mercoledì 30 dicembre 2015

Una interessante aggiunta al catalogo di Antonio De Bellis


01 - De Bellis - Angelo custode

Antonio De Bellis è, tra gli allievi di Stanzione, una figura fino a trenta anni fa quasi sconosciuta alla critica e della quale non possediamo alcun dato biografico certo, essendosi dimostrato mendace il referto dedominiciano della data di morte. Egli si staglia prepotentemente tra i più alti pittori del Seicento non solo «nostro» ma italiano. Un altro dei grandi del nuovo naturalismo napoletano, che medita ed opera, inizialmente, tra il Maestro degli annunci e Guarino, per poi virare verso Stanzione ed il Cavallino pittoricista.
Un artista minore nel limbo dei provinciali orbitanti nell’universo stanzionesco? Troppo ricco è il panorama della pittura napoletana di questi anni per poter assurgere ad una posizione di preminenza, ma per De Bellis, alla luce delle recenti scoperte del De Vito e di Spinosa, si deve almeno parlare di un   minore di lusso.
A conferma dell’autografia e come guida per la collocazione cronologica, vi è in molti dipinti il particolare curioso che l’artista, al pari del Cavallino, ha la civetteria di auto ritrarsi più volte e nelle fogge più disparate, con tratti somatici che variano con lo scorrere implacabile degli anni.
Le stringenti affinità che intercorrono nella scelta delle soluzioni compositive e nella tipologia dei personaggi raffigurati, e le notevoli analogie con la Natività firmata Bartolomeo Bassante del Prado, avevano indotto il Prohaska a trasferire a questo autore una grossa parte della produzione del De Bellis.
L’identificazione della sigla «ADB» su di una roccia nel dipinto Lot e le figlie, oggi a Milano presso la Compagnia di Belle Arti, ha fugato ogni dubbio ed ha permesso di assegnare definitivamente al nostro artista tutto quel gruppo di opere che il Prohaska riteneva di Bartolomeo Bassante.
Un interessante inedito di grande qualità va ad incrementare il catalogo di Antonio De Bellis: un Angelo custode (fig.1) conservato in una collezione privata di Modena, che richiama a viva voce la sua autografia grazie a calzanti confronti con opere certe dell’artista.
Il primo termine di paragone è costituito dal San Sebastiano curato dalle pie donne (fig.2) del museè des Beaux Arts di Lione, con il quale condivide il mantello, identico non solo nel colore, ma anche nell’eleganza con cui sono definite le pieghe (fig.3).
Il secondo raffronto va istituito, soprattutto per il volto sovrapponibile, con un’Immacolata Concezione (fig.4) conservata nella seconda cappella a sinistra dell’ingresso nella chiesa napoletana di San Carlo alle mortelle, dove si trova il più importante ciclo di dipinti del De Bellis, che furono oggetto di uno studio approfondito da parte di Raffaello Causa nel suo monumentale saggio sulla pittura napoletana seicentesca, pubblicato nel 1972 nel V tomo della Storia di Napoli.
Lo studioso annusò nel De Bellis la stoffa del pittore di razza, «sivigliano» a metà strada tra il Velázquez e lo Zurbaran delle Storie di San Bonaventura. Egli esaminò i quadri della serie carolina con le storie del santo, nella chiesa dei Barnabiti di San Carlo alle Mortelle e pensò, sulla falsariga del racconto dedominiciano, che i dipinti fossero stati realizzati durante la peste, per il crudo realismo di alcune scene quasi da reportage fotografico e per la constatazione di alcune tele lasciate incompiute: «non tutti siano di una stessa perfezione, perciocché, alcuni di essi non furono terminati ma dipinti alla prima, così restarono per sua immatura morte» (De Dominici). Il Causa ritenne di grande livello il San Carlo che comunica gli appestati e il San Carlo che visita gli infermi. Stupendi brani di pittura tra i documenti più icastici della peste e tali da poter gareggiare con i celebri bozzetti del Preti eseguiti per le porte della città. «Una figura, un ritratto, un gioco compositivo che rivela l’indipendente di gran classe, punto zenitale di una continuità di grande cultura locale» (Causa).
L’iconografia della serie è nuova ed originale ed alcuni episodi sono stati interpretati solo grazie al contributo conoscitivo che fornì Boris Ulianich, indiscusso pontefice degli studi agiografici. Alcune immagini sono straordinarie e soffuse da una struggente aria di malinconia e di tristezza, come il San Carlo in preghiera con una caterva di cadaveri alle spalle, che rendeva ridicolo al confronto l’analogo soggetto «caramelloso e azzimato», dipinto quarant’anni prima dalla pittrice Fede Galizia per l’altare maggiore. E che dire del dipinto ove il santo dà in carità il suo oro per sfamare i poveri, nel quale «il ritratto del prelato col sacchetto di scudi d’oro entra a buon diritto tra i personaggi più incisivi della pittura seicentesca» (Causa).
La meteora del De Bellis sembrava che dovesse sparire in un attimo nei giorni tumultuosi dell’epidemia, ma il rinvenimento di alcune sue opere siglate e collocabili con certezza agli anni successivi alla peste, tra il 1657 e il 1658, ci hanno dato la certezza che l’artista aveva continuato a lavorare.
Il Bologna, sulla base di considerazioni stilistiche, aveva già da tempo predatato di un ventennio il ciclo carolino, che in seguito, grazie a dei documenti reperiti dal De Vito presso l’archivio dei padri Barnabiti di Milano, ha trovato una definitiva collocazione cronologica agli anni 1636-39.
La formazione del De Bellis viene spostata quindi alla metà degli anni Trenta, con un percorso del tutto affine a quello seguito dal Cavallino, del quale è probabilmente coetaneo. In seguito dopo le esperienze vigorosamente naturaliste, negli anni Quaranta sulla guida delle soluzioni di brillante e luminoso pittoricismo del Grechetto e del Poussin giunse a risultati di così alta eleganza formale e ricercatezza cromatica da essere a lungo, nelle sue opere migliori, confuso con Cavallino.
La tela in esame va di conseguenza collocata cronologicamente intorno agli anni Quaranta, un momento felice nel suo percorso artistico.
Negli ultimi anni della sua attività, il De Bellis, per soddisfare le esigenze di una committenza pubblica legata a soluzioni convenzionali di pittura religiosa di carattere devozionale, dovette variare nuovamente il suo stile. Una progressiva stanchezza ed uno scadimento di qualità si avvertono infatti nelle sue ultime tele come la Trinitas terrestris, siglata, nel santuario della Madonna di Sunj e la Madonna in gloria tra i Santi Biagio e Francesco d’Assisi, anch’essa siglata e conservata nella chiesa del convento dei Domenicani a Ragusa, l’odierna Dubrovnjk, la quale per alcuni particolari topografici nella dettagliata pianta della città è databile con precisione tra il 1657 e il 1658.


02 - De Bellis confronto 1

03 - De Bellis particolare 1

04 - De Bellis confronto 2

05 - De Bellis particolare 2

martedì 29 dicembre 2015

1^- Inesattezze, bugie ed imprecisioni sulla storia di Napoli. Errori madornali e boiate pazzesche a volontà


Libri sulla storia di Napoli e sulla napoletanità ne esistono a migliaia e se ne continuano a stampare senza sosta. Molti, innamorati della città, si improvvisano scrittori, copiando da precedenti pubblicazioni ed aumentando oltre misura il numero dei volumi dedicato all’argomento. Tanti illustri sconosciuti che cercano di aggiungersi a nomi famosi ed autorevoli quali Vittorio Paliotti, Aurelio De Rose e Pietro Gargano (fig.1–2–3). Ma anche questi ultimi non sono immuni da errori e scopo di questo articolo e di altri che seguiranno è quello di mettere in luce una serie di inesattezze, se non vere e proprie castronerie, che si raccontano sulla storia di Napoli e dei Napoletani. 

fig. 01 - Vittorio Paliotti
fig. 02 - Aurelio De Rose
fig. 03 - Pietro Gargano

Un terreno particolarmente fertile di imprecisioni è costituito dal capitolo: Napoli capitale delle reliquie, che si trova in qualunque libro che tratta di storia della città, oltre che di tradizioni e superstizioni. Dovunque leggiamo che nelle chiese, oltre a quello celeberrimo di San Gennaro, si conservano decine e decine di ampolle di altri santi, che contengono sangue che si coagula in particolari giorni dell’anno. Fatta eccezione per quello di S. Patrizia (fig. 04), venerata in San Gregorio armeno, il quale ogni tanto… di martedì compie il prodigio, invano cerchereste altrove altre ampolle miracolose. Sono da tempo irreperibili nei luoghi ove viene riferito si trovino, come nel caso del sangue di S. Alfonso Maria dei Liguori, che dovrebbe trovarsi nella chiesa della Redenzione dei captivi a Port’Alba, ma dove manca all’appello da tempo immemorabile. E se pure altrove riuscite a trovare in altre chiese delle reliquie, esse non producono alcun fenomeno a memoria di uomo.
La situazione si fa più comica se vi mettete alla ricerca delle famigerate ampolle (circa cento) contenenti coaguli di sangue di santi e beati, di proprietà di antiche famiglie napoletane. La notizia viene riferita in tutti i libri che trattano dell’argomento, alcuni addirittura dal titolo la Città dei sangui, ignorando che in italiano la parola sangue non possiede il plurale.
Alcuni mesi fa mi sono personalmente messo alla ricerca di una di queste ampolle, per cui ho cominciato a chiedere a tutti coloro che ne avevano parlato nei loro scritti, il nome di almeno una famiglia che le possedesse. Oltre ai tre famosi napoletanisti citati all’inizio mi sono rivolto senza esito a Pietro Treccagnoli, Paolo Jorio, Marino Niola ed a molti altri, arrivando alla conclusione che trattasi di una leggenda metropolitana, priva di alcun fondamento storico. Tutti hanno candidamente dichiarato che avevano riportato la notizia semplicemente perché altri la avevano riferita.
E rimanendo in campo ematologico segnaliamo che nella cappella destra della navata della chiesa dedicata a San Gennaro (fig.05), posta sulla Domiziana nel comune di Pozzuoli, si venera la pietra sulla quale, secondo la tradizione, è stato decapitato il santo, la quale attira numerosi fedeli da ogni dove e in qualsiasi periodo dell'anno, poiché nei giorni che precedono l'anniversario della sua decapitazione le presunte tracce di sangue appartenenti al santo assumono ogni giorno di più un colore rosso rubino, mentre durante tutto il resto dell'anno la pietra è nera. Secondo studi recenti si è però dimostrato in maniera incontrovertibile che la pietra è in realtà il frammento di un altare paleocristiano di due secoli posteriore alla morte del martire sul quale si sono depositate tracce di vernice rossa e di cera e che il tutto è  solo frutto di una suggestione collettiva.
 
fig. 04 - Culto di S. Patrizia
fig. 05 - Chiesa di San Gennaro alla Solfatara

Se ci portiamo ora in ambito artistico le boiate aumentano considerevolmente, perché la fonte di tutti i napoletanisti, professionisti e dilettanti, è il De Dominici, biografo settecentesco, dotato di un acuto occhio con il quale sa discernere un pittore dall’altro, ma nello stesso tempo dotato di una fervida fantasia, con la quale condisce di particolari del tutto inventati la vita dei protagonisti del suo libro: Vita dei pittori, scultori ed architetti napoletani, pubblicato in tre tomi tra il 1742 ed il 1745.
Il caso più eclatante è senza dubbio quello di Diana De Rosa (fig.06), la famigerata Annella di Massimo, moglie del pittore Agostino Beltrano e pittrice anch’ella, nell’ambito della scuola stanzionesca. Diana era la sorella maggiore di Pacecco De Rosa (non la nipote come spesso riferito) e, secondo il celebre biografo, allieva dello Stanzione «cara al maestro come collaboratrice in pittura e, per la sua bellezza, come modella».
Anche le sue sorelle Lucrezia e Maria Grazia, la quale sposò Juan Do, un altro artista, erano molto belle e con Diana furono soprannominate le «tre Grazie napoletane», vezzeggiativo che fu poi ereditato dalle tre figlie di Maria Grazia, anch’esse bellissime.
Pur se citata dalle fonti e resa famosa dall’aneddoto sulla sua morte violenta, «Annella» è a tutt’oggi «una pittrice senza opere» che possano esserle attribuite con certezza. Sicuri sono soltanto i dati anagrafici, 1602-1643, resi noti dal Prota Giurleo.
Il De Dominici ciarlava che Annella, allieva di Massimo Stanzione, fosse la pupilla del maestro, il quale si recava spesso da lei, anche in assenza del marito per controllare i suoi lavori e per elogiarla. Una serva della pittrice, che più volte era stata redarguita dalla padrona per la sua impudicizia, incollerita da ciò, avrebbe riferito, ingigantendone i dettagli, della benevolenza dimostrata dal «Cavaliere» verso la discepola, scatenando la gelosia di Agostino, il marito, il quale accecato dall’ira, sguainata la spada, spietatamente le avrebbe trafitto il seno. A seguito di questo episodio il Beltrano, pentito dell’enormità del suo gesto ed inseguito dall’ira dei parenti di Annella, si rifugiò prima a Venezia e poi in Francia dove visse molti anni prima di ritornare a Napoli.
Oggi la critica, confortata da dati inoppugnabili, tra cui la documentazione che morì nel suo letto dopo avere ricevuto l’estrema unzione, non crede più a tale favoletta, anche se il nomignolo di «Annella di Massimo» che dal Croce al Prota Giurleo, dal Causa a Ferdinando Bologna unanimemente si credeva fosse stato inventato in pieno Settecento dal De Dominici, è viceversa dell’«epoca», essendo stato rinvenuto in alcuni antichi inventari: in quello di Giuseppe Carafa dei duchi di Maddaloni nel 1648 ed in quello del principe Capece Zurlo del 1715. In entrambi vengono riferiti dipinti assegnati alla mano di «Annella di Massimo».
Questa nuova constatazione fa giustizia della vecchia diatriba tra il comune di Napoli ed il Prota Giurleo, indispettito che una strada della città fosse dedicata ad un nome inesistente e convinto che dovesse ritornare all’antico toponimo di via Vomero Vecchio.
Nonostante questa realtà di dati non vi è scrittore di storia napoletana che non ci racconti la sua fine violenta, un vero e proprio femminicidio ante litteram, oggi tanto di moda.
Passiamo a Mattia Preti (fig.07), il famoso cavaliere calabrese, uno dei giganti della pittura italiana ed ascoltiamo il racconto del De Dominici, ripreso in tutti i libri su Napoli:” Siamo nel 1656, nel pieno infuriare della peste, il pittore si presenta ad una delle porte di accesso della città e, qualificatosi come sommo artista, chiede di poter entrare, ma riceve un diniego da parte del comandante del picchetto di guardia. Senza scomporsi il Preti estrae lo stiletto e trafigge l’interlocutore, al che, i soldati spaventati da tanto ardire, gli cedono il passo e l’ingresso entro le mura. Scatta in breve una condanna a morte con la possibilità di commutare la pena nell’esecuzione di una importante committenza: affrescare le sette porte della città con dei giganteschi ex voto di ringraziamento (fig.08) per la cessazione della peste, che saranno eseguiti in maniera magistrale, ma non certo dopo aver patteggiato la pena, perché il Preti, come ha dimostrato in maniera inconfutabile Spike, uno studioso americano, massimo esperto dell’artista, che ha reperito alcuni documenti che attestano che il Preti risiedeva a Napoli già nel 1653, tre anni prima che infuriasse la peste!!!
 
fig. 06 - Annella De Rosa
fig. 07 - Mattia Preti
fig. 08 - Bozzetto del Preti per un affresco

E passiamo ora a raccontare la vera storia della sfogliatella (fig.09), ben diversa da quella descritta in tutti i libri su Napoli.
La cucina napoletana è una delle più famose del mondo con alcuni piatti come gli spaghetti al pomodoro e la pizza che rappresentano un simbolo della gastronomia italiana all’estero. Meno gloriosa la pasticceria, ma con le dovute eccezioni, perché alcuni dolci sono molto conosciuti ed apprezzati come il sanguinaccio, la pastiera, gli struffoli, le zeppole di San Giuseppe e la sfogliatella. Meno noti, ma non meno saporiti: il casatiello, i taralli, il babà, i mostaccioli, i biscotti all’amarena, la pasta reale, la coviglia al caffè, i croccanti, la pizza di amarena e crema. Nel Seicento andavano di moda tanti piccoli dolcetti, come quelli puntigliosamente descritti nei quadri di natura morta da Giuseppe Recco (fig.010) o da Tommaso Realfonso (fig.11), infarciti di miele e di marmellate, da mangiare letteralmente con gli occhi prima che con la bocca, tanta era la cura nel prepararli e la gentilezza nell’offrirli.
I pittori napoletani erano abili quando rappresentavano fiori o frutta nel renderla talmente somigliante all’originale che, senza esagerazione, si poteva percepire l’odore ed il sapore, per cui raffigurando dolci e dolcetti ed avvicinandosi alla tela all’osservatore veniva letteralmente l’acquolina in bocca.
Erano la gioia dei salotti della nobiltà e della borghesia, ma non mancavano nei monasteri più a la page della città, affollati da fanciulle provenienti dalle famiglie più altolocate della nobiltà, che alternavano la preghiera ed il raccoglim ento alle delizie del palato, gustando dolci, senza trascurare rosolio, nocillo ed effervescenti bevande zuccherate. lo testimoniano i documenti di pagamento che zelanti ricercatori, un po’ ficcanaso, hanno reperito nell’archivio del Banco di Napoli (fig.012). Tra i dolci partenopei il più famoso è certamente la sfogliatella della quale esistono tre tipi: riccia, frolla e la santa rosa. Tutte hanno un ripieno identico e tre involucri e fogge diverse, le ricce a forma di conchiglia rivestite da un nastro di pasta sfoglia, tonde e morbide le frolle, più grandi ed arricchite di crema e confettura di amarene le S. Rosa. Molti credono che la sfogliatella nasca in ambiente monastico e precisamente in un convento di conca dei Marini sulla costiera amalfitana, in torno al XV-XV secolo, frutto dell’abilità culinaria di una sconosciuta monachella, ma se indaghiamo la storia dei principali monasteri napoletani, da Santa Chiara (fig.013) alla Croce di Lucca (fig.014), scopriremmo che tutti ritengono che il famoso dolce sia nato nelle proprie cucine e dirimere la verità è impresa ardua. la scoperta recentissima di alcuni documenti in lingua latina ci permette di retrodatare l’invenzione del prelibato dolce ad oltre duemila anni fa. Pare infatti che già durante le feste priapiche (fig.015), che si svolgevano nell’antica grotta di Piedigrotta (fig.016), venisse distribuito ai contendenti per rifocillarsi un dolce energetico dalla forma triangolare, a rimembrare simbolicamente la forma dell’oggetto del contendere: il pube femminile. Gli effetti afrodisiaci sull’animosità dei giovani impegnati nei sacri riti deflorativi si racconta superassero i benefici corroboranti di un poderoso zabaione. nella grotta si svolgeva anche il culto a Venere genitrice, praticato dalle spose sterili, che invocavano la grazia della fecondità. il rito si svolgeva durante tutto il mese di settembre sia all’interno che all’esterno della cripta. alcuni volenterosi e ben dotati sacerdoti, grazie all’effetto di potenti afrodisiaci, tra i quali probabilmente anche l’iperglicemica antenata della sfogliatella, si attivavano in maniera biblica per ingravidare quante più donne possibile. Petronio, Seneca e Strabone ci raccontano che, mentre all’interno ci si impegnava per la riproduzione della specie,all’esterno, tra anfratti e cespugli, la plebe si abbandonava, al ritmico suono di rudimentali strumenti musicali, a multipli amplessi, in un’atmosfera delirante di eccitazione. dagli espliciti riti orgiastici al segreto del claustro è difficile ipotizzare il tortuoso cammino della ricetta, divenuta segreta e vanto di sacerdotesse della castità.  Ma intorno al Seicento qualcuna di queste monachelle, ansiosa di liberarsi  del fardello di una noiosa verginità, fa amicizia con qualche baldo pasticciere, disposto in cambio della ricetta a compiere il pasticcio…ed ecco che della sfogliatella possono godere tutti. con un pizzico di fantasia questa dovrebbe essere la nuova storia della sfogliatella, vanto indiscusso della gastronomia campana e da oggi in poi quando una fanciulla offrirà il prelibato dolce ad un astante le sue intenzioni saranno ben chiare.

fig. 09  Sfogliatella riccia napoletana
fig. 010 - Giuseppe Recco

fig. 011 - Tommaso Realfonso
fig. 012 - Interno-dell'hivio
fig. 013 - Napoli-Monastero -Santa Chiara
fig. 014 - Croce di Lucca
fig. 015 - Riti priapici
fig. 016 - Cripta neapolitana


mercoledì 23 dicembre 2015

Novità su Giuseppe Bonito


fig. 1 - Bonito - Una famiglia felice - 175 - 114 - Modena collezione privata

Dall’uscita della mia monografia su Giuseppe Bonito, nel 2014, a cui hanno fatto seguito due nuove edizioni, con cadenza costante mi pervengono da parte di antiquari e collezionisti nuove segnalazioni di dipinti, alcuni di notevole qualità, che quanto prima conto di pubblicare.
Inoltre richieste di conferma per opere di cui si è persa la memoria, come nel caso, alcuni mesi fa, di un docente universitario di letteratura italiana a Firenze, il quale stava curando la traduzione ed il commento del resoconto di un viaggiatore del Grand Tour, che, negli ultimi anni del Settecento, aveva ammirato “I giganti” del Bonito nella Reggia di Portici, dipinto per il quale non si conoscono documenti e che in ogni caso non è più in sede.
Oppure, un caso simile, quando ho letto un articolo su Il Mattino, nel quale, parlando di Palazzo Gravina, uno dei pochi edifici napoletani che posseggono una facciata a bugnato, attualmente sede della facoltà di architettura, ma a lungo ufficio centrale delle poste, si accennava a degli splendidi affreschi che ornavano i saloni, eseguiti, alcuni dal De Mura, altri dal Fischetti ed altri ancora dal Bonito. Anche questi non solo scomparsi, ma per i quali non esiste alcun documento di pagamento, nonostante alcuni testi sui palazzi napoletani ne segnalino l’esistenza.
Infine la molla che mi ha spinto a scrivere sul pittore la visita di una collezione privata modenese, che, tra altri capolavori, conserva uno splendido inedito dell’artista, che potremmo chiamare: Una famiglia felice (fig. 1) e per le identiche misure potrebbe costituire il pendant di una tela (fig. 2 – 3) transitata tempo fa sul mercato antiquariale.
Alcuni particolari della tela in esame sono di notevole qualità e sono classici dello stile del pittore, dal volto rubicondo della bimba che impugna una mela (fig. 4), mentre la sorella più grande (fig. 5) mostra una rosa, segno evidente per la simbologia dell’epoca che è in cerca di marito nonostante la giovane età, il fratellino più piccolo sta tra le braccia della mamma (fig. 6) e gli altri due, più grandicelli, ostentano già delle pompose parrucche (fig.7).
Altri dettagli ci permettono di leggere i titoli dei volumi rilegati (fig. 8 - 9) sui quali si poggia orgoglioso il padrone di casa, libri di argomento colto, da Ippocrate a Socrate. Forse il nobile è un medico erudito, sicuramente un blasonato e sapremo quanto prima anche il nome della sua casata, appena sapremo identificare il suo blasone (fig.10 - 11) con l’aiuto di Nicola Della Monica, esperto di araldica e del presidente del Circolo dell’Unione, che raduna nella sua storica sede, ospitata nei locali del Teatro San Carlo, ciò che resta della gloriosa nobiltà partenopea.



Achille della Ragione


 
fig. 2 - Bonito - Una famiglia numerosa - 175 - 114 - Italia mercato antiquariale



fig 3 - Bonito - I due dipinti a confronto
fig. 4 - Bonito  - Una famiglia felice - 175 - 114 - (particolare 1) - Modena collezione privata


fig. 5 - Bonito  - Una famiglia felice - 175 - 114 - (particolare 2) - Modena collezione privata
fig. 6 - Bonito  - Una famiglia felice - 175 - 114 - (particolare 3) - Modena collezione privata
fig. 7 - Bonito  - Una famiglia felice - 175 - 114 - (particolare 4) - Modena collezione privata
fig. 8 - Bonito  - Una famiglia felice - 175 - 114 - (particolare 5) - Modena collezione privata


fig. 9 - Bonito  - Una famiglia felice - 175 - 114 - (particolare 6) - Modena collezione privata
fig. 10 - Bonito  - Una famiglia felice - 175 - 114 - (blasone 1) - Modena collezione privata
fig. 11 - Bonito  - Una famiglia felice - 175 - 114 - (blasone 2) - Modena collezione privata

Il centenario dimenticato



A giorni il 2015 cederà il passo al nuovo anno e bisogna constatare con tristezza che la ricorrenza del centenario dell’entrata in guerra dell’Italia è stato rimosso e volutamente dimenticato sia dalle istituzioni che dai mass media.
Nessun intellettuale ha fatto sentire la sua voce solenne sui giornali, ammonendo i giovani sui disastri della guerra e ricordando i passi della nostra costituzione che la ripudiano come mezzo per risolvere le controversie tra i popoli.
La televisione ha continuato a propinarci programmi spazzatura, senza organizzare un ciclo di film educativi del livello di Orizzonti di gloria di Kubrick o Roma città aperta di Rossellini, invitando alla meditazione.
Siamo gli eredi della generazione che ha messo, e se ne vantava, i fiori nei cannoni, ma oggi siamo solo impegnati ad acquistare o a sognare il nuovo modello di telefonino o la vacanza ai Caraibi.
Che tristezza!!!

Achille della Ragione

domenica 13 dicembre 2015

Cuffaro libero


Achille con il senatore SALVATORE CUFFARO ex presidente della regione Sicilia

L'ex governatore della Sicilia Salvatore Cuffaro dopo aver scontato la condanna a sette anni per concorso esterno nel favoreggiamento alla mafia, oggi torna un uomo libero, lasciandosi alle spalle il carcere romano di Rebibbia. Finalmente finisce un doloroso calvario, percorso con cristiana rassegnazione e comincia una nuova vita tutta dedicata al prossimo. Infatti è sua ferma intenzione, subito dopo il periodo natalizio trascorso in famiglia, di partire per il Burundi e lì prestare la sua opera di medico in favore della derelitta popolazione africana, facendo tesoro della preziosa esperienza maturata a contatto con ergastolani senza speranza e con gli ultimi della terra, da tutti dimenticati, spesso anche dai propri cari.  Una decisione che merita rispetto ed ammirazione.
 

sabato 5 dicembre 2015

Il museo delle bambole di Ravenna




01 - Arredi e decori per bambole

Una gioia per grandi e piccoli


Il piccolo museo delle bambole di Ravenna è stato fondato nel 2006 da Graziella Gardini Pasini, che ha voluto condividere la sua collezione privata di bambole e altri balocchi, raccolti nel corso di molti decenni.
Il frutto di una grande passione è oggi a disposizione di grandi e piccini che vogliono conoscere da vicino il mondo e la storia del più famoso giocattolo di tutti i tempi: la bambola.
Il percorso del museo copre il periodo 1850-1950, passando così dai tempi in cui le bambole erano create artigianalmente, al momento in cui iniziano ad essere un oggetto industriale. Tra i materiali scopriamo la porcellana, la carta e corpi di legno, ma quello che ha cambiato notevolmente l’utilizzo di queste bambole e il destino di ogni bambina è la celluloide, una prima plastica dura, che ha reso molto più economici ed accessibili questi affascinanti oggetti. Infatti, mentre un tempo, i pochi possessori delle bambole non potevano nemmeno toccarle per non rischiare di danneggiare la loro così delicata consistenza, una volta in uso questo nuovo materiale, finalmente ci si poteva giocare più liberamente.
E in questa casa delle bambole non potevano mancare le “case delle bambole”: camerette, cucine, stanze complete di suppellettili di ogni genere.
Tutte le bambole infatti vivono in un ambiente in miniatura creato apposta per loro.
Nel museo si trovano alcuni pezzi importanti di marche che hanno fatto la storia della bambola, come Jumeau, Armand Marseille, Lenci, Kathe Kruse, Furga, Tartaruga, Minerva e una piccola collezione di Kewpie.
Il museo non vuole essere soltanto un nostalgico viaggio nel passato, ma un confronto con i modi di vivere e di giocare nelle varie epoche.
Un piccolo pezzo di storia di costume visto attraverso gli occhi dei bambini e delle loro bambole.
hanno. Alcune teche del museo sono dedicate al mondo della scuola con libri, quaderni, cannette, pennini e calamai, altre espongono capi di abbigliamento d'epoca per bimbi e neonati. Inoltre, una sezione è dedicata a bambole eseguite artigianalmente provenienti da varie parti del mondo.

Marina della Ragione

02 - Bambole allegre e tristi
03 - Alcune delle più belle bambole della collezione
04 - Le bambole più eleganti
05 - Bambole dal mondo




giovedì 3 dicembre 2015

Il mausoleo Schilizzi, una potenziale attrazione turistica

01 - Mausoleo Schilizzi


Abito da mezzo secolo a Posillipo, ma solo ieri sono riuscito a visitare il mausoleo Schilizzi, l’originale monumento funebre in stile egizio, con annesso parco, che, con piccoli lavori di manutenzione, potrebbe trasformarsi in una interessante attrazione turistica, oltre a costituire un corroborante polmone di verde per la popolazione alla disperata ricerca di giardini dove trascorrere ore liete.
Sul finir dell’Ottocento doveva essere la tomba di una ricca famiglia livornese, ansiosa di gareggiare con i più potenti faraoni, è divenuto poi da decenni un sacrario in memoria dei tanti giovani che hanno sacrificato la vita per la patria nel corso della 1° guerra mondiale.  Il panorama è mozzafiato, con Capri in primo piano, gli alberi maestosi, i prati numerosi, senza considerare la calma serafica che emana da un luogo di memorie, che induce alla meditazione.
Cosa aspettano le istituzioni con una spesa modesta a restituirlo degnamente alla fruizione di indigeni e forestieri?
Fin qui abbiamo riportato il testo di una lettera che abbiamo inviato ai giornali napoletani con la speranza di smuovere le torbide acque della burocrazia. Vogliamo ora aggiungere qualche notizia storica per gli appassionati delle ricchezze culturali ed artistiche napoletane.
La monumentale tomba inserita in uno splendido parco, dotata di una maestosa scalinata e di uno scorcio di panorama indimenticabile, fu costruita alla fine dell’Ottocento per volere di Matteo Schilizzi, un banchiere livornese attivo in città quando Napoli era una capitale europea del commercio, il quale voleva una sontuosa sepoltura per il fratello Marco, scomparso prematuramente e per i suoi discendenti. Incaricò dell’opera l’ingegnere Alfonso Guerra, che si adoperò alacremente per circa 10 anni, ma dovette poi sospendere i lavori per il sopravvenuto disinteresse del committente.
In seguito, grazie all’interessamento della contessa Martinelli, sarà il figlio dell’ingegnere Guerra, Camillo, a completare l’edificio, che verrà destinato a partire dal 1929 ad ara votiva per i caduti della Patria. Dopo quelli della Grande guerra, trasferiti da Poggioreale, arriveranno quelli della 2° guerra mondiale e delle Quattro giornate di Napoli. A lungo e si vede ancora la nicchia, ma è vuota, ha riposato in eterno Salvo D’Acquisto, prima che i suoi resti mortali fossero trasferiti nella chiesa di S. Chiara.
A sentire gli abitanti del luogo, ogni tanto al tramonto, sembra che il mausoleo si animi, si odono passi ed altri rumori non identificati, molti credono che sia il fantasma di Matteo Schilizzi che vaga inquieto nel parco alla disperata ricerca di una degna sepoltura. Più probabile che sia la voce della città, che richiama al dovere i suoi amministratori, impegnati unicamente a spartirsi fondi e ad accaparrarsi biglietti omaggio per le partite del Napoli.

Achille della Ragione

02 - Primo piano
03 - Chiesa interna
03 - Chiesa interna

lunedì 30 novembre 2015

Bagni di mare, ma si parliamone sotto la pioggia

Lido delle Sirene a Coroglio
di Marina della Ragione

Gli abitanti dei rioni popolari – Sanità, Vergini, Quartieri Spagnoli, Vasto, ecc… – il mare preferivano vederlo da lontano. Più che goderlo, il mare lo avevano sempre temuto. Pochissimi sapevano nuotare – il Lido «mappatella» è una scoperta abbastanza recente – e per i napoletani i bagni si potevano prendere soltanto tra le due Madonne, quella del Carmine (16 luglio) e quella dell’Assunta (15 agosto).
Prima e dopo questi trenta giorni ben definiti, anche se si moriva di caldo, i bagni di mare non potevano costituire refrigerio o svago. …
Per la borghesia invece i tempi della balneazione erano più dilatati, dalla chiusura delle scuole che avveniva allora alla fine di giugno sino alla festa di Piedigrotta (8 settembre), o addirittura l’onomastico di San Gennaro (19 settembre).
Dopo il bagno ed il pranzo era d’obbligo, specialmente per i più piccoli, riposare sino al calar del sole e poi, con i grandi a passeggiare in attesa dell’ora di cena. E così era per tutti, residenti e villeggianti. La villeggiatura finalizzata ai bagni di mare era privilegio di pochi, quasi sempre aristocratici o ricchi borghesi.
Dove si facevano i bagni?
Cominciamo da oriente. Due stabilimenti balneari costituivano il punto di riferimento per gli abitanti della zona orientale della città, il Lido Azzurro di Torre Annunziata e il Bagno Rex di Portici. Quest’ultimo era frequentatissimo dai napoletani che abitavano tra la città e le falde del Vesuvio.
Da Portici a Santa Lucia non vi era, come non vi è tutt’ ora, alcuna possibilità di bagnarsi in maniera decente. A Santa Lucia nel dopoguerra sopravviveva ancora il Bagno Savoia, stabilimento collocato sulla scogliera sottostante via Nazario Sauro, tra la Canottieri Napoli e la Rotonda.
AI Borgo Marinari, attaccato alla cosiddetta Batteria Spagnola di Castel dell’Ovo, fino alla fine degli anni Cinquanta, funzionava il Bagno Eldorado. Grosso stabilimento balneare, miracolosamente sopravvissuto all’attiguo e famosissimo Cafè Chantant degli anni Venti, con una grande struttura in muratura a più piani integrata nel periodo estivo anche da quella in legno, l’Eldorado rispondeva alle esigenze di un variegato e numeroso pubblico prevalentemente costituito dagli abitanti del centro storico di Napoli.
Alla radice di Posillipo il Sea Garden del marchese Andrea Chierchia era lo stabilimento balneare dei vip dell’epoca. Risalendo la costa subito s’incontrava sulla spiaggia prima di Palazzo Donn’Anna il grande Bagno Elena. Dall’altra parte del Palazzo, sulla spiaggia e la scogliera sottostanti l’Istituto Padre Ludovico da Casoria, il Bagno Sirena della famiglia Ciaramella era molto frequentato.
Rivafiorita era lo stabilimento balneare inventato dal commendator Alfonso Marino che, ad ogni inverno, sistematicamente rosicchiava al mare spazi e volumi per allargare sempre più la sua creatura.
A Marechiaro gli stabilimenti erano due, quello storico sotto la famosa “Fenestella” e poi il più recente Lido delle Rose. Gli scogli di Villa Beck e della Gaiola erano frequentati da pochi eletti considerati i fanatici dei bagni di mare allo stato naturale puro.
A Coroglio, sulla grandissima e bianchissima spiaggia prospiciente l’Isola di Nisida, era famoso il Lido delle Sirene e, per finire, arriviamo sulla spiaggia di Lucrino, al Lido Napoli della famiglia Mailler. Questo stabilimento era frequentato soprattutto dalla buona borghesia napoletana che con la ferrovia Cumana raggiungeva tutte le mattine quella spiaggia.(A tal proposito vi consiglio di leggere in rete, digitandone il titolo, un interessante articolo “Come era bello il lido Napoli” e trovandovi su internet date uno sguardo anche a “Come era bella Villa Beck”, di cui abbiamo parlato prima).
I costumi era castigati, il bikini pura fantascienza, in compenso il mare era pulito e popolato da pesci che sguazzavano felici.

Marina della Ragione

martedì 24 novembre 2015

il mattino sulla terra dei fuochi

Cari amici, dopo La Repubblica, Il Corriere e tanti altri quotidiani anche Il Mattino riprende in una mia lettera un argomento che abbiamo trattato in uno dei nostri incontri del venerdì

martedì 17 novembre 2015

La strage di Parigi provoca unanime cordoglio, ma non si può solo piangere





Il vile attacco terroristico, che ha insanguinato Parigi, provocando oltre 100 vittime ed una giusta ondata di indignazione in tutto il mondo, ben espressa nelle ferme parole di condanna del Pontefice, deve farci riflettere, perché non si può solo piangere, bensì bisogna prendere cognizione della complessa situazione internazionale, che richiede fermezza da parte della politica, chiamata a difficili quanto coraggiose decisioni, illuminazione da parte dei pochi intellettuali ancora in circolazione, ma soprattutto coraggio da parte di tutti noi, pronti ad appoggiare provvedimenti drastici quanto oramai ineludibili.
Cosa può fare l’Italia, cosa l’Europa, cosa l’Occidente? Sono tre percorsi diversi anche se tendono alla fine verso lo stesso obiettivo, fermare o quanto meno arginare il terrorismo.
L’imminente celebrazione del Giubileo fa tremare, anche se l’Italia, da sempre è stata immune dal terrorismo, perché costituisce il ventre molle, attraverso il quale l’immigrazione clandestina fa affluire ogni anno milioni di disperati, tra i quali sarà facile reclutare esaltati disposti a qualunque atto inconsulto.
Ritornando alla prevenzione del terrorismo compito dell’Italia è potenziare i servizi segreti, unica arma in grado di contrastare una guerra senza fronti e senza eserciti schierati. Se non riusciremo a reclutare James Bond, almeno cerchiamo di assoldare agenti esperti provenienti da intelligence dell’est europeo, una via già percorsa con ottimi risultati dalla delinquenza organizzata.
Una strategia che dovrà essere perseguita anche dall’Europa, in grado di affiancare anche efficaci azioni militari, in particolare bombardamenti a tappeto là dove vengono localizzati campi di addestramento, soprattutto nei territori del Califfato islamico, argomento sul quale invito il lettore a consultare in rete un mio breve scritto digitandone tra virgolette il titolo: “Il Califfato islamico: come, quando, dove, perché”.
L’Occidente, Stati Uniti in testa, deve poi prendere atto che ciò che sta succedendo è solo il capitolo iniziale di uno scontro di civiltà epocale, sul cui risultato finale non mi pronuncio (sono pessimista), ma che va combattuto senza esclusione di colpi.
Quando il gioco diverrà duro e le azioni militari si intensificheranno è pura illusione lavorare senza l’aiuto degli Americani e l’assenso, più o meno prezzolato di Putin.

domenica 8 novembre 2015

La Bibbia, Napoli e filosofia, un romanzo umoristico futuro best seller

“La Bibbia, Napoli e filosofia” di Carlo Castrogiovanni

Continuamente ricevo libri da autori novelli che vogliono un parere o, i più audaci, una recensione. Purtroppo dovrei passare gran parte del mio tempo a leggere libri autobiografici che spesso non hanno alcun valore letterario per cui, anche se imbarazzato, sono costretto a dire di no.
Credevo fosse un caso simile il libro scritto da Carlo Castrogiovanni, un mio amico al quale non potevo rifiutarmi, ma dopo aver letto le prime pagine della sua “La Bibbia, Napoli e filosofia” mi sono dovuto ricredere, perché  i capitoli sgorgano impetuosi come un fiume in piena ed appassionano il lettore, il quale brucia il libro tutto di un fiato.
Il protagonista della narrazione è Napoli, ma soprattutto i Napoletani, gente antica che accoppia saggezza e senso dell’umorismo in maniera sorprendente. Scrive l'autore "Un miscuglio d’avvenimenti tra la Napoli antica e quella piccolo borghese. I personaggi s’intrecciano tra storie tragiche e avvenimenti ilari, con un’umanità che alle volte si tinge d’egoismo ed altre di appassionata solidarietà. I sentimenti s’inseguono vorticosamente per l’affermazione di verità, tutte diverse e tutte piene di ragioni. Alcune volte si trasgredisce seguendo un credo non conosciuto e dall’apparenza ambiguo. Alla fine di un anno e mezzo ci sono mille cose da raccontare!
Fabrizio Pietra, in una delle mille viuzze prospicienti Via Toledo s’imbatte nel filosofo semianalfabeta don Peppino, libero di gestire le proprie giornate perché pre-pensionato a seguito di un grave infortunio. Alcuni abitanti del quartiere Montecalvario, anche loro semianalfabeti, nel tempo libero, seguono don Peppino per imparare le sue massime, tutte dal sapore di verità, ma dette con un linguaggio originale tipico di chi esprime un sentimento vero con gravi errori di stile e di grammatica.
Fabrizio, figlio di un ambiente piccolo borghese teso sempre al conseguimento di stabilità e di prestigio, appare a madre, sorelle e fidanzata, come ancora acerbo e impreparato nel percorrere l’unica strada utile che quell’ambiente consente. Due mondi diversi, ostili e diffidenti tra loro, s’incontrano per la prima volta e scoprono di avere un’umanità comune che può collaborare nel percorso di una strada ignota ma avvincente". Gli avvenimenti non tardano a presentarsi.
Subito rimbalza agli occhi l’immagine di una bella Napoli, credo la vera Napoli, molto diversa da quella dei mass media. Essa viene rappresentata in due ambienti tipici della sua realtà: quella dei vicoli e quella piccolo borghese.
In quella dei vicoli, ancora oggi simile a quella raccontata da Eduardo e da Totò, l’esuberanza tipica degli abitanti nel produrre problematiche di ogni genere, fa da cornice al protagonista, don Peppino, che benché semianalfabeta, vive l’ambizione di meditare sui misteri della vita e sul come e perché dei fatti.
In quella piccola borghese, Fabrizio Pietra rifiuta la strada della stabilità e del prestigio, comune a familiari e fidanzata, anche lui per cercare… di capire.
Il racconto disegna sul filo dell’ironia come l’aspirazione di tanti vivaci personaggi produca fatti tragici e comici.
Detto della trama, resta il merito del romanzo di riuscire a coinvolgere emotivamente il lettore. Credo che ciò venga favorito oltre che dal linguaggio semplice ed immediato del racconto, da un aspetto che per la prima volta trovo in un romanzo: Carlo Castrogiovanni scrive due racconti in uno. Infatti il protagonista Fabrizio appare continuamente nelle due versioni di ragazzo inadeguato all’ambiente piccolo borghese e subito dopo, nell’ambiente di don Peppino diviene eroe, protagonista, e punto di riferimento di tutti gli “aficionados”.
Vorrei sottolineare, come ciò, il narrare due racconti  in un unico contesto, rappresenti oltre ad uno stile originale anche una novità assoluta.
Questo nuovo stile produce un aspetto pirandelliano al racconto poiché il protagonista Fabrizio vive inconsapevolmente due personaggi che continuamente si scambiano i panni, ruoli e problematiche.
E’ un libro che incontrerà, ne siamo certi, un grande successo e sarà sicuramente seguito da altri, perché l’autore mette in mostra uno stile ed una fantasia che gli permetteranno di scrivere altre storie in grado di interessare un pubblico anche dal palato raffinato.

Achille della Ragione


Carlo Castrogiovanni








Un inedito capolavoro di Giovan Battista Spinelli

 Giovan Battista Spinelli  -Madonna con Bambino- Roma collezione Lemme 



Giovan Battista Spinelli, attivo fra il 1630 ed il 1660 circa, viene citato dal De Dominici, che poco lo conosceva, come l’ultimo dei sei discepoli dello Stanzione.
La sua personalità artistica ed il ricordo della sua opera si erano persi nel nulla, e solo negli ultimi 40 anni grazie alle felici intuizioni del Longhi, agli accaniti studi del Vitztuhm e, più di recente, alla puntuale ricostruzione dello Spinosa è riemerso come una delle figure di spicco del Seicento napoletano, facilmente riconoscibile non solo per la sua marcata abilità di disegnatore, ma principalmente per le caratteristiche fisiche e fisionomiche delle sue figure: personaggi in preda a torsioni disperate ed alla completa disarticolazione delle forme, immersi in un impasto furente percorso di umori misteriosi, agitati da una elettrizzante energia interiore e gesticolanti come marionette impazzite.
Dopo essere stato per secoli ignorato dalla critica, lo Spinelli (del quale non conosciamo i dati biografici, ad eccezione di notizie sulla sua famiglia, di origine bergamasca, ma residente a lungo a Chieti) è riapparso come un’artista originale e fuori dagli schemi convenzionali, suggestionato da un mondo di immagini antiche, che gli pervenivano attraverso lo studio appassionato, anche se disordinato, delle incisioni dei manieristi nordici, da Luca Di Leyda a Goltius, da Matham ad Aldegrever.
Ad un certo punto del suo percorso artistico vi è un chiaro richiamo a modelli compositivi stanzioneschi con una pittura ampia e rischiarata, e questa ripresa di elementi napoletani possiamo coglierla soprattutto nelle due tele degli Uffizi, capolavori assoluti del Seicento europeo: il Trionfo di David accolto dalle ragazze ebree e David che placa Saul, in cui stringenti affinità ispirative, come ben intuì il Longhi, possono cogliersi con le tele stanzionesche con Storie del Battista, oggi al Prado, ma anche in pale d’altare per chiese abruzzesi e dipinti da cavalletto per collezioni napoletane, come nel caso del dipinto di collezione Lemme a Roma.
Questo momento creativo è però sempre contraddistinto da marcati caratteri di autonomia culturale e da segni di energico vigore formale e di accentuata sensualità come se lo Spinelli, in preda ad una eterna sovraeccitazione, desse luogo a stravolte tipizzazioni fisionomiche, caratteristiche di un pittore inquieto, bizzarro ed anticonvenzionale, capace di recepire influssi diversi, ma di esprimere sempre una cifra stilistica personale originalissima. E questo aspetto della sua pittura sarà sempre molto evidente anche negli ultimi anni della sua attività, quando più marcati si faranno gli slittamenti verso soluzioni di temperato classicismo accademizzante.
La Madonna col Bambino della collezione Lemme, collocabile cronologicamente agli anni Quaranta, si ispira a dipinti prodotti in quel periodo da Massimo Stanzione, ma rispetto allo stile dell’illustre collega, lo Spinelli si pone in una posizione di originale autonomia, accentuando sino all’eccesso l’aspetto bizzarro e la cura della scenografia, prediligendo una gamma cromatica raffinata e selettiva, spesso virando verso tonalità fredde ed azzurrine, mentre il trattamento del chiaro scuro, richiama le esperienze del naturalismo napoletano di seconda generazione.
Il tema della Madonna col Bambino, a figura intera o di tre quarti, lo troviamo più volte ripetuto in una serie di disegni, conservato a Firenze nella raccolta degli Uffizi, nei quali, più chiaramente che nei dipinti, emerge l’indole manierista del pittore e la sua passione per gli esempi della tradizione cinquecentesca flandro germanica.
In più di un foglio tra quelli conservati nel  Gabinetto dei disegni e delle stampe fiorentino (10959 – 10960 – 10963 F) sono rappresentati la figura di una Madonna col Bambino o forse di una semplice donna con in braccio il figlioletto, che possono rappresentare studi preparatori per un dipinto molto simile a quello in esame, più che esercitazioni di un estro grafico fuori del comune.


 

mercoledì 4 novembre 2015

Un gioiello poco noto: la chiesa di S. Maria della Consolazione a Villanova

 
fig. 1  - Napoli, chiesa di S. Maria della Consolazione a Villanova  (facciata)

Nel casale di Villanova vi è la chiesa di Santa Maria della Consolazione (fig.1) dalla spettacolare pianta esagonale, realizzata nel 1737 da Ferdinando Sanfelice, regno incontrastato per oltre cinquanta anni del leggendario parroco Giuseppe Capuano, morto in odore di santità.
Una chiesa di grande interesse, fuori dagli itinerari turistici e sconosciuta anche ai cultori del nostro patrimonio artistico, frequentata solo dai fedeli, tra i quali le mie zie: Giuseppina, da poco centenaria, Elena e Adele ed alla quale sono particolarmente affezionato, perché il parroco di cui sopra era un mio pro zio e fra cento anni o poco più mi piacerebbe si celebrasse il mio funerale.
L’interno (fig.2) è allegro, molto luminoso e sembra sollecitare una preghiera di ringraziamento più che una supplica. Ha una storia alle spalle, ma soprattutto un segreto da svelare.
La storia è semplice e lineare: Eleonora Piccolomini, principessa di Bisignano, nel 1488 fece erigere nel suo fondo una cappella. In seguito nel 1537, a seguito di lasciti e donazioni, venne unita a due chiesette in rovina poco distanti: San Giovanni Battista fuori Porta Posillipo, già proprietà dei Guindazzo, donata agli Agostiniani intorno al 1500 e San Pietro.
La chiesa attuale sorge dunque da questo incontro e ne fa fede un pregevole bassorilievo di scuola del Donatello, conservato in sacrestia, datato 1510, che raffigura la Madonna tra San Giovanni Battista e San Pietro.
La veste attuale prese corpo poi nel 1737, dopo i danni causati da un terremoto, ad opera del celebre architetto già citato, il quale da tempo era impegnato con gli Agostiniani nella realizzazione del convento di San Giovanni a Carbonara.
Il risultato entusiasmò il De Dominici il quale affermò: ”che prospetto così vago e accordato, più bello non si può desiderare”. Infatti il Sanfelice adottò una soluzione rivoluzionaria per quell’epoca, collocando su sei pilastri, nell’interno esagonale con tre finestroni, un’unica struttura di copertura con tre capriate in legno, una finta volta incannucciata e tegole.
La facciata, col corpo centrale aggettante fra due rientranti, preannuncia l’andamento planimetrico interno e sicuramente fu modificata nel corso del restauro cui seguì la consacrazione nel 1853, per cui dello stile dell’architetto non conserva che il finestrone.
L’interno rappresenta invece un accattivante esempio di spazio, molto luminoso, modellato da forme geometriche ossequiose della lezione del Borromini. Si può osservare un alternarsi di pareti piane e di pareti curve che sottolinea il dinamismo plastico accentuato dalla presenza della doppia parasta, in modo che l’ordine architettonico accompagni il disegno planimetrico delle pareti: anche la trabeazione, allora, si incurva per accogliere la calotta che completa la piccola abside. Ampi finestroni inondano di luce l’ambiente illuminando i delicati stucchi (fig.3), di alta qualità e di gusto rococò, che decorano la bella volta esagonale, il cui disegno geometrico è accentuato dai bianchi costoloni che si affiancano sulle vele grigie.
A completare l’insieme concorreva il pavimento, in cotto e ceramica, non più presente e l’altare maggiore (fig.4) in lussureggianti marmi policromi, sovrastato da un’opera proveniente dalla chiesa precedente: una tavola della prima metà del Cinquecento, raffigurante la Madonna col Bambino (fig.5-6).
Alla vecchia chiesa appartengono anche i bassorilievi marmorei del lavabo conservato in sacrestia, ricomposti nell’attuale contesto nel 1575, ma risalenti ai primi anni di quel secolo.
Al momento della ricostruzione sanfeliciana risalgono i due spettacolari pendant eseguiti da Paolo Di Majo, che accolgono gioiosamente il visitatore. Essi raffigurano la Natività (fig.7) e la Madonna col Bambino con i santi Agostino, Monica, Gennaro ed Antonio. Ignorati nell’unica monografia sul pittore, scritta dall’illustre studioso Mario Alberto Pavone, sono due autentici capolavori, eseguiti negli anni in cui l’artista lavorava presso la bottega del Solimena, quando questi era intento ad approfondire la sua esperienza in senso classicista. Essi sono la testimonianza della predilezione del Di Majo per formule geometrizzanti e la ripresa di elementi culturali neocinquecenteschi, in opposizione alle contemporanee proposte di Domenico Antonio Vaccaro. L’adesione del pittore alle direttive ecclesiastiche, volte a depurare le immagini sacre da ogni pur minimo carattere di laicità e interessate alla diffusione del culto mariano, si manifesta pienamente nei due dipinti in esame.

fig. 2 - Napoli, chiesa di S. Maria della Consolazione a Villanova (Interno)
 
 
fig. 3 - Napoli, chiesa di S. Maria della Consolazione a Villanova  (stucchi della volta)
 
 
fig. 4 -Napoli, chiesa di  S. Maria della Consolazione a Villanova  (Altare)

 
fig. 5  - Napoli, chiesa di S. Maria della Consolazione a Villanova  (tavola cinquecentesca)


 
 
fig. 6  -Napoli chiesa di  S. Maria della Consolazione a Villanova  (tavola cinquecentesca)
 
fig. 7 - Paolo di Majo -  Nativitá - Napoli chiesa di  S. Maria della Consolazione a Villanova


Del 1639 sono due pannelli ad olio conservati ai lati dell'altare, entrambi siglati ed uno datato. A grandezza naturale rappresentano Sant'Agostino (fig.8) e San Giovanni Battista (fig.9). Di mediocre qualità, mostrano l'artista suggestionato dalle coeve esperienze di ambito iberico, soprattutto il Battista ricorda in qualche aspetto le affilate impostazioni disegnative di Zurbaran . Influsso della cultura spagnola che ritroveremo ancora in alcune delle tele del Marullo, come nella Pesca miracolosa, nella quale è tangibile lo stile del Greco nella definizione delle figure allungate e spigolose.
Dopo la storia e la descrizione dei dipinti passiamo a rivelare il segreto che nasconde la chiesa e che venne scoperto in occasione del terremoto del 1980, quando una parte del pavimento crollò, mettendo in mostra antiche mura, così descritte in una relazione che abbiamo reperito tra polverose carte nell’archivio della Soprintendenza: “ parte di una pavimentazione in cotto maiolicato e in marmo di età quattrocentesca, resti di murazione intonacata, frammenti di lesene cinquecentesche scolpite” e ancora decorazioni parietali che conservano il colore ed una lapide marmorea con stemma e sedile di pietra (fig.10). Sulla tomba si legge chiaramente Ioannes neapolitanus … 1545. Finalmente una data certa, oltre al pavimento della cripta simile a quello cinquecentesco della chiesa di San Giovanni a Carbonara(entrambe dell’ordine degli Agostiniani), sappiamo che Giovanni Napolitano giace lì dal 1545 e da una trentina d’anni in buona compagnia, perché quando nel 1982 i lavori di consolidamento misero alla luce una ventina di scheletri provenienti da una fossa comune, il parroco di allora, don Enrico, volle dar loro una più onorata sepoltura, mettendoli nella tomba del napoletano privilegiato, una decisione misericordiosa in aperto contrasto con le usanze secolari, che hanno sempre previsto un ossario comune per i poveri ed il monumento funebre per il nobile o quanto meno per il ricco.
Nella pianta Carafa del 1775 sono già ben visibili i villaggi di S. Strato, Portaposillipo e Villanova ed il percorso dell’attuale via del Marzano, all’epoca chiamata Malefioccolo. Poco è cambiato da allora, una certa atmosfera paesana sopravvive in queste stradine e nella piccola piazza antistante la chiesa di Villanova, mentre da sempre il parroco, che conosce tutti, termina il suo ufficio con la frase: “la Messa è finita, andate in pace e buona serata”.
Consigliamo, dopo la visita alla chiesa, percorrendo alcune centinaia di metri, di fare la conoscenza di un luogo mitico: il Canalone, del quale molti napoletani hanno sentito parlare, pochi sanno localizzarlo, quasi nessuno lo ha mai percorso.
Per me esso era leggendario perché mia madre, da bambina, siamo negli anni Venti del secolo scorso, lo scendeva e saliva ogni giorno per andare a scuola, cosa impensabile oggi che non facciamo un passo per nessun motivo, condannandoci anzi tempo ad obesità ed arteriosclerosi.
Questo tortuoso tragitto (per il Tuttocittà Salita Villanova) mette in comunicazione via Manzoni con via Posillipo, attraversando da sotto via Petrarca all’altezza della chiesa dei Gesuiti.
Il primo tratto (fig.11) è a gradoni, che dolcemente scendono a valle, costeggiando lussureggianti giardini dove il tempo pare si sia fermato, il secondo (fig.12) è una serie di ripidi scalini che in un battibaleno conducono all’arrivo.
Per tutta la passeggiata, che dura non più di quindici minuti, scorci di panorama mozzafiato ed angoli bucolici inaspettati. Bisogna però tollerare un po’ di rovi ed un po’ di spazzatura portata dalla pioggia, ma di monnezza, almeno in questi ultimi tempi, forse ne troviamo altrettanta nella elegante e centralissima via dei Mille.
Questa originale passeggiata ha costituito l’ultimo appuntamento della stagione 2008 per gli Amici delle chiese napoletane, i quali, dopo lo scarpinetto si rifocillarono abbondantemente, a prezzo fisso, in un famoso ristorante, brindando alla cultura, osannando il presidente (il sottoscritto) e dandosi appuntamento a settembre per un nuovo ciclo di visite delle bellezze napoletane; purtroppo hanno dovuto attendere 7 anni prima di godere di nuovo, apprendendo con gioia le bellezze della nostra amata Napoli.

Achille della Ragione
Foto di Dante Caporali 
 
fig. 8 - Giuseppe Marullo -  S. Agostino - siglato e datato 1639 - Napoli chiesa di S. Maria della Consolazione a Villanova
fig. 9 - Giuseppe Marullo-  S. Giovanni Battista - siglato - Napoli chiesa di S. Maria della Consolazione a Villanova
fig. 10 - Napoli chiesa di S. Maria della Consolazione a Villanova  (cripta)
fig. 11 - Napoli, inizio del Canalone
fig. 12 - Napoli, parte finale del Canalone