani. E per esempio, non conosco scrittore marxista che abbia risolto per sé e per gli altri uomini questo interrogativo, a meno che non l'abbia scavalcato o dimenticato. Ma la sua allora è una pace provvisoria, una tregua. Tutta la Bibbia, tutto il Nuovo e Vecchio testamento, e, quel che più conta, tutta l’Apocalisse parla per realtà: il loro discorso si muove per via di immagini fisiche. Quando Giovanni ha la visione della fine del mondo è esplicito: "... e scese fuoco dal Cielo e li divorò. E il diavolo loro seduttore fu gettato nello stagno di fuoco ... e vidi un gran trono bianco e quelli che c'erano seduti sopra ... ". Ma anche venendo avanti nella storia, è un continuo esempio di realizzazione fisica dello spirito che la cultura cristiana ci offre, ben sapendo come sapeva che la condizione fisica dell'uomo è invalicabile. Quando la Chiesa cercava di darsi uno stile si attestava su quelli più tradizionali e consolatori, ora affidandosi a forme di generico spiritualismo, ora tentando nostalgici revival neoprimitivi, ora (è il fenomeno di cui tutti ai nostri giorni siamo testimoni) aprendosi alle forme di un caotico eclettismo che cerca di tenere insieme astrazione e figura, novità e tradizione, liturgia e funzione, segno e messaggio.
Per decenni i tesori di spiritualità del cristianesimo sembravano dissertare il mondo dell’arte. 
Nei tardi anni Cinquanta, sotto Pio XII cominciarono ad entrare nei Musei Vaticani Rouault, Morandi, Carrà, De Pisis, Rodin, De Chirico.
Partendo da quelle premesse più di trent’anni dopo, nel discorso agli artisti tenuto nella Cappella Sistina il 7 maggio 1964, Paolo VI elabora e propone una dottrina estetica che rimarrà una delle pagine più alte nella storia del cattolicesimo novecentesco. 
Partendo dalla consapevolezza della frattura fra la Chiesa e il mondo delle arti e offrendo le condizioni per un nuovo statuto di amicizia, il papa afferma la libertà dell' artista e il rispetto per la forza innovativa dei linguaggi espressivi; e lo fa con parole di dura, radicale critica nei confronti dell’istituzione da lui rappresentata: «Vi abbiamo imposto come canone primo l’imitazione, a voi che siete e creatori, sempre vivaci [...], di mille idee e di mille novità [...]. Vi abbiamo peggio trattati, siamo ricorsi ai surrogati, all’ oleografia, all’opera d’arte di pochi pregi e di poca spesa [...] e siamo andati anche noi) per vicoli traversi, dove l'arte e la bellezza e - ciò che è peggio per noi - il culto di a Dio sono stati mal serviti». E ancora ritorna, papa Paolo VI, sulla "missione" dell’artista chiamato a rendere visibile, nella pienezza della sua libertà espressiva e quindi nell'esercizio della sua responsabilità di creatore, ciò che è trascendente, inesprimibile, "ineffabile". 
Più tardi, nel 1973, nel discorso di inaugurazione del Museo di Arte religiosa moderna, Paolo VI afferma ulteriormente la sua riflessione distinguendo fra arte sacra e arte religiosa. Se la prima ha una precisa connotazione di ruolo e di funzione perché è destinata a qualificare il culto divino, la seconda offre all'artista uno spettro di possibilità creative virtualmente infinito. Tutto ciò che esprime l'umana spiritualità (stupore di fronte al miracolo della natura, culto degli affetti, ascolto e riflessione di fronte ai supremi interrogativi della vita, della morte, dell'assoluto e dell’altrove) può essere argomento di arte religiosa. 
La collezione che quel giorno di giugno del 1973 papa Paolo VI consegnava alla gestione dei Musei Vaticani, dopo averla personalmente e amorosamente costruita insieme al suo segretario monsignor Pasquale Macchi, era destinata a testimoniare la religiosità presente nell’arte moderna e contemporanea, ora affidata a iconografie tradizionali (crocifissioni, natività ecc.) ora sottesa a soggetti secolari quali paesaggi, nature morte, ritratti, composizioni informali. 
Partendo dal riconoscimento della religiosità immanente alle forme figurative della modernità sarebbe stato possibile - era questo il pensiero ultimo di Paolo VI - avviare la ricomposizione del divorzio fra Chiesa e artisti .
E grazie a questa illuminata apertura alla modernità il visitatore dei Musei Vaticani ha la sensazione di vivere nel suo tempo.

Salvador Dalì:  Crocefissione (1954)
Marc Chaghal:  Cristo e il suo pittore (1951)
Vincent Van Gogh:  Pietà (1890)