lunedì 31 agosto 2015

Capolavori del Ribera e di Salvator Rosa nei musei francesi


tav. 01 - Ribera Giuseppe - San Pietro e San Paolo  - Strasburgo, musée des Beaux Arts

Tra i dipinti più antichi del Ribera va annoverato il San Pietro e San Paolo (tav. 01) del museo di Strasburgo, firmato con l’appellativo di accademico romano, titolo acquisito nel 1616, ma non datato. Il quadro mette assieme i due apostoli fondatori della Chiesa rappresentati con i loro attributi - il libro aperto e un’allusione alle Epistole di San Paolo. I colori dei loro vestiti sono conformi all’iconografia tradizionale: la veste e il manto rosso di San Paolo o quello bruno ocra di San Pietro, simbolo della verità rivelata. Il quadro è costruito con un’impaginazione di grande efficacia con la mano destra di San Paolo che impugna la spada, in continuità con la natura morta in primo piano, grazie alla magistrale trovata della pergamena srotolata e come scolpita dalla luce. Le due figure sono modellate con la stessa potenza espressiva, ma la loro presenza è resa più immediata dal gioco di sguardi, quello di San Pietro verso San Paolo e quello di quest’ultimo verso lo spettatore che sembra interrogare. Il dipinto collocabile intorno al 1620 rappresenta uno dei primi esempi di raffigurazione di personaggi antichi, santi o filosofi, un genere che ebbe grande successo per decenni in area napoletana.

tav. 02- Ribera Giuseppe - Platone - Amiens, musée de Picardie

Il Platone (tav. 02) del museo di Amiens, firmato e datato 1630, proviene dalla collezione Lavalard de Roy a Parigi ed è probabile che in origine facesse parte di quella numerosa serie di ritratti di filosofi segnalata da Ponz quando era esposta all’Escorial e di cui facevano parte anche l’Archimede e l’Esopo ora al Prado. Stilisticamente vicino soprattutto al primo costituisce una ulteriore dimostrazione del superamento della fase di crudo realismo e di forte adesione al tenebrismo verso una pennellata dai toni più caldi. Si segnala una copia di buona qualità in collezione Bukowski a Stoccolma.

tav. 03- Ribera Giuseppe - S. Maria Egiziaca - Montpellier, musée Fabre

Capolavoro della maturità del Ribera questa S. Maria Egiziaca (tav. 03), firmata e datata 1641, dalle carni grinzose e dagli occhi brillanti fa parte di quella lunga serie di anacoreti, eremiti e penitenti che fu dipinta negli anni controriformistici della chiesa cattolica, la quale promuoveva la rappresentazione di immagini devote per fortificare la fede.
Questi personaggi venivano spesso raffigurati in antri e caverne dove lo spazio ristretto e l’assenza di luce facilitava la meditazione e la penitenza.
Maria Egiziaca visse ad Alessandria d’Egitto nel V secolo e condusse per 17 anni vita dissoluta, per redimersi dalla quale si ritirò in penitenza nel deserto di Giordania ove trascorse 47 anni. L’artista la raffigura con pochi stracci, assorta in preghiera con le guance scavate dai digiuni e le membra rattrappite, risaltanti nell’asprezza delle rocce retrostanti. L a cortigiana dalla pelle vellutata si trasforma in una severa penitente che ci trasmette nelle mani congiunte in preghiera e nello sguardo assorto la forza dell’amore verso Dio che tutto perdona e tutto redime.
Dalla malizia di uno sguardo fascinoso di cortigiana da far mozzare il fiato alle linee sfasciate di un corpo divorato dalla fame e dalle privazioni, reso con una griglia cromatica dai toni forti e attraversato da lampi di luce, solcato da rughe, da rivoli e da rigagnoli, dove la vita scorre più lentamente; una bellezza solare trasformata in un’immagine di lunare trascendenza. La santa viene resa con crudo realismo, è un personaggio umano anche se pervaso dal soffio di una profonda spiritualità, la sua figura si staglia su di uno sfondo roccioso ed uno squarcio di cielo blu pallido attraversato da un bagliore giallo argentato, il suo viso scarno con le ossa pronunciate denuncia l’abitudine a prolungati digiuni.
Il Ribera raggiunse il massimo della sua arte facendo ricorso al virtuosismo della sua tavolozza nel rendere gli effetti del digiuno attraverso le più piccole variazioni di luce e ombra.

tav. 04 - Ribera Giuseppe - Lo storpio   - Parigi Louvre

Tra i capolavori di Ribera lo Storpio (tav. 04), firmato e datato 1642,  conservato al Louvre suggella in maniera esemplare le due ben sposate anime del grande pittore, da un lato la profonda capacità introspettiva, comune al carattere picaresco di tutti gli spagnoli, che troverà nella serie di Buffoni di corte del Velasquez la degna consacrazione, dall’altro l’acquisita napoletanità, che gli permette di percepire come sue la gioiosa irriverenza e la scoppiettante felicità di vivere che promanano prepotentemente dallo schietto sorriso di questo povero scugnizzo il quale, dimentico delle sue deformità e della sua miseria, si staglia vigoroso e sicuro di sé, avvolto alle spalle da uno straripante cielo azzurro.
“De mihi elimosinam propter amorem dei” (fammi l’elemosina per amore di dio), recita il foglietto in mano al fanciullo,, che vuole amplificare il messaggio cristiano di aiutare i più deboli, un didascalico elogio della povertà e della carità dal profondo significato simbolico.
Il quadro ab antico nella collezione privata del principe di Stigliano, esprime la più viva solidarietà di Ribera al variegato mondo della povertà che, come una marea montante sommergeva ogni vicolo ed ogni angolo della Napoli seicentesca.
Nel gran numero di estimatori del dipinto si contano anche famosi pittori, tra cui il Matisse, autore di un’originale reinterpretazione del soggetto.

tav. 05 - Ribera Giuseppe - Battesimo di Cristo  - Nancy, musée des Beaux Arts

Il Battesimo di Cristo (tav. 05), firmato e datato 1643, del museo di Nancy proviene dal convento di San Pasquale di Madrid, dove antiche fonti lo ricordano insieme ad un Martirio di San Sebastiano di identiche dimensioni.
“Alla resa naturalistica delle immagini e alla caratterizzazione psicologica dei personaggi, si unisce qui un cromatismo prezioso arricchito da un sottile gioco di vibrazioni luministiche. L’orizzonte ribassato che, al di sopra del paesaggio appena accennato, apre lo sfondo ad un cielo di ampio respiro e di efficace resa atmosferica, rischiarato da una luce diffusa e chiara, si ritrova nel coevo celebre dipinto raffigurante lo Storpio conservato al Louvre”(Pagano).


tav. 06 - Ribera Giuseppe - Adorazione dei pastori - Parigi Louvre
L’Adorazione dei pastori  (tav. 06) conservata al Louvre, firmata e datata 1650, è una composizione verticale con il punto centrale costituito dal Bambino. Dietro la Madonna con le mani giunte e San Giuseppe con le mani incrociate sul petto. Ai lati i pastori con abiti rozzi, la cui rappresentazione è prova dell’interesse del valenzano a sottolineare l’evidenza materica degli abiti. Sullo sfondo vi è un paesaggio trattato con cura nella resa atmosferica, mentre un angelo compare ad annunciare la venuta del Redentore.
Sono gli anni in cui il pittore, “pur non rinunziando ai suoi presupposti naturalistici o a qualche lieve interesse per la pittura reniana, Ribera è soprattutto impegnato in una resa pittorica delle immagini intensamente luminosa, sottolineata da una interpretazione profondamente intimista del tema. La scena è espressa con compostezza ed equilibrio, le forme sono severe ed essenziali, permeate di luce, il colore brillante e prezioso”(Pagano).
Esistono due repliche del dipinto, la più nota, eseguita da Cesare Fracanzano nel duomo di Castellammare di Stabia, la seconda in Francia nella chiesa parrocchiale di Manneville.

tav. 07 - Ribera Giuseppe - Miracolo di San Donato d'Arezzo - Amiens, musée de Picarde
Il Miracolo di San Donato d’Arezzo (tav. 07), firmato e datato 1652, del museo di Amiens, un tempo identificato come Messa di San Gregorio, proviene dalla Casita Real dell’Escorial  fu donato al museo nel 1894. In precedenza la data era letta come 1634 e così fu presentato alla grande mostra napoletana del 1938 con la vecchia denominazione, che mutò in occasione di una rassegna sui tesori di Spagna, tenutasi a Parigi nel 1963.
Il problema della datazione appare difficile, perché la tela mostra sia elementi stilistici riconducibili al momento del passaggio del Ribera dal naturalismo al pittoricismo, sia qualità formali e cromatiche che si ritrovano in quadri eseguiti intorno al 1650.
Alla recente mostra di Montpellier è stato esposto un Autoritratto (tav. 08) assegnato al Rosa da Spinosa e collocato cronologicamente intorno al 1645. L’artista è raffigurato come poeta satirico e mostra orgoglioso la corona d’alloro che gli cinge la testa. La tela pone dei raffronti con un altro autoritratto conservato nel museo di Detroit e con il celeberrimo autoritratto come filosofo del Metropolitan museum. Un collegamento può farsi anche con un disegno di una raccolta privata parigina citato nell’inventario Niccolini.

tav. 08 - Rosa Salvator - Autoritratto - Strasburgo, musée des Beaux arts

tav. 09  - Rosa Salvator - Battaglia eroica - Parigi Louvre


La celebre Battaglia eroica (tav. 09) del Louvre fu commissionata da monsignor Corsini, che intendeva recarla in dono al re di Francia, ma per ragioni non chiarite venne consegnata al destinatario molto più tardi dal cardinale Chigi.
Rispetto ad altre battaglie eseguite in precedenza, il dipinto in esame mostra una maggiore monumentalità, infatti il Rosa si ispirò agli esempi rinascimentali di Raffaello e di Giulio Romano, alla tradizione cioè della battaglia eroica, già ripresa da Pietro da Cortona.
Dell’accurata fase di preparazione sono testimoni una dozzina di schizzi ed un disegno conservato al Courtland di Londra.
A Chantilly, nel museo Condè sono conservati numerosi dipinti del Rosa, tra cui alcuni paesaggi, oltre ad una serie molto famosa di cui presentiamo e commentiamo Geremia tirato fuori dalla fossa dei leoni (tav. 10), Daniele nella fossa dei leoni (tav. 11) e la Resurrezione di Lazzaro (tav. 12).

tav. 10  - Rosa Salvator - Geremia tirato fuori dalla fossa  - Chantilly, musée Condè
tav. 11  - Rosa Salvator - Daniele nella fossa dei leoni  - Chantilly, musée Condè

tav. 12- Rosa Salvator -  La resurrezione di Lazzaro - 137 - 100 - Chantilly, musée Condè

Il primo, firmato col monogramma e pubblicato da Ozzola nel 1908, fu esposto dallo stesso pittore nel 1662 a San Giovanni decollato, in una delle frequenti mostre che ivi si tenevano. Già di proprietà di Carlo De Rossi, grande amico del poeta, passo assieme agli altri del gruppo nella galleria del principe di Salerno, quindi nella raccolta del duca d’Aumale, per finire poi nell’attuale sede museale.
Il Rosa ci teneva molto ad eseguire dipinti di grosse dimensioni che potessero essere esposti al pubblico in chiese, ma nemmeno in questa occasione riuscì a realizzare il suo sogno; infatti il De Rossi solo dopo la morte del pittore riuscì ad ottenere una cappella nella chiesa di S. Maria in Montesanto in Roma dove li poté esporre e furono per anni molto ammirati.
Da collegare ai dipinti conservati a Chantilly il Tobia e l’angelo (tav. 13) del Louvre, di cui si conservano più incisioni eseguite da Normand, da Debret Guttemberg e da Malbeste, mentre una buona copia si trova ad Oxford nella chiesa di Cristo.
L’ombra di Samuele appare a Saul (tav. 14), conosciuto anche col titolo Saul e la pitonessa di Endor, conservato al Louvre, costituisce una delle opere più famose del Rosa, caratterizzata da un romanticismo quasi visionario. Illustrato da Ozzola nel 1908 fu esposto dallo stesso pittore nel 1668 alla mostra di San Giovanni decollato per poi essere inviato in Francia, dove è stato inciso numerose volte.
Il Paesaggio con soldati e cacciatori (tav. 15) conservato al Louvre fu acquistato da Luigi XVIII nel 1816. La critica ha espresso più di un dubbio sull’autografia a partire dal Pettorelli che lo riteneva dubbio, mentre il Voss ne accettava la paternità del Rosa. Il Salerno dopo vari e differenti pareri, dopo un decisivo restauro, ne ha definitivamente accettata l’autografia.

tav. 13- Rosa Salvator - Tobia e l'angelo  -  Parigi Louvre
tav. 14 - Rosa Salvator - L'ombra di Samuele appare a Saul -  Parigi Louvre
tav. 15 - Rosa Salvator - Paesaggio con soldati e cacciatori - Parigi Louvre

venerdì 28 agosto 2015

DIPINTI DEL SEICENTO NAPOLETANO NEI MUSEI FRANCESI

1^ di copertina
Caravaggio - Cristo alla colonna
Rouen, Musée des Beaux-Arts


In Francia, a parte al Louvre, nei numerosi musei minori sono conservati centinaia di dipinti del Seicento napoletano, poco noti all’estero e spesso agli stessi specialisti. Solo in piccola parte rappresentano il frutto delle spoliazioni napoleoniche, bensì costituiscono la scelta di collezionisti facoltosi ed illuminati, che nel tempo hanno acquistato sul mercato, creando raccolte prestigiose, passate poi allo Stato, come ad esempio la famosa collezione di Francois Cacault, un diplomatico che acquisì nell’Ottocento una spettacolare raccolta di oltre mille dipinti che fu poi acquisita alla sua morte dalla città di Nantes. Scopo di questo libro è quello di far conoscere ad un vasto pubblico un patrimonio ricco e variegato, che include decine di nomi di artisti, dai più grandi quali Ribera, Giordano, Preti, Rosa e Solimena, ai tanti minori, che, al fianco dei giganti, hanno collaborato a fare di Napoli nel Seicento una indiscussa capitale della pittura.
Per ogni quadro una scheda per approfondire il valore di quanto andiamo a far ammirare con una serie di oltre cento riproduzioni a colore ed alcune notizie sugli autori.


  • Prefazione 
  • Notizie sugli autori e schede dei dipinti 
  • Elenco delle tavole

Tutti i libri si possono acquistare presso le librerie:
Libro Co. Italia, tel. 0558229414 – 0558228461; e-mail: libroco@libroco.it
Libreria Neapolis, tel. 0815514337; e-mail: info@librerianeapolis.it
oppure contattando direttamente l’autore all’indirizzo: a.dellaragione@tin.it






Il Mattino 8 settembre 2015, pag. 42


giovedì 27 agosto 2015

Una bufala mediatica



A lampante dimostrazione che non solo internet è fuori controllo, ma anche i mass media cartacei sparano idiozie inattendibili vi è il caso del dipinto di Paolo Porpora danneggiato nel museo di Taipei da un visitatore disattento e che giorno dopo giorno raggiunge quotazioni da record: dal milione di dollari iniziale, oggi sul web circolavano valutazioni di oltre 10 milioni, mentre dall’oriente mi contattavano giornalisti e televisioni per avere conferma di queste cifre e notizie sul pittore.

A parte che la tela non è di Porpora, ma di un suo collega romano: Mario Nuzzi, più noto come Mario dei fiori, bisogna precisare che il quadro è passato alcuni anni fa in asta quotato 25.000 – 30.000 euro e che da allora il mercato ha visto scendere sempre più il valore dei dipinti, per cui l’episodio è stato montato oltre misura e va obbligatoriamente ridimensionato, per amore della verità, ma soprattutto per rispetto dell’informazione.

Achille della Ragione




articolo in inglese pubblicato a Taiwan sul dipinto danneggiato di Porpora, con citazione del parere di Achille della Ragione







articolo sul sito Cinese CNA sul dipinto danneggiato di Porpora, con citazione del parere di Achille della Ragione










Cento anni fa nasceva Luigi Compagnone


 
Luigi Compagnone


A giorni saranno cento anni dalla nascita di Luigi Compagnone. Vogliamo ricordarlo, soprattutto ai giovani che non lo conoscono.

Narratore, poeta, giornalista, Luigi Compagnone è stato sempre uno scrittore errante fra poesia e romanzo, conservando la stessa carica di aggressività di quando era giovane e la causticità, senza dubbio il carattere dominante della sua personalità.
Se lo sdegno e l’ira possono essere considerati un metro per valutare la vivacità intellettuale, si può ben dire che quella di Compagnone è stata per lunghi anni all’apogeo.

Quaranta anni fa Anna Maria Ortese nel suo famoso libro «Il mare non bagna Napoli» mise alla berlina Luigi Compagnone, non ancora celebre scrittore, in tono ironico e con grande malignità.

A certi sgraditi apprezzamenti della Ortese, alla sua gratuita cattiveria, Compagnone rispose con tutta la violenza di cui era capace: la scrittrice venne bersagliata su giornali e riviste dalle feroci ironie, dai sarcasmi, dalle insinuazioni di colui che lei, nel suo libro si compiaceva di chiamare «funzionario della radio», ben conoscendo il suo odio per i funzionari! e per quelli della Rai in particolare, ignorando volutamente con quella fredda qualifica, le attività di giornalista e di scrittore svolte da lui, il quale in quella occasione confermò di esser una delle migliori malelingue del mondo intellettuale napoletano, capace, con le sue corrosive battute di stroncare un avversario, di farlo a pezzi, sempre pronto ad aggredire chicchessia per ridurlo in poltiglia.

L’Ortese nel suo libro volle colpire come bersaglio privilegiato una piccola compagnia di intellettuali napoletani, quelli che avevano fondato tra il 1945 ed il 1947 la mitica rivista «Sud».
Per loro ella intonava una sorta di elogio del fallimento, ma del noto furore che domina la nostra città Compagnone è eletto quasi a simbolo.
La scrittrice non riconosce più in lui il giovane affascinante che aveva conosciuto (e del quale era forse stata innamorata). Il suo camminare le ricorda un volatile stanco, il suo sorriso è astratto e morto ed assume un’assonnata disperazione da sconfitto.
A distanza di 40 anni l’occasione di una ristampa del libro della Ortese ha risvegliato antichi furori a Napoli, una città fedele alla inimicizia.

L’Ortese con l’illusione interiore di gettare acqua sul fuoco degli antichi sdegni ha solamente riacceso l’invettiva di Compagnone che le si è scagliato contro con la sua proverbiale ira funesta controbattendo che il libro della scrittrice testimonia soltanto ribrezzo e paura per la città ritenuta in rovina, la quale invece se trova parole per far parlare di se vuol dire che non è morta.
Alla voce indignata di Compagnone si sono unite quelle di altri napoletani doc tra cui Franco Rosi che ha ribadito «La litigiosità rientra nell’umore della nostra gente. C’è nell’aria una provocazione continua. Siamo in troppi ad essere creativi nelle cinta... Napoli è sterminata, ma lo spazio per conviverci tutti in pace risulta troppo stretto».

Del periodo di Sud e delle frequentazioni di casa Prunas Compagnone si ricorda volentieri di un aneddoto riguardante la contessa Prunas, la madre di Pasquale, il proprietario della rivista, la quale temeva, si era nel 1952, una vittoria comunista alle elezioni.
Ella ebbe un’idea brillante di prezzolare un tranviere, categoria considerata a Napoli il massimo del bolscevismo e fattolo installare nella sua casa di Monte di Dio, lo convinse a proclamare di aver visto la Madonna.
Popolane e signore alto borghesi accorsero in pellegrinaggio a casa Prunas, ma ci fu un traditore, il quale scrisse la verità su di una rivista milanese in un articolo ilare intitolato «Il miracolo della contessa».
L’autore della delazione era lo stesso Pasquale Prunas, primogenito della casata!

Nel 1972 ebbi il piacere di conoscere personalmente Luigi Compagnone, grazie al figlio Massimo, valente psicanalista freudiano, di cui sono fraterno amico da tempo immemorabile.
Dovevo completare la mia preparazione in vista della partecipazione a «Rischiatutto» la nota trasmissione televisiva di Mike Bongiorno e la materia principale in cui mi presentavo era costituita dai Premi Nobel.
Per approfondire gli autori che avevano avuto tale riconoscimento per la letteratura consultai la vastissima biblioteca dello scrittore, che mi meravigliò per l’elevato numero di libri e per il perfetto stato di conservazione degli stessi che apparivano come nuovi.

Lo scrittore, all’epoca abitava in una splendida villa immersa nel verde a Posillipo, e tutte le pareti del grande salone erano piene di volumi e riviste, quasi tutti di letteratura.

Compagnone mi confessò che i libri, molte migliaia, erano nuovi, nonostante li avesse consultati quasi tutti, perché era sua abitudine comperare sempre due copie, una per la biblioteca ed una per la sua consultazione, che spesso avveniva comodamente a letto sotto le coperte, dopo aver sezionato l’opera in ottave più facili da tenere tra le dita per la lettura.

Egli mi prestò gentilmente anche il Dizionario delle opere e degli autori, un’enciclopedia in molti volumi, che mi fu utilissima per la preparazione e mi confidò che una volta era stato prescelto come consulente dagli esperti di «Rischiatutto» per la compilazione dei quesiti di letteratura contemporanea per un concorrente e lui, tra le domande finali da leggere in cabina ne aveva preparata una che riguardava un suo libro vincitore di un importante premio letterario, allo scopo di poterlo pubblicizzare.

Il mio sogno, che negli anni sono riuscito a realizzare, di possedere una grande biblioteca, credo che mi sia cominciato, ammirando quella di Compagnone con tanti bei volumi allineati che sembravano grondare cultura per chiunque volesse abbeverarsene.

Luigi Compagnone nato a Napoli nel 1915, ha avuto dal primo matrimonio due figli: Sandro giornalista della Rai ed apprezzato critico musicale della «Repubblica» e Massimo, laureato in medicina e psicanalista convinto ed apprezzato.
Rimasto vedovo ed immalinconitosi, ha trovato una nuova dolce compagna, Rachele, raffinata pittrice seguace di Otto Dix, Munch e Savinio e valida poetessa, autrice di ben sette libri di poesia.
Con la nuova moglie Compagnone rinacque e si buttò con rinnovato entusiasmo nel suo lavoro di scrittore errante sempre tra poesia e romanzo e di opinionista su «Il Mattino» e su «la Repubblica», con articoli su aspetti della realtà napoletana, sempre caustici, disincantati e sul filo di una ironia sottile e beffarda.

Il primo importante premio letterario «Il Marzotto» Compagnone lo vinse nel 1954 con il romanzo «La vacanza delle donne». In seguito si è dedicato con passione anche all’attività di traduttore di molti grandi scrittori, tra cui Pejrefitte di cui ha trasferito in italiano tutta l’opera.
Egli nell’arco di circa trenta anni ha pubblicato oltre 30 libri ed in una delle sue ultime opere «L’oro nel fuoco» ha inteso realizzare una onesta summa del suo itinerario attraverso tutte le possibili vie che conducono dal drammatico al patetico, dal realistico al surreale, dal razionalismo all’assurdo.

Tra i suoi lavori più importanti dobbiamo ricordare: «La vita vera di Pinocchio», «Ballata e morte di un capitano del popolo», «Malabolgia», «L’ultimo duello», un’opera in cui Compagnone, in uno stile perfettamente kafkiano, racconta una fiaba allucinante, una metafora ferrigna su Napoli, con al centro un borghese piccolo piccolo; «Nero di luna», un romanzo popolato da ombre e fantasmi ora comici, ora tragici, ora grotteschi, ora divertenti, ora raccapriccianti.
In quest’ultimo romanzo vi è come una riaffermazione delle sue scelte letterarie precedenti per cui si può notare un impasto tra lingua e dialetto, tra la visceralità napoletana ed il barocchismo, tra l’intelligenza delle cose e l’intelligenza di essa, tra la mente pura vichiana e l’impurità dei disastri esistenziali, tra la irrazionalità della storia e le sue terribili ragioni.

Compagnone nell’arco dei vari anni ha ottenuto con i suoi libri i più prestigiosi premi letterari che si assegnano in Italia. In seguito ha manifestato una sorta di idiosincrasia assoluta verso queste «gare» e con la sua sottile ironia ci ha disegnato un quadro di questi «Certami letterari», mettendo alla berlina tutti i personaggi che nuotano attorno a queste competizioni.

Questo disgusto verso tante manovre meschine messe in atto dalle case editrici per favorire i propri scrittori è un segno tangibile della maturità e della saggezza raggiunta con l’età da Compagnone, il quale ci confida che un tempo anche lui ha praticato il medesimo malcostume di petulare preferenze e solo così ha ottenuto tanti premi letterari.

Egli nel periodo dell’assegnazione dei grandi premi letterari, dallo Strega al Campiello, dal Viareggio al Bancarella, viene sollecitato in continuazione da smaniosi appelli telefonici da parte degli scrittori partecipanti con un tono del discorso che va dal supplichevole al sottilmente minaccioso, dallo spregiudicato al mollemente ruffianesco.

Tali comportamenti che apparentano il costume letterario a quello del mendicante o del magnaccio fanno riaffiorare il vuoto e la miseria morale di questi strani questuanti.
 Essi pregano, impongono, suggeriscono con impennate sproporzionatamente elevate, escursioni stilistiche e lessicali patetiche e squillanti, liriche o perentorie.

Compagnone ha creato un breve e divertente epigramma per descrivere queste incresciose situazioni:

DEI PREMI LETTERARI 
NON INVIDIAR LA GIOSTRA

CHE MICA È COSA TUA: 
È SOLO COSA NOSTRA



Achille della Ragione

mercoledì 26 agosto 2015

Una Lucrezia di Andrea Vaccaro dalla sensualità prorompente

 
 
fig. 1 Andrea Vaccaro - Lucrezia  - Modena collezione Badeschi
 
Abbiamo avuto la fortuna di poter visionare una conturbante Lucrezia(fig. 1) della collezione Badeschi di Modena, assegnata dalla critica a scuola bolognese, che viceversa presenta tutti gli attributi del malizioso pennello dell’indiscusso specialista del decolté: Andrea Vaccaro, dal famoso “sottoinsù”, il dolce girar degli occhi al cielo, alle labbra carnose, dall’epidermide alabastrina all’accurata definizione del seno, sodo e prorompente.
Godere della bellezza di un seno, anche se raffigurato dal pennello di un pittore è l’esercizio più nobile che distingue l’uomo dalla bestia, la civiltà dalla barbarie, è la sintesi di una condizione umana immutabile, sospesa tra l’esaltazione dell’amore ed il terrore della solitudine, tra la gioia di vivere e la paura di morire e ci aiuta ad affrontare più serenamente l’angoscia dell’esistenza, a coglierne la bellezza e la fragilità.
Che cos’è veramente l’arte se non una guerra, una lotta contro la materia, un corpo a corpo con la forma e con l’idea. Perdersi nell’armonia delle forme e dei colori permette di addentrarsi in un mondo senza frontiere e ci dà la possibilità di essere felici nell’eternità della bellezza e dell’arte. Quale viaggio più avventuroso della serena contemplazione dei severi seni della Lucrezia bianchissimi e luccicanti  che irradiano una luce abbagliante, che sembra stregare ed avvincere l’osservatore, il quale, rapito dalla bellezza del volto corrucciato e dalla vista degli splendidi seni non può guardarla troppo a lungo senza desiderarla. I seni della Lucrezia sono fatti con una pennellata carnosa, ricca, trasparente; essi sono eterni, sostenuti dalla rigidità della materia impassibile. Non si deformano, né avvizziscono, archetipo immobile della femminile bellezza. Rappresentano il porto sicuro verso cui ogni uomo anela di fermarsi e riposare per sempre, preziosi come una boccetta di rare essenze, prorompenti, ma nello stesso tempo fragili, come se costituiti da sottile cristallo, che a rompersi si disperdono come polvere di talco. Alla vista di questi seni immortali è inevitabile per l’osservatore cadere vittima della sindrome di Sthendal: una vertigine intensa ed interminabile, che procura un sottile piacere dello spirito.
Per la clientela laica sia napoletana che spagnola il Vaccaro, in una tavolozza monotona con facili accordi di bruni e di rossicci, crea scene bibliche e mitologiche e le sue celebri mezze figure di donne nelle quali persegue un’ideale femminile di sensualità latente;  diviene così il pittore della "quotidianità appagante, tranquilla, a volte accattivante, in grado di soddisfare le esigenze di una classe paga della propria condizione, attenta al decoro, poco incline a lasciarsi coinvolgere in stilemi, filosofici letterari, o mode repentine, misurato nel disegno, intonato nei colori, consolante nell’illustrazione; Andrea ottenne il suo maggior indice di gradimento in quella fascia della società spagnola più austera e di consolidate opinioni e per converso in quelle napoletane di pari stato ed inclinazione" (De Vito).
Tra i suoi dipinti "laici", alcuni, di elevata qualità, sembrano animati da un’agitazione barocca che raggiunge talune volte un coro da melodramma.
Le sue sante, martiri o non, in sofferenza o in estasi che siano, sono donne vive, senza odore di sacrestia, a volte perfino provocanti nel turgore delle forme e nell’espressione di attesa non solo di sposalizio mistico, «col bel girare degli occhi al cielo» (De Dominici) e con le splendide mani dalle dita affusolate a ricoprire i ridondanti seni.Il Vaccaro fu artista abile nel dipingere donne, sante che fossero, pervase da una vena di sottile erotismo, d’epidermide dorata, dai capelli bruni o biondi, di una carnalità desiderabile sulle cui forme egli indugiò spesso compiaciuto col suo pennello, a stuzzicare e lusingare il gusto dei committenti, più sensibili a piacevolezze di soggetto, che a recepire il messaggio devozionale che ne era alla base.Egli si ripeté spesso su due o tre modelli femminili ben scelti, di lusinghiere nudità, che gli servirono a fornire mezze figure di sante martiri a dovizia tutte piacevoli da guardare, percepite con un’affettuosa partecipazione terrena, velata da una punta di erotismo, con i loro capelli d’oro luccicanti, con le morbide mani carnose e affusolate nelle dita, con le loro vesti blu scollate, tanto da mostrare le grazie di una spalla pallida, ma desiderabile. I volti velati da una sottile malinconia e con un caldo languore nei grandi occhi umidi e bruni, che aggiungono qualcosa di più acuto alla sensazione visiva delle carni plasmate con amore e compiacimento.Le sue sante, tutte espressioni di una terrena beatitudine.L’idea del martirio e della penitenza è sottintesa ad un malizioso compiacimento e venata da una appena percettibile punta di erotismo. Queste eterne bellezze mediterranee dal volto sensuale ed accattivante fanno mostra del loro martirio con indifferenza e con lo sguardo trasognato, incuranti degli affanni terreni e con gli occhi che, pur fissando lo spettatore, sembrano proiettati fuori dal tempo e dallo spazio. Dalle tele promana una dolcezza languida, serena, rassicurante, che ci fa comprendere con quanta calma queste sante, avvolte nelle sete rare delle loro vesti acconciatissime, abbiano affrontato il martirio, sicure della bontà delle loro decisioni, placando e spegnendo ogni sentimento e sensazione negativa quali il dolore, la sofferenza, lo sdegno ed esaltando la calma serafica, la serenità dell’animo, la certezza di una scelta adamantina.La pittura in queste immagini dolcissime e sdolcinate cede il passo alla poesia, che si fa canto soave ed incanta l’ossevatore.

Achille della Ragione


martedì 25 agosto 2015

Un sacrificio di Isacco di Agostino Beltrano


Fig. 1 - Sacrificio di Isacco - Modena collezione Badeschi

Già attribuito al De Bellis, il Sacrificio di Isacco della collezione Badeschi (fig. 1) di Modena, è viceversa un autografo del Beltrano, da collocare cronologicamente intorno alla metà del secolo, quando il pittore, sull’esempio di Stanzione, arricchisce la sua esperienza naturalistica con soluzioni di preziosità cromatica, che lo accostano anche ai modi del Cavallino dopo il 1640.
L’iconografia in oggetto la troviamo in altre tele dell’artista, a partire da quella (fig. 2) conservata nei depositi di Capodimonte, attribuita al Beltrano da Bologna, che rientra tra gli esempi di ispirazione falconiana, addolcita da vigorosi effetti cromatici, mentre luci nette sono adoperate per scandire il severo modellato.
Lo stesso soggetto è stato trattato altre volte dal Beltrano, con un registro però stanzionesco, sia nel dipinto (fig. 3) di collezione De Lorenzo a Napoli, nel quale, oltre a riconoscere il caratteristico angelo incontrato in precedenza in tante tele dell’autore, apprezziamo un paesaggio definito con grande cura e con una chiara influenza delle coeve esperienze maturate dal Gargiulo, che incontriamo anche nella splendida tela (fig. 4) conservata a Salisburgo, firmata per esteso e datata 16..9., già segnalata dal Rolfs nel 1910.
Concludiamo mostrando un dipinto (fig. 5), conservato nei depositi della Gemaldegalerie di Dresda, probabilmente copia di un originale perduto.



fig. 2 - Sacrificio di Isacco - Napoli museo di Capodimonte
fig. 3 - Sacrificio di Isacco - Napoli collezione De Lorenzo
fig. 4 - Sacrificio di Isacco - Salisburgo Residenzgalerie
fig. 5 - Sacrificio di Isacco - Dresda Gemaldegalerie
 

sabato 22 agosto 2015

Un disegno inedito di Fedele Fischetti

fig. 1 - Fischetti Fedele - Alessandro e il medico Filippo - 140 x 225 mm. - disegno a penna, inchiostro bruno ed acquerello bruno – Torino collezione Cucchiara


Questo disegno settecentesco di scuola napoletana, che raffigura un episodio della vita di Alessandro Magno, riprende con una variazione iconografica un tema già rappresentato in un   dipinto del Fischetti oggi appartenente alla collezione della Ragione a Napoli. Lo stesso tema è ricollegabile al ciclo decorativo realizzato per il Palazzo napoletano dei duchi di Casacalenda.
Il disegno (fig. 1) si riferisce ad un episodio della vita di Alessandro Magno riportato da Plutarco, quando il condottiero, ammalatosi per essersi bagnato nelle acque di un fiume gelato, si affida con fiducia alla cura del medico Filippo sino a mettere la propria vita nelle sue mani, benché una lettera segreta inviatagli da Parmenione accusi lo stesso Filippo di essersi accordato con Dario per avvelenarlo.
E' noto un dipinto del medesimo soggetto attribuito a Fedele Fischetti che oggi fa parte della collezione della Ragione ( fig. 2 )
Questo disegno, che appare come opera finita piuttosto che come studio o bozzetto, potrebbe essere preparatorio per una stampa o per l'illustrazione di un libro, ma non può neppure escludersi  una sua funzione di presentazione al committente di un progetto decorativo.
Del Fischetti si conservano anche alcuni disegni specificamente riferibili alle decorazioni del Palazzo Casacalenda tra cui, nel Museo Hangierì, un bozzetto per l'episodio del Sogno di Alessandro e un'Allegoria di Giove in Olimpo con ai lati quattro Geni alati.
Un altro gruppo di disegni del Fischetti è posseduto dalla Società Napoletana di Storia Patria e  qui sarebbe utile un esame comparativo.
Notevole anche l'affinità, nell'uso dell'acquerello e nella definizione dei volti, tra questo disegno ed il foglio settecentesco conservato presso la Fondazione Pagliara a Napoli, attribuito ad un non meglio precisato artista "solimenesco". (fig. 3 ).


Figura 2    -  Alessandro Magno e il medico Filippo – 49 – 75 - Napoli collezione della Ragione


L'Artista
Fedele Fischetti (Napoli 1732 – 1792) si formò in ambito solimenesco nella bottega del Borrello ed aderì al classicismo romano di indirizzo batoniano.Lavorò tra il 1759 ed il 1766 nelle chiese napoletane eseguendo tele di qualità non eccelsa.Questo interessante esponente del barocco napoletano si fa notare con le sue opere giovanili dal Vanvitellì, di cui rimarrà per tutta la vita un protègè impegnato come decoratore in numerosi palazzì nobiliarì della città e delle principali residenze reali fuori della capitale del Regno. In queste vaste decorazionì a fresco, la tendenza a contemperare ì caratterì della locale tradizione figurativa, legata agli esempi del Solimena, del De Matteis, e del De Mura, con le nuove istanze classiciste e accademizzanti trovò gli esiti più brillanti.Tra le  moltissime commissioni ricevute grazie al Vanvitelli spicca nel 1770  l'incarico della decorazione a fresco di vari ambienti del palazzo napoletano della famiglia dei duchi di Casacalenda, al tempo in ristrutturazione dallo stesso Vanvitelli.Qui il Fischetti raffigurò, su precise indicazioni dello stesso architetto, alcune Storie di Alessandro Magno; gli affreschi staccati nel 1922 e nel 1956 dai saloni originari sono ora esposti nel Museo di Capodimonte. Nel 1771 lo stesso Vanvitelli aveva espresso parere favorevole alla sua ammissione tra i pittori che avrebbero decorato il palazzo reale di Caserta, e qui, tra il 1777-78 e il 1781, il Fischetti fu uno dei maggiori artefici accanto all'anziano Bonito.La ricerca di un linguaggio artistico più aderente alle nuove esigenze neoclassiche, libero dai legami con la tradizione, è presente con la stessa intensità così nella pittura come nella grafica.

Bibliografia
  • Fiengo G. – Documenti per la storia dell’architettura e dell’urbanistica napoletana del Settecento – Napoli 1977
  • Pisani M. – I Fischetti, in Napoli nobilissima, XXVII, pag. 112 -121 – Napoli 1988
  • Spinosa N. – La pittura napoletana del Settecento. Dal rococò al classicismo, fig. 271, scheda 206 – Napoli 1993
  • della Ragione A. – Collezione della Ragione, pag. 44 – 45 – Napoli 1997


Achille della Ragione

Figura  3 -  Ignoto solimenesco - Le 4 parti del mondo – Napoli collezione Pagliara

martedì 18 agosto 2015

Capolavori ed inediti di Mattia Preti in terra di Francia

 
Tav. 1 - Preti Mattia - Negazione di Pietro  - Carcassone, musée des Beaux Arts
 
Della Negazione di Pietro (tav.1) del museo di Carcassonne si ignora l’antica provenienza ed a lungo ne è stata contestata l’attribuzione al Cavaliere calabrese, fino a quando si è pronunciato Spike, massimo esperto dell’artista, il quale ritiene trattarsi di una delle prime opere del Preti da collocare al 1630 – 35. Egli fa notare che i dubbi nascono da alcune debolezze: i personaggi  sono tutti disposti in primo piano ed alcuni atteggiamenti sono resi in modo maldestro, come il braccio sinistro del soldato che si spinge fin troppo avanti o, al contrario, la mano destra della serva troppo indietro. Malgrado questi difetti, la leggera preparazione bruna, i riflessi argentati sull’elmo e la corazza del soldato, e alcuni particolari – il movimento della serva o il volto di San Pietro – sono caratteristici dell’opera del Preti, così come la grande forza drammatica della composizione resa con semplicità. Questa è una delle più evidenti testimonianze dell’adesione giovanile del Preti alla lezione del Caravaggio.

 
Tav. 2 - Preti Mattia - Crocifissione di San Pietro  - Grenoble, musée de peinture et sculputure
 
La Crocifissione di San Pietro (tav.2) del museo di Grenoble, già nella collezione della regina Cristina di Svezia prima del 1687, viene acquistata dalla città di Grenoble nel 1828.
Per le cospicue dimensioni probabilmente doveva essere una pala d’altare per una chiesa di Roma, forse rifiutata dai committenti e rimasta nella disponibilità del pittore.
Cronologicamente si inserisce certamente nel contesto delle grandi pale eseguite durante i primi anni Quaranta, nelle quali molto forte è il riferimento alla lezione del Caravaggio.
Nella tela in esame si può apprezzare come la rivisitazione di  motivi chiaramente ripresi dal Merisi viene rielaborata in spunti compositivi di grande effetto, ma senza la carica drammatica che avevano in Caravaggio. Si pensi alla splendida idea dell’angelo che irrompe dall’alto, chiaro ricordo da San Luigi dei Francesi, ma anche dalle Sette opere di Misericordia.
Nella tela di Grenoble la sequenza di piani determinata dal corpo del santo e dalla sua croce, nonché dalla ardita posa del carnefice in primo piano a sinistra, sottolineata dai tocchi di luce sulle spalle, la camicia e il polpaccio, dà un senso di profonda spazialità alla scena e di accentuato dinamismo.
 
 
Tav. 3 - Preti Mattia - Ritorno del figliuol prodigo  - Le Mans, musée de Tesse

Il Ritorno del figliuol prodigo (tav.3) fu acquistato dal museo di Le Mans con un’attribuzione a Caravaggio. Fu poi il Longhi ad attribuirlo correttamente al Preti, il quale nel corso della sua carriera ha replicato più volte la stessa iconografia, molto richiesta dalla committenza, in formati e strutture molto diversi tra loro. La versione francese è una delle più antiche rielaborazioni del tema, ancora intrisa di un naturalismo di ascendenza caravaggesca, riletto attraverso i modi del Guercino, con un gusto per il colore denso e compatto e con una definizione accurata della materia, sia essa stoffa, incarnato, elemento architettonico.
Siamo nei primi anni Quaranta, in un momento particolarmente fecondo nella produzione del Preti, al quale appartengono anche le due celebri versioni conservate a Napoli, tra Capodimonte e Palazzo Reale.
 
 
Tav. 4 - Preti Mattia - Mosè sul monte Sinai  - Montpellier, musée Fabre

Il Mosè sul monte Sinai (tav.4) del museo Fabre a Montpellier, anticamente attribuito al Poussin, è stato restituito dal Longhi al Preti assieme al suo pendant conservato a Tours. Cronologicamente si tratta di opere eseguite tra il 1630 ed il 1640, durante il soggiorno romano dell’artista, in un momento in cui trionfa nella città eterna la corrente neoveneta, che fa capo al Poussin, al Mola ed al Testa, a cui il Preti, oltre alla vena caravaggesca aderirà negli anni di formazione.
Il soggetto del dipinto mescola più episodi biblici più che riferirsi ad un momento preciso del racconto del passaggio degli Ebrei nel Sinai raccontato nell’Esodo (XXIV, 1 – 36).
La composizione coniuga felicemente l’eleganza del disegno all’intensità del colore con toni caldi grigio verde, bruni e giallo dorati, disposti su una preparazione leggera.
 
 
Tav. 5 - Preti Mattia - Trionfo di Sileno  - Tours, musée des Beaux Arts

Il Trionfo di Sileno (tav.5), pendant della tela precedente fu anche esso sequestrato nel 1799 alla Galleria Reale di Torino.
Spike, massimo conoscitore del Preti, ha messo in dubbio che, nonostante le medesime dimensioni, possano associarsi un soggetto profano come un baccanale ed un episodio tratto dall’Antico Testamento. Bisogna tener conto però che altre volte l’artista ha predisposto coppie di quadri  con un soggetto profano ed un soggetto religioso, come quelli conservati a Chambery: Morte di Didone (tav. 6) e Giuditta presenta agli Ebrei la testa di Oloferne (tav.7), di cui ora parleremo e la cui storia conosciamo dai tempi del De Dominici.
Narra infatti il celebre biografo che furono commissionati dal duca di Monte Accolici, per poi passare nella collezione del marchese Rinuccini, fiorentino, per adornare le sue nobili stanze.
 
 
Tav. 6 - Preti Mattia - Morte di Didone - Chambery, musée des Beaux Arts
 
Tav. 7 - Preti Mattia  - Giuditta mostra la testa di Oloferne  - Chambery, musée des Beaux Arts

Entrambi i dipinti sono datati dalla critica alla metà degli anni Cinquanta, subito dopo il soggiorno a Modena e poco prima degli anni trascorsi all’ombra del Vesuvio.
La tavolozza è improntata ad una gamma di colori giocata tra il nero, l’azzurro, l’argento e i grigi bronzei, a causa della potente suggestione della pittura emiliana.
Dal punto di vista iconografico è interessante notare l’associazione di un’eroina pagana con un’eroina biblica.
Già nella collezione del marchese Berio a Napoli la Morte di Sofonisba (tav.8) del museo di Lione è uno dei tanti quadri che il Preti ha dedicato all’episodio raccontato da Tito Livio. Nel quadro in esame la regina ha già vuotato la coppa di veleno e livida sembra già avvertirne gli effetti, mentre tutti i presenti sono volti verso di lei, che domina la scena guardando verso lo spettatore.
La critica ha ipotizzato più date per l’esecuzione del dipinto, ma il carattere teatrale della scena, fissata sullo sfondo mediante elementi architettonici e lo schiacciamento dei primi piani, ricordano il Veronese, la cui influenza è molto pregnante nei grandi banchetti dipinti nel corso del soggiorno napoletano tra il 1653 ed il 1660.
   
Tav. 8 - Preti Mattia - Morte di Sofonisba  - Lione, musée des Beaux Arts
Tav. 9 - Preti Mattia - Ecce Homo  - Chantilly, musée Condè

L’Ecce Homo (tav.9) del museo di Chantilly è collocato cronologicamente da Spike alla fase cosidetta eroica dell’artista, un periodo che va dal 1656 al 1666, prima che, trasferitosi a Malta da qualche anno, la sua pennellata perderà baldanza e creatività.
Il dipinto francese è collegato strettamente all’Andata al Calvario del museo di Capodimonte, col quale condivide il taglio compositivo, l’illuminazione della scena, la disposizione delle figure e il trattamento dei personaggi in secondo piano.
Comune è anche la provenienza, essendo entrambe citate nel novembre 1803 dal pittore Tommaso Conca, chiamato a valutare gli acquisti operati a Roma da Domenico Venuti per conto dei Borbone per arricchire le collezioni reali.
Concludiamo citando semplicemente due dipinti modesti collocabili cronologicamente alla fase maltese del Preti, quando la qualità della sua produzione scese notevolmente. Essi sono un Diogene con la lanterna (tav.10) del museo Ingres di Montauban ed un San Giovanni Battista (tav.11) conservato nel municipio di Falaise.
 
 
Tav. 10 - Preti Mattia - Diogene con la lanterna - Montauban, musée Ingres
Tav. 11 - Preti Mattia - San Giovanni Battista - Falais, Hotel de ville
 

lunedì 17 agosto 2015

La più bella chiesa di Capri




di Marina della Ragione


chiesa di  S. Stefano a Capri


La chiesa di Santo Stefano sorge sullo stesso luogo di un'altra chiesa dedicata a santa Sofia con in prossimità un vecchio convento benedettino, risalente al 580, di cui rimane solo il campanile sulla Piazzetta: la nuova chiesa fu costruita nel 1688 su progetto dell'architetto Francesco Antonio Picchiatti e completata, grazie alla realizzazione da parte di Marziale Desiderio, nel 1697; fu consacrata dal vescovo Michele Vandeneyndel il 17 maggio 1723, diventando cattedrale di Capri. Tuttavia i lavori di completamento definitivo si protrassero fino al 1751, quando fu sistemato il coro e alcuni accorgimenti all'interno; nel 1818, con la soppressione della diocesi di Capri, perse la sua funzione di sede vescovile.
La facciata della chiesa si presenta divisa in due da una trabeazione: la parte inferiore è caratterizzata da un portale principale, decorato con finti riquadri in marmo e due laterali, sormontati da nicchie nelle quali sono contenute statue di santi ed una serie di lesene, mentre la parte superiore, più piccola rispetto a quella sottostante, presente una ampio finestrone centrale e termina alle estremità con delle volute; su tutta la facciata sono riconoscibili diverse decorazioni in stucco.
All'interno la chiesa si presenta a croce latina, divisa in tre navate, dove quella principale è coperta da una volta a botte, mentre le due laterali, dove si aprono quattro cappelle su ogni lato, sono coperte da una serie di cupole: all'esterno, tali cupole, sono caratterizzate da tamburi con solchi verticali e contrafforti ad arco; la cupola principale, estradossata, si trova all'incrocio tra la navata centrale e il transetto.
La zona dell'altare maggiore è a forma di abside rettangolare: la mensa è stata realizzata tramite una colonna in marmo giallo proveniente dalla chiesa di San Costanzo, mentre la pavimentazione è in marmo policromo, proveniente da Villa Jovis; alle spalle dell'altare si trova l'organo. Nella navata di destra la prima cappella è dedicata a San Michele Arcangelo, con dipinto di Paolo De Matteis, la seconda è intitolata alla Vergine Maria e reca sull'altare una tela del XIX secolo raffigurante la Madonna tra gli angeli; segue la cappella della Madonna del Carmine, con dipinto della Vergine del Carmelo tra le anime del Purgatorio, sempre di fattura del De Matteis e la cappella del Sacro Cuore di Gesù, la quale, sulle pareti laterali, contiene dei reliquiari in legno risalenti al XVII secolo ed altri reliquiari, sempre in legno, a forma di statue di santi, tra cui quello del Sacro Cuore, opera di Giacomo Colombo, in origine raffigurante il Salvatore e poi riadattato[2]. La prima cappella della navata di sinistra ospita una tavola del XV secolo effigiante Sant'Antonio e San Michele con in mezzo la Madonna col Bambino, la cui leggenda narra sia tornata miracolosamente al suo posto dopo essere stata gettata dai corsari in una rupe, nella seconda cappella è presente il fonte battesimale ed è adornata con un dipinto che riproduce il battesimo di Gesù, opera della scuola del Solimena, la terza cappella è dedicata a san Nicola di Bari e la quarta è dedicata a san Giuseppe, con raffigurazioni della Sacra Famiglia sull'altare, di Maria ed il Bambino tra san Giuseppe e san Francesco sul lato destro e il transito di san Giuseppe sulla parete sinistra.
La parte destra del transetto è impreziosita da una tela di Andrea Malinconico, raffigurante Sant'Andrea ed una di Giacomo Farelli, rappresentate il martirio di san Giovanni, oltre ad un'epigrafe che ricorda la consacrazione della chiesa; sullo stesso lato del transetto si apre la cappella del Santissimo Crocifisso: sull'altare è posta una pala del VII secolo che ritrae Maria, Giovanni e Maria Maddalena ai piedi della croce, un crocifisso in legno del 1691 realizzato da Giacomo Colombo e, sulle pareti, le tombe di Giacomo e Vincenzo Arcucci, realizzate nel 1612 da Michelangelo Naccherino e trasferiti dalla certosa di San Giacomo nel 1891; interessante la prima tomba dove è una riproduzione della certosa posta nelle mani del suo fondatore. Nella parte sinistra del transetto si trova l'altare contenente le reliquie di san Costanzo, ornato con una tela di Giacomo Farelli che raffigura il santo mentre scaccia i saraceni e con la statua in argento impreziosita di zaffiri e granati; anche in questo lato del transetto si apre una cappella, dedicata al Santissimo Sacramento: sull'altare è un dipinto raffigurante la Madonna del Rosario, mentre ai lati uno rappresentante Gesù fanciullo, uno Maria Immacolata ed uno San Gioacchino e Sant'Anna, della scuola di Luca Giordano.

Marina della Ragione

martedì 11 agosto 2015

Come era bello il Lido Napoli




Sono ritornato dopo oltre mezzo secolo al Lido Napoli, quanta nostalgia di tempi felici, quando raggiungevo il mare con la Cumana da Montesanto con mia madre e mio fratello Carlo ogni giorno dalle 10 alle 17 ed erano gioco, mare e sole senza sorta di interruzione, ad eccezione di un pasto frugale consumato all’ombra della cabina, che tenevamo fittata dal 15 giugno al 15 settembre.
Mia madre preparava delle irripetibili frittate di maccheroni e dei panzarotti da schianto, innaffiati da Coca Cola e gassosa a volontà. Mio padre non amava il mare, bensì il lavoro(erano altri tempi, che mai più torneranno); trascorreva tutto il giorno in ufficio alla sede centrale del Banco di Napoli di via Toledo, dove era direttore della sezione di credito industriale e la sera verso le 19, ben oltre il consueto orario di lavoro, ritornava a piedi a casa(abitavamo in via Salvator Rosa) per cenare tutti assieme.
Ricordo che il mare alcuni giorni era già sporco come oggi, perché alla rada sostavano delle petroliere, che ogni tanto lavavano le cisterne, per cui a riva giungevano macchie di nafta da far impallidire la odierna schiuma di detersivi non biodegradabili tanto di moda oggi. In genere però l’acqua era limpida e fare il bagno una gioia immensa, alternata a fabbricare castelli di sabbia e pescare telline.
Le tracine erano molto diffuse e calpestarne una era un’esperienza imbarazzante, perché dotate di aculei pungenti, attraverso i quali diffondevano un veleno che procurava per ore dolori lancinanti.
A 800 metri dalla riva esisteva una torre, detta di Pulcinella. I più grandi la raggiungevano a nuoto, in gare settimanali, nelle quali eccelleva mio fratello Carlo, valente nuotatore ed il compianto Federico Ricciardi, detto Rirì,  a differenza di Elio Fusco e Guglielmo Benigno, costantemente ultimi.
Io mi divertivo a giocare a bocce, ero praticamente imbattibile, da quando undicenne vinsi la prima coppa Ceceniello.
Alcune ore le occupavo a raccogliere bottiglie vuote di vetro, per le quali si pagava un deposito di 10 lire. Ne raccoglievo tante da ricavare 300 – 400 lire al giorno, in un periodo in cui la raccolta differenziata era di là da venire; più o meno come oggi.
Ricordo le selezioni per il concorso Ondina Sport Sud e la volta che vinse Ornella Peroni, una nostra amica che portammo al successo con un tifo da stadio.
All’epoca, siamo negli anni Cinquanta, vi erano tre fermate del treno, in corrispondenza di vari ingressi, dei quali persiste oggi un solo scheletro della struttura in cemento armato, che incute profonda tristezza. Ma la vera differenza sta nelle cabine, centinaia e centinaia, nelle quali si depositavano costumi e secchielli, oggi completamente scomparse, sostituite da anonimi spogliatoi.
I treni passavano regolarmente ogni 15 minuti, oggi sono una presenza sporadica, tutti massacrati dalle insulse scritte dei writers, da tempo un flagello ubiquitario.
I bagnini erano tanti, ma anche oggi sono numerosi, giovani, aitanti e con una canottiera rossa per distinguerli a distanza.
La vera differenza è costituita nello stabilimento attuale da una spettacolare piscina, che permette di fare il bagno anche quando il mare è poco invitante.
Concludiamo questo tuffo tra passato e presente con una considerazione sui frequentatori: una volta la migliore borghesia napoletana, che ignorava cosa fosse la villeggiatura, oggi un pubblico che la brama, ma non può permettersela, molti volti patibolari, ma tutto sommato brava gente.