domenica 26 febbraio 2017

Una chiesa negata alla fruizione

Chiesa della Santissima Annunziata, Pizzofalcone- Napoli


La chiesa della Nunziatella, sita nei pressi dell'omonima e gloriosa scuola militare, è uno degli edifici sacri più prestigiosi della città ed è praticamente negato alla fruizione di turisti e appassionati d'arte.
Infatti i fedeli possono tranquillamente ascoltare la messa la domenica, poscia la chiesa con i suoi capolavori di Francesco de Mura e di tanti altri artisti famosi chiude inesorabilmente.
Se un'associazione culturale benemerita, come quella che da quindici anni guido con piglio autorevole, volesse visitare la chiesa, dovrebbe sottoporsi ad un assurdo diktat, imposto dalle autorità militari: stipulare preventivamente un'assicurazione che copra eventuali incidenti durante il percorso e fornire con grande anticipo copia del documento d'identità dei partecipanti.
Imposizioni a cui non sono sottoposti i fedeli, forse perché protetti dall'alto dei cieli e perché non hanno nulla da nascondere sulla loro identità.
Una disposizione che grida vendetta o quanto meno richiede ragionevole giustizia e sulla quale chiedo al Ministro della Difesa (anche se in questo caso si tratta di un'offesa) di pronunciarsi, ricordandogli che la chiesa è patrimonio di tutti i Napoletani, che debbono poterla visitare quando vogliono e mostrarla con orgoglio ai numerosi turisti, che finalmente hanno capito che Napoli è una grande capitale che merita di essere conosciuta in tutto il mondo.
Presidente e dux imperituro degli Amici delle chiese napoletane.

Amici delle chiese napoletane

martedì 21 febbraio 2017

"Scritti sulla pittura del Seicento e Settecento napoletano" II tomo

In 1^ di copertina
Filippo Vitale, Giuditta e Oloferne
Napoli collezione privata


Un prezioso libro di Achille della Ragione


"Scritti sulla pittura del Seicento e Settecento napoletano" II tomo, raccoglie una serie di articoli pubblicati dall’autore nel 2016 su riviste cartacee e telematiche. Si tratta in prevalenza di contributi alla storia della pittura napoletana del Seicento e del Settecento, ma non è trascurato il mercato e soprattutto l’invito a scoprire, in egual misura, capolavori inediti ed autori poco noti.
Un eccitante articolo è dedicato all’erotismo nella scultura, un argomento trascurato e che merita di essere conosciuto, come pure sono recensiti alcuni dei più importanti libri d’arte usciti negli ultimi mesi.
Il primi 5 capitoli, i più importanti, sono dedicati ad esaminare una importante collezione privata napoletana, ricca di autori prestigiosi e della quale a breve uscirà un esaustivo catalogo.
Un libro che non potrà mancare nella biblioteca di studiosi ed appassionati e che potrebbe costituire una splendida strenna da regalare ad un amico.
Non mi resta, nel ringraziare Dante Caporali, autore delle splendide foto, che augurarvi buona lettura.

Marina della Ragione

Il libro si può ordinare presso
Libro Co Italia – tel. 055 8229414 – 055 8228461
libroco@libroco.it
Libreria Neapolis – tel. 081 5514337
info@librerianeapolis.it



 Scarica il PDF
in 4^ di copertina
Luca Giordano, Crocifissione di San Pietro
Napoli collezione privata


 
INDICE
  • Prefazione   
  • Da Ribera a Stanzione, il trionfo della pittura   
  • Interessanti inediti del Settecento napoletano  
  • Esemplari di natura morta napoletana in posa 
  • Battaglisti napoletani in trincea 
  • Tre capolavori di Giordano di una raccolta napoletana  
  • Pietro Pesce, chi era costui?  
  • Il trionfo dell’erotismo nella scultura napoletana tra ’800 e ’900  
  • Due importanti aggiunte al catalogo di Giuseppe Marullo  
  • Un Andrea Vaccaro in Uruguay  
  • Il bestseller dell’estate 2016  
  • S.O.S. per la chiesa di S. Chiara   
  • Il Monogrammista SB, un pittore da identificare  
  • Un importante documento di battesimo   
  • Un gioiello d’arte sconosciuto: Palazzo Tirone Nifo 
  • Percorsi sacri tra Vomero ed Arenella  
  • Inediti di Stanzione e Solimena in asta a Roma  
  • Importanti dipinti antichi napoletani alla Blindarte 
  • La sindrome di Caravaggio   
  • Recensione la natura morta napoletana del Seicento 
  • I tesori nascosti. Tino da Camaino, Caravaggio, Gemito 
  • Mostra su Salvatore Fergola a Palazzo Zevallos 
  • Mostra su Artemisia Gentileschi a Roma  
  • Museo del giocattolo a San Domenico Maggiore  

 Scarica il PDF



sabato 18 febbraio 2017

Da Ribera a Stanzione, il trionfo della pittura

fig.1  - De Simone -Entrata di Gesù a Gerusalemme

Niccolò de Simone, “geniale eclettico” dalle molteplici componenti culturali, fu pittore e frescante, operoso per oltre venti anni sulla scena napoletana e, pur con le difficoltà di classificare il suo pennello multiforme, in grado di recepire le più diverse influenze, può rientrare ragionevolmente nella cerchia falconiana, in parte per il racconto fantasioso del De Dominici, che ce lo descrive partecipante alla Compagnia della morte, ma precipuamente per un evidente rapporto stilistico con la produzione di Aniello Falcone, di Andrea De Lione e di Domenico Gargiulo, da cui prendono ispirazione molte delle sue opere.
Oggi la critica, grazie ai contributi prima della Novelli Radice e poi, più volte, della Creazzo e dopo la pubblicazione della mia monografia sull’artista: “Niccolò de Simone un geniale eclettico” conosce più che bene i caratteri distintivi del suo stile pittorico: anatomie sommarie, tipica concitazione delle scene, caratteristico volto delle donne, tutte mediterranee dai pungenti occhi scuri, assenza di profondità spaziale con bruschi passaggi di scala, evidentissimi nel dipinto in esame: Un’entrata di Gesù a Gerusalemme (fig.1), folle in preda ad un’intensa agitazione, cieli tempestosi e baluginanti, squisita sensibilità da espressionista nordico, ripetitività nella costruzione dell’impianto generale della scena, personalissima resa cromatica nell’uso di colori stridenti ed incarnati rossicci.

  
fig.2 - Francesco Fracanzano -Santo in meditazione

Figlio di Alessandro ed Elisabetta Milazzo, Francesco Fracanzano, fratello minore di Cesare, nacque a Monopoli, in terra di Bari, il 9 luglio 1612. Trasferitosi a Napoli con la famiglia nel 1622, si sposò nel 1632 con la sorella di Salvator Rosa, Giovanna. Sempre a Napoli, secondo la testimonianza del De Dominici, si formò con il fratello nella bottega del Ribera, aderendo a quella svolta nella pittura napoletana dell’epoca alla quale partecipano artisti come Guarino ed il Maestro dell’annuncio ai pastori con il quale è stato spesso confuso. Si pensa possa essere scomparso con la peste del 1656, anche se alcuni documenti di pagamento lo mostrano ancora al lavoro nel mese di maggio.
La rappresentazione di mezze figure di santi e filosofi, investigati con crudo realismo, fu una moda nata nella bottega del Ribera a Napoli ed affermatasi poi anche in provincia grazie ai suoi discepoli, tra i quali, con una rilettura originale, si annovera anche il sommo Luca Giordano, che più volte ritornerà sul tema nel corso della sua lunga carriera, dilatando oltre misura la sua fase riberesca, identificata erroneamente dalla critica con un periodo unicamente giovanile.
Tra i più convinti seguaci del valenzano si distingue Francesco Fracanzano, il quale lavorando con il Ribera ne recepì la stessa predilezione per la corposità della materia pittorica e ripropose spesso i soggetti più richiesti dalla committenza: studi di teste e mezze figure di filosofi e profeti su fondo scuro.
Un omaggio al Ribera più che una copia da un originale perduto va considerato il poderoso Santo in meditazione (fig.2) della collezione privata in esame, che mostra ancora una volta la funzione del Fracanzano nella bottega del grande spagnolo: creare dipinti talmente perfetti da poter agevolmente essere venduti come autografi del maestro e questa consuetudine può spiegare l’assenza di firme sotto le infinite mezze figure di santi e filosofi prodotti da Francesco nel corso di vari anni, che, dopo aver adornato le austere sale di notabili ed eruditi, invadono da tempo il mercato antiquariale e le aste internazionali, cercando ancora una volta di passare col nome del Ribera.

fig.3 - Domenico Coscia - Deposizione

Il Giordanismo costituì per decenni una realtà vera e pulsante nel patrimonio artistico napoletano, perché, all’ombra del grande maestro e della sua affollata bottega, partorì una quantità sterminata di dipinti di diversa qualità, che, per decenni, sono stati confusi o contrabbandati sotto il nome del Giordano e che ora la critica, avendo cominciato a distinguere la non sempre netta linea di demarcazione tra i lavori di Luca e l’opera dei suoi allievi più dotati, riesce a definire con sempre maggiore precisione.
Una piacevole eccezione è costituita dalla scoperta, nel 2007, sul mercato antiquariale napoletano di tre dipinti su vetro, di notevole qualità, chiaramente giordaneschi, da me pubblicati, uno dei quali siglato DC  P (inxit), raffigurante un angelo che porge dell'acqua a Cristo. Ed ecco ricomparire dopo un oblio secolare un allievo del sommo Giordano, Domenico Coscia, citato dal De Dominici, quale specialista nella pittura su cristallo e mai ricomparso all'attenzione degli studiosi, autore della palpitante Deposizione (fig.3) presente nella raccolta in esame.
Un piccolo passo verso una maggiore conoscenza del glorioso secolo d'oro della nostra pittura.

fig.4 -Vitale -Giuditta ed Oloferne

Alla fase luministica del caravaggismo appartiene l’attività giovanile di Filippo Vitale, un artista di rilievo, quasi completamente trascurato dalle fonti antiche e la cui personalità è stata ricostruita solo negli ultimi decenni.
Egli è imparentato con Annella e Pacecco De Rosa di cui è patrigno, con Giovanni Do, Agostino Beltrano ed Aniello Falcone di cui è suocero. Un tipico esempio di quella ragnatela di parentele che lega molti altri pittori napoletani del primo Seicento, i quali abitarono quasi tutti nella zona delimitata tra piazza Carità e lo Spirito Santo, vera Montmartre dell’epoca. Su tanti intrecci ci ha illuminato la ricerca durata un’intera vita di un benemerito erudito, il Prota Giurleo, il quale con certosino lavoro di spulcio di processetti matrimoniali, testamenti, fedi di battesimo, polizze di pagamento ed inventari, ha fornito ai critici una mole enorme di dati e di documenti sulla quale lavorare per ricostruire la personalità di tanti artisti.
Giuditta ed Oloferne (fig.4), intrisa di fiera crudeltà con il particolare del collo mozzato, inondato da un fiotto di naturalistico sangue arterioso, che gronda  a zampilli, vera scena da film dell'orrore, fu tra le tele più ammirate alla grande mostra Ritorno al barocco tenutasi a Napoli nel 2009 (pag.76-77). La tela era stata presentata l'anno precedente alla grande mostra monografica su Filippo Vitale organizzata dalla galleria Napoli Nobilissima di Vincenzo Porcini e commentata magistralmente nel catalogo da Giuseppe Porzio: "Soggetto caravaggesco per eccellenza l'efferatezza con cui esso è interpretato nell'inedita tela (proveniente da una raccolta inglese) non può non serbare il ricordo dell'originale disperso del Merisi, ovvero l'Oliferno con Giuditta che Franz Pourbus vide a Napoli, nello studio di Finson e Vinck, nel 1607 di cui la derivazione più fedele è riconosciuta nel dipinto oggi nella collezione del Banco di Napoli, nel quale si tende a ravvisare la mano del Finson medesimo.

fig.5 - Stanzione - Giuditta ed Oloferne

La Giuditta con la testa di Oloferne (fig.5), nonostante la concorrenza di tanti capolavori presenti nella collezione, a mio parere può vantare la palma del quadro più bello e più importante.
L'autore è un nome prestigioso nel panorama artistico del secolo d'oro: Massimo Stanzione, nella fase meno nota della sua attività, quando subisce l'influsso del naturalismo caravaggesco, che riesce però a mitigare delineando con estrema dolcezza il volto della fanciulla e le sue mani dalle dita affusolate, che reggono con fierezza ed orgoglio il capo reciso di Oloferne.

fig.6 - Ignoto caravaggesco - Sacrificio di Isacco
fig.7 - Ignoto stanzionesco -San Sebastiano

Di difficile attribuzione è Il sacrificio di Isacco (fig.6), che ha messo in imbarazzo anche numerosi ed emeriti esperti che ho consultato al fine di identificarne l'autore.
Il nome più gettonato è stato quello di Filippo Vitale, ma alcune figure, in particolare il volto del fanciullo in alto a sinistra della composizione, richiama a viva voce il pennello di Giuseppe Vermiglio, un caravaggesco lombardo attivo anche a Roma.
Il San Sebastiano (fig.7) trafitto dalle frecce dall'epidermide delicata è attribuibile ad un ignoto stanzionesco, che mi rammenta i modi pittorici di Giuseppe Marullo, un'artista a me caro avendogli dedicato anni fa un'esaustiva monografia.
L'Ecce Homo (fig.8) ci guarda con cipiglio severo e sembra ammonirci a non sbagliare nell'attribuzione.
Assegnato con certezza al Ribera dal compianto prof. Pacelli, riconosciuto esperto dell'opera del valenzano, trovandosi l'originale presso un museo spagnolo, la Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, deve viceversa ritenersi replica autografa con partecipazione della bottega nella definizione di alcuni particolari.
Anche la Santa Cecilia al cembalo (fig.9) è replica autografa di un dipinto del Vouet, il cui originale è conservato nel museo del Texas. L'eleganza del panneggio e l'eterea sensualità della mano, che fa desiderare un'amorevole carezza, sono il segno ineludibile di una qualità altissima.

 Achille della Ragione


fig.8 - Ribera - Ecce homo

fig.9 - Vouet - S. Cecilia al cembalo

Interessanti inediti del Settecento napoletano

01 - Tommaso Castellano - Architetture antiche
02 - Tommaso Castellano - Architetture antiche
03 - Tommaso Castellano - Architetture antiche -firma


Cominciamo la nostra entusiasmante carrellata facendo conoscere due pendants (fig.1-2) raffiguranti antiche rovine, che sembrerebbero opera di Leonardo Coccorante o di Ascanio Luciani e che viceversa possiamo assegnare con certezza, perché uno dei due è firmato (fig.3) chiaramente, a Tommaso Castellano, un'artista di cui mi sono interessato in passato in un articolo su Giorgio Garri, del quale la più antica testimonianza ci è fornita dal De Dominici, che lo segnala nella bottega di Nicola Casissa, per quanto fosse suo coetaneo.
Anche Giorgio appartiene ad una famiglia di generisti, infatti suo fratello Giovanni fu “buon pittore di marine e paesi” e la sua figliola Colomba brava nel realizzare “fiori e pescagione ed anche cose dolci, seccamenti, cose da cucina e sul finir dell’attività anche vedute di città in prospettiva” sposa il pittore ornamentista  Tommaso Castellano, autore dei due pendant in esame ed anche le sue figlie Ruffina, Apollonia e Bibiana furono avviate al disegno ed ai pennelli con un mediocre successo.
  
04 - Ignoto solimenesco -Transito di S. Giuseppe
05 - Ignoto solimenesco - Madonna e santo
06 - Ignoto solimenesco - Scena biblica

Passiamo ora ad esaminare una coppia di pendants (fig.4-5) di notevole qualità, assegnabili ad un valido allievo, difficile da identificare, del Solimena. Entrambi vibrano di un cromatismo vivace e di un diligente assetto disegnativo.
Di qualità ancora più alta e sempre da assegnare ad un valido seguace del Solimena è Una scena biblica (fig.6) in cui capre e figure umane sono eseguite con pari abilità, in un'atmosfera solenne ed arcadica nello stesso tempo.

07 - De Mura - Testa di fanciulla
08 - Lorenzo De Caro - Martirio di S. Stefano

Molto dolce e delicata è la Testa di fanciulla (fig.7), con grande probabilità un frammento da un dipinto di De Mura, il quale irradia un'aurea di eterea serenità all'osservatore.
Nel 1708 a soli dodici anni Francesco De Mura entra nella bottega del più illustre pittore della prima metà del XVIII secolo: Francesco Solimena. L’allievo applicò una assidua didattica disegnativa a tutto ciò che apprendeva dalla bottega del maestro.
Il martirio di S. Stefano (fig.8) di rara potenza espressiva, da taluni studiosi attribuito ipoteticamente a Sebastiano Conca, è a mio parere assegnabile con certezza al pennello di Lorenzo De Caro, per cogenti affinità stilistiche e per il prelievo letterale di alcune figure da altri dipinti documentati dell'artista, tra cui Il martirio di un santo, conservato a Napoli nella prestigiosa collezione della Ragione.
Lorenzo De Caro fu insigne pittore del glorioso Settecento napoletano, anche se fino ad oggi conosciuto solo dagli specialisti e dagli appassionati più attenti. Una serie di dipinti presentati sempre più di frequente nelle aste internazionali, una recente piccola monografia ed alcune fondamentali scoperte biografiche costituiranno un viatico per una sua più completa conoscenza da parte della critica ed una maggiore notorietà tra antiquari e collezionisti. Verso la fine degli anni Cinquanta si manifesta il momento migliore nella sua produzione, quando, pur partendo dagli esempi del Solimena, ne scompagina la monumentalità attraverso l’uso di macchie cromatiche di spiccata luminosità e, rifacendosi ai raffinati modelli di grazia del De Mura, perviene ad esiti di intensa espressività, preludendo l’eleganza del rocaille.

09 - De Matteis - Madonna

L’allievo più importante partorito dalla costola del Giordano è Paolo De Matteis, che seppe evolvere il Barocco del suo maestro in una lieta e diafana visione, arcadica e classicistica; a lui il De Dominici, riconoscendone la statura, dedicò una trattazione a parte nelle sue celebri “Vite”.
La critica negli ultimi decenni ne ha scandagliato più a fondo lo stile e la personalità e l’artista oramai è emerso come il più esemplare precorritore dei tempi moderni e come il più significativo battistrada della nuova pittura napoletana prima dello scadere del secolo.
Oggi il De Matteis occupa un posto di primo piano nel panorama delle arti figurative partenopee di fine secolo ed ha superato in bellezza il giudizio poco lusinghiero che ebbe nei suoi riguardi la Lorenzetti, la quale, nello stilare il catalogo della mostra su tre secoli di pittura napoletana nel 1938, lo definì stanco ripetitore dei modi del Giordano ed emulo impari del Solimena.
La figura della Madonna (fig.9) molto dolce, è resa con la stessa grazia delle altre Madonne che il De Matteis dipinse in quel periodo. La struttura disegnativa di chiara derivazione marattesca, lo schema compositivo svolto secondo la normativa accademica del ritmo centrale, l'elegante finitezza dei particolari pongono questa pala quale testimonianza emblematica della sua produzione sacra a cavallo dei due secoli. L'artista infatti nei suoi dipinti di soggetto sacro ambiva a che fossero il tramite di una serena contemplazione della divinità e su questo atteggiamento molto influirono le predicazioni di padre Antonio Torres, confessore del marchese Del Carpio estremo difensore di un rigoroso purismo linguistico.
   
010 - Traversi - Mangiatori
E concludiamo in bellezza con un vero capolavoro: Mangiatori di pasta (fig. 10), attribuibile al di là di ogni dubbio a Gaspare Traversi, uno dei più importanti pittori napoletani del Settecento, caustico censore della società del suo tempo ed avido di passare all'immortalità della tela personaggi della plebe impegnati in fisiologiche funzioni quotidiane, come possiamo ammirare nel dipinto in esame.
Gaspare Traversi (Napoli 1722 – Roma 1770) trasse dalla strada  la fonte per le sue composizioni, coniugando le caratteristiche fisiognomiche, spesso ambigue, dei personaggi rappresentati, alla espressiva gestualità rivelatrice dei loro caratteri, che testimoniano l’interesse dell’autore nel ritrarre la realtà sociale del suo tempo, attraverso i volti e gli atteggiamenti di personaggi umili, con uno stile teso al recupero dei modelli tradizionali della pittura napoletana del secolo precedente, tra cui gli esempi di matrice caravaggesca, volti a cogliere l’oggettività della rappresentazione.

Achille della Ragione




giovedì 16 febbraio 2017

Esemplari di natura morta napoletana in posa

Fig.1 - Giacomo Recco - Vaso di fiori

La pittura di genere, il paesaggio e, in particolare, la “Natura morta” ebbero a Napoli, nel Seicento, grande sviluppo. Tema privilegiato dell’indagine naturalistica di pittori fiamminghi e caravaggeschi, la natura morta subì, nella pittura napoletana, una sorta di trasposizione in chiave barocca, con graduale passaggio dall’effetto di ammirazione per la fedeltà oggettiva della rappresentazione a quello di stupore e meraviglia per la fantasia dell’invenzione compositiva.

 
Fig.2 - Giacomo Recco - Vaso di fiori
Giacomo Recco, (Napoli 1603 - prima del 1653) considerato dalla critica tra gli iniziatori della natura morta nella nostra città, ci è noto, più che per le sue opere, attraverso numerosi documenti d’archivio, che ci hanno permesso di puntualizzare i suoi dati biografici.
Citato da don Camillo Tutini tra i fondatori del genere a Napoli, viene poi ricordato in un manoscritto compilato tra il 1670 ed il ’75, reperito dal Ceci, come «pittore di fiori, frutti, pesci ed altro». Il De Dominici lo segnala come padre di Giuseppe. Il Prota Giurleo reperisce il contratto di matrimonio del 1627, da cui ricava la data di nascita ed il contratto di discepolato del 1632, con il quale viene messo a bottega presso Giacomo il quindicenne Paolo Porpora. Ed infine il Delfino ha pubblicato un documento del 1630, nel quale il Nostro entra in società con uno sconosciuto pittore, tale Antonio Cimino, con l’intento di esercitare la compravendita di dipinti e di eseguire «qualsivoglia quadri, et figure di qualsivoglia sorta ... ad oglio come a fresco».
Pur in assenza di tele certe e documentate, sulla base di queste poche notizie e di considerazioni di carattere stilistico, la critica ha ricostruito un catalogo dell’artista a partire da un «Vaso di fiori» in collezione Rivet a Parigi, su cui si legge la data 1626 e da una coppia di vasi di fiori in collezione Romano, di cui uno siglato «G.R.», di impostazione arcaica, tale da non generare dubbi con la sigla di Giuseppe Recco.
Negli ultimi anni, ad ulteriore conferma della confusione che regna sovrana in campo attribuzionistico, sono passati in asta numerose opere assegnate più o meno forzatamente a Giacomo Recco, che è così divenuto, da pittore senza quadri, artista di riferimento di una folla di anonimi autori di dipinti di fiori i più varii, nel cui ambìto contenitore di fiorante entrano ed escono le tele più disparate.
Le opere raggruppate sotto il nome di Giacomo Recco, pur nell’ipotesi che la critica cambi completamente le sue valutazioni da un momento all’altro, presentano una serie di caratteri distintivi molto particolari, che sono espressione di una personalità artistica ancora attirata dal repertorio cinquecentesco ricco di fregi e di decorazioni, poco o nulla toccata dai risultati delle indagini luministiche e nello stesso tempo fortemente influenzata dalla leziosità ed artificiosità dei fioranti fiamminghi.
Il vaso assurge a punto focale della composizione e, riccamente decorato, ha pari dignità con i fiori, disposti sempre simmetricamente ed illuminati in maniera innaturale, pur se definiti minuziosamente nella loro verità ottica, tanto da sfidare la precisione scientifica di uno Jacopo Ligozzi.
Delle caratteristiche che riscontriamo nei due pendant (fig.1-2) della collezione in esame, attribuiti a Giacomo da Ferdinando Bologna
La fama di Giacomo Recco è legata alla sua abilità di fiorante, quasi uno specialista nella specialità, e aumentò con ogni probabilità contemporaneamente a quella di Mario Nuzzi detto Mario dei fiori, a lungo erroneamente ritenuto regnicolo, il cui nome crebbe nei secoli, mentre il prestigio di Giacomo in poco tempo svanì quasi nel nulla, per riemergere faticosamente dopo oltre 300 anni di oblìo.
I tantissimi inventarî di collezioni napoletane raramente descrivono opere di Recco senior, quello del Vandeneynden riporta un suo quadro di frutti di mare e pesci. Altri documenti ricordano stranamente, uccellami e frutta, pesci ed una figura rappresentante la pietà, mai un vaso con dei fiori.

Fig.3 - Elena Recco - Trionfo marino

La nipote di Giacomo Elena Recco (attiva tra la fine del XVII secolo e l’inizio del successivo) predilesse del padre Giuseppe l’iconografia marina, dove riuscì a raggiungere esiti più che cospicui. Ella si recò in Spagna con il genitore nel 1695 e lì si trattenne per qualche tempo, lavorando per la corte, dove negli inventarî risultano alcune tele di soggetto floreale al momento non rintracciate.
Le uniche sue opere certe sono due composizioni di pesci, una delle quali firmata, conservate nel castello di Donaveschingen, illustrate dal Di Carpegna.
La critica ha affiancato a queste due tele un gruppo di altri dipinti conservati nel museo di Varsavia, nel museo Puskin a Mosca e nella City Art Gallery di Leeds.Di recente in aste nazionali ed internazionali sono passate composizioni marine assegnate ad Elena Recco ed alcune di queste posseggono i caratteri distintivi per una attribuzione certa.
Una particolare tinta rosata delle squame unita ad una sprizzante vitalità delle prede appena pescate che brillano lucentezza e trasudano l’umido del mare sono i caratteri patognomonici della pittrice, che nelle tele veramente sue ben si è meritata il successo e la considerazione che godette tra i suoi contemporanei.
Purtroppo sul mercato circolano tele di modesta qualità che di Elena Recco hanno soltanto il nome imposto da antiquarî desiderosi di etichettare sempre e comunque qualsiasi opera.
Per identificare le tele di Elena, spesso fatte passare da antiquari spericolati per opere di Giuseppe, le quali godono di una maggiore quotazione, esiste un segreto: bisogna attentamente osservare le squame dei pesci, caratterizzate costantemente da una tonalità virante dal rosa al rosato, come possiamo constatare nella tela in esame (fig.3) un vero e proprio trionfo marino nel quale distinguiamo triglie, razze, un polipo, posti su un piano di pietra, opera certa di Elena Recco, che eredita dal padre la rara capacità di fissare sulla tela il delicato momento del trapasso tra la vita e la morte e si fa riconoscere dagli intenditori per il tenue colorito rosato con cui definisce le squame dei pesci. La presente attribuzione si basa su confronti stilistici con altre opere di Elena Recco, a partire dal dipinto firmato raffigurante un trionfo di pescato al castello di Donaveschingen in Germania, da cui sembra ripresa per analogo taglio compositivo, seppure in formato ridotto, la razza nel dipinto in esame. I riflessi argentei e grigio azzurri alternati alla particolare tinta rosata delle squame dei pesci e alla guizzante torsione dei loro corpi sono tutti aspetti che denunciano la mano abile dell’artista, che sa restituire la freschezza e l’abbondanza dei doni del mare.

Fig.4 - Ruoppolo G.B. - Grappoli d'uva e frutta

Giovan Battista Ruoppolo, (Napoli 1629 – 1693), è assieme al coetaneo Giuseppe Recco una delle figure chiave della natura morta napoletana della seconda metà del Seicento con doti di colorista spinte fino al lirismo più acceso, egli sa infondere alle sue creazioni una luce con accenti di tale energia da trasfondere nelle sue vegetazioni uno splendido canto e ad imporre alle sue cascate di frutta un ritmo ed un fremito di vita.
Il percorso artistico del Ruoppolo, scandito da poche firme e ancor meno date, prende il via poco dopo il 1650 e si svolge senza sosta per oltre un quarantennio. Egli è ai suoi inizi un rigoroso naturalista, che ha studiato il suo luminismo violento d’ombre e vivissimo sui testi sacri di Battistello e di Stanzione.
La sua prima opera documentata, firmata «G.B. Ruoppolo», è Sedani e boules de neige, conservata allo Ashmolean Museum di Oxford.
Intorno a questo fondamentale dipinto la critica ha raggruppato numerose tele improntate da spiccati interessi naturalistici.
Nel settimo decennio gli interessi iconografici del Ruoppolo virano verso tematiche portate al successo da Giuseppe Recco, poi si converte al trionfante gusto barocco,
di Abraham Brueghel, discendente della gloriosa famiglia di generisti fiamminghi e portatore di un nuovo verbo superficiale ed incline al facile decorativismo.
Sono gli anni del Ruoppolo più noto al grande pubblico, l’artista idolatrato dal De Dominici che lo eleva ad indiscusso caposcuola, da cui prenderanno ispirazione i suoi numerosi seguaci ed i tanti imitatori.
Giovan Battista comincia la serie dei trionfi vegetali e marini, delle cascate di fiori e di frutta, in cui i colori assurgono ad una dimensione trionfante e la luce viene a dilatarsi sulle superfici ancora indagate con antico scrupolo naturalista.
Il rigoglio espositivo raggiunge il culmine nei meloni, spesso presenti nelle sue tele, nelle tipiche superfici rugose, o nei grandi cocomeri, tipici delle fertili pianure campane, variopinti e ben torniti nei loro volumi con la consueta perizia plastico luministica.
Tutti i suoi ultimi dipinti sono immersi in un’atmosfera «dorata che assorbe i volumi, si aggruma sulle superfici e le impreziosisce: i pampini si ravvolgono frenetici sui tronchi delle querce, esplodono ceppaie di funghi, chicchi, nervature, foglie, viticci, si fanno perle, rugiada, umori occidui, rubini la polpa rossa del cocomero tagliato; i più agevoli, i più facilmente immaginabili  tra i possibili traslati analogici e metaforici» (Causa).
Il nostro, Grappoli d’uva e frutta (fig.4) fa parte di un tema che a partire dal 1675 ebbe grande successo nella natura morta napoletana, quello dei grandi trionfi vegetali di fiori e di frutta, delle spettacolari cascate di grappoli d’uva: nera, bianca e cornicella. Queste composizioni di uva, sembrano cantate a pieni polmoni da un novello Bacco, innamorato del loro succo dolce ed acre.
L’allegra composizione di un vivace cromatismo è resa con l’antica predilezione del maestro verso la resa naturalistica, che fa apparire estremamente realistica la frutta rappresentata, tanto da indurre l’estasiato osservatore a pregustarne il sapore.
Queste opere fastose e ridondanti, questi trionfi orgiastici e prorompenti, sospesi in una luce purissima, sono il canto del cigno per Ruoppolo, al quale si associa con flebile suono una folla di comprimari, di seguaci, di imitatori che solo da poco la critica ha imparato a riconoscere ed ai quali ha destinato un suo spazio nel gran libro ideale del genere della natura morta nel secolo d’oro della pittura napoletana.

Fig.5 - Lopez - Trionfo floreale
La natura morta settecentesca è degnamente rappresentata da un Trionfo floreale in un vaso a grottesche (fig.5) di Gaspare Lopez, un allievo del Belvedere, trasferitosi poi al nord tra Firenze e Venezia, dove fu artefice di una pittura ornamentale, segnata costantemente da un brillante cromatismo.
Nella tela, già presso l’antiquario Parenza a Roma, si osserva “la tipica modalità del pittore nel disporre i fiori in sintonia col gusto rococò dominante a Napoli nei primi decenni del secolo” come sottolinea il mio amico Sgarbi. Una caratteristica che possiamo riscontrare in altre tele del Lopez, come nel Fiori, anguria e maioliche del museo Filangieri di Napoli e nel Vaso di fiori entro un paesaggio di collezione privata modenese, caratterizzato da “una vivissima accensione cromatica che riscatta il taglio compositivo piuttosto convenzionale” (Middione), ma soprattutto in una coppia (tav.66-67) di identiche dimensioni, presso l’antiquario Tornabuoni di Firenze, nella quale oltre al giardino, compaiono alcuni oggetti sovrapponibili come lo splendido piatto decorato. “Si tratta di esempi di straordinaria freschezza di quel gusto pastorale e boschereccio, amante della vita in villa e di una natura addomesticata e graziosa così caratteristica del Settecento” (Berti).

Achille della Ragione

martedì 14 febbraio 2017

Battaglisti napoletani in trincea

fig.1 - Graziani - Battaglia
Un genere che incontrò larga affermazione nella pittura napoletana del Seicento e lusinghiero successo tra i collezionisti fu la battaglia, la quale è ben rappresentata nella collezione in esame.
La nobiltà amava adornare le pareti dei propri saloni con delle battaglie raffiguranti singoli atti di eroismo o complessi combattimenti che esaltavano il patriottismo e l’abilità bellica, virtù nelle quali i nobili amavano identificarsi.
Anche la Chiesa fu in prima fila nelle committenze, incaricando gli artisti di raffigurare gli spettacolari trionfi della cristianità sugli infedeli, come la memorabile battaglia navale di Lepanto del 1571, che segnò una svolta storica con la grande vittoria sui Turchi, divenendo ripetuto motivo iconografico pregno di valenza devozionale, replicato più volte per interessamento dell’ordine domenicano, devotissimo alla Madonna del Rosario, la quale seguiva benevolmente le vicende terrene dall’alto dei cieli.
Altri temi cari alla Chiesa nell’ambito del genere furono ricavati dall’Antico e dal Nuovo Testamento, quali la Vittoria di Costantino a ponte Milvio o il San Giacomo alla battaglia di Clodio, argomenti trattati magistralmente da Aniello Falcone, che fu il più preclaro interprete della specialità, “Oracolo” riconosciuto ed apprezzato, sul quale ha scritto pagine insuperate il Saxl nella sua opera Battle scene without a hero, una acuta ricerca che non ha trovato l’eguale nell’analisi di altri grandi battaglisti del Seicento, quali Salvator Rosa o Jacques Courtois, detto il Borgognone.
A Napoli fu molto diffuso il sottile piacere della contemplazione delle battaglie presso masochistici voyeurs, che prediligevano circondarsi, non di procaci nudi femminili dalle forme aggraziate ed accattivanti o di tranquilli paesaggi, né di severi ritratti o di languide nature morte, bensì di gente che si azzuffava a piedi o a cavallo, usando spade sguainate ed appuntiti pugnali, dando a destra e a manca terribili fendenti “in ariosi e fumosi, sereni o temporaleschi, pianeggianti o collinari scenari, ideali comunque per tali bisogne” .
Cominciamo illustrando un’opera (fig.1) di Francesco Graziani, detto Ciccio Napoletano, un battaglista minore attivo tra Napoli e Roma nella seconda metà del XVII secolo. Egli probabilmente è originario di Capua perché in alcune fonti è ricordato come Ciccio da Capua. E poco noto al De Dominici, il quale non è certo se egli fosse il padre o un parente di Pietro Graziani, battaglista attivo nei primi decenni del XVIII secolo. Filippo Titi in una sua guida delle chiese romane cita due suoi quadri, ma oggi è visibile solo quello conservato nella cappella Cimini di Sant'Antonio dei Portoghesi, databile al 1683.
Gli inventari della quadreria Barberini, redatti nel 1686, accennano a suoi quadri di battaglia e di marine, ma oggi non sono più identificabili.
Il Salerno, studioso dell'artista ed estensore della scheda nel catalogo della mostra sulla Civiltà del Seicento a Napoli, gli assegna poche opere certe: due battaglie nel museo civico di Pistoia e quattro nel museo civico di Deruta, una delle quali porta sul retro della tela l'attribuzione del Pascoli «del Graziani eccellente pittore».
Alla mostra furono presentati come autografi due paesaggi della Galleria Doria Pamphily, in precedenza assegnati ad un ignoto seguace del Dughet.
Tra gli antiquari napoletani è facile trovare delle tele, spesso di piccolo formato, ed a volte dipinti su rame, che possono ragionevolmente essere assegnati al Graziani, ma purtroppo la critica fa ancora molta confusione rispetto all'opera di Pietro Graziani e di un altro pittore, stilisticamente vicino ed ancora da identificare.
Nel quadro in esame si può apprezzare lo stile di Francesco Graziani, tagliente, con le figure dei soldati e dei cavalieri appena abbozzate; il cielo sovrasta le battaglie, incombendo pesantemente con un cromatismo plumbeo di un rosso caliginoso, che sembra partecipe dello svolgersi tumultuoso degli avvenimenti.

fig.2 -De Lione A.-S.Giorgio e il drago
fig.3 -De Lione A.-Scena di battaglia
fig.4 -De Lione A.-Scena di battaglia

Esaminiamo ora tre tele di Andrea De Lione
Andrea De Lione, vissuto a Napoli dal 1610 al 1685, fu un versatile narratore di battaglie senza eroi, di cavalieri all’assalto o in ritirata, di scene profane immerse in una natura selvatica e primordiale, eppure già classicizzata. Egli si formò negli anni ’20 nella rinomata bottega di Aniello Falcone – insieme con Salvator Rosa, Micco Spadaro e Carlo Coppola – dal quale apprese il gusto delle battaglie e l’attenzione naturalistica al mondo popolare. Nel corso degli anni ’30 i suoi occhi avidi e rapaci furano catturati dal linguaggio umile e popolaresco dei bamboccianti romani, poi dai preziosi cromatismi e dal denso pittoricismo del genovese Benedetto Castiglione, detto il Grechetto, infine dalla composta classicità di Poussin, intrisa di ricordi tizianeschi e veronesiani. Andrea De Lione possiede la giusta collocazione nel panorama artistico napoletano del Seicento e lo pone alla pari del suo maestro Aniello Falcone, sotto il cui nome sono passate a lungo le sue battaglie.
Insigne battaglista, ma anche maestro di scene bucoliche, come lo definì Soria, ispirato agli esempi del Castiglione e del Poussin ed in grado di realizzare composizioni dai colori brillanti e dal vivace dinamismo.
Al Grechetto va ricondotta l’atmosfera preziosa e delicata in cui sono campiti e messi insieme i colori, inseguendo un gusto raffinato, mentre al francese si deve l’impostazione classica e severamente di profilo dei volti, oltre all’impaginazione ed al paesaggio idealizzato degli sfondi.
Ad illuminare i rapporti tra il De Lione e il Grechetto interviene, poi, il San Giorgio e il drago (fig.2), autentico prelievo da una scena di battaglia, che nei riflessi argentei dell’armatura e nel rosso brillante della tunica del santo sembra richiamare la Presa degli armenti del Grechetto, oggi a Capodimonte. Ma la rappresentazione del santo come un milite romano, con i calzari, la corazza e l’elmo piumato, tradisce una indispensabile ispirazione a Poussin, allora considerato l’«exemplum romanitatis».
Nel San Giorgio e il drago (fig.2) e nell’altro dipinto di analogo soggetto, di collezione privata fiorentina, con leggere varianti, (da me pubblicato nella monografia sull’artista (pag.16, fig.27) non si respira aria di battaglia, ma sono presenti tutti gli ingredienti della stessa, dal cavallo rampante al guerriero con la lancia, anche se il nemico è rappresentato da un drago che vomita lingue di fuoco. Nel paesaggio terso, caratteristica delle tele bucoliche, descritta magistralmente dal Soria: ”The lightness and the featherly nature of the slender trees”. Ed è proprio il paesaggio, che sembra sospeso fuori dal tempo ed i preziosi accordi cromatici, a datare i due dipinti a ben dopo il decisivo incontro col Grechetto.
Il poderoso destriero pezzato sul quale monta il prode Giorgio, si impenna nel tentativo di intimorire il perfido drago, mentre la principessa Silene sembra rassegnata alla morte imminente.
Notevoli sono i due pendant (fig.3-4) transitati presso la Finarte di Roma nel giugno del 1981, pubblicati prima dal Sestieri nella sua monumentale monografia sulle Battaglie (pag.317 – Roma 1999) e poi nel 2001 dal Pacelli, che ne sottolineava l’impianto luministico freddo derivante dagli esempi del Rosa fiorentino ed assegnava i due dipinti alla fase matura dell’artista, per finire poi nella mia monografia sul pittore (Andrea De Lione insigne battaglista e maestro di scene bucoliche, (pag.16, tav.32–33, Napoli 2011).


05 - Coppola - Battaglia tra Cristiani e Turchi
06 - Coppola - Battaglia tra Cristiani e Turchi

Una vera sorpresa il dipinto di Carlo Coppola (per il quale rinvio sul web al mio saggio monografico) una Battaglia tra cristiani e turchi (fig.5) nella quale possiamo intravedere alcuni segni certi di autografia nella lucentezza metallica delle armature, nelle fisionomie inconfondibili dei cavalli e nelle eleganti e corpose code, che si aprono prosperose a ventaglio. Si tratta di un’opera giovanile, sconosciuta alla critica, nella quale si palpa l’aderenza ai modi tardo manieristici di un Belisario Corenzio o di un Onofrio De Lione, come in altre opere del Coppola quali lo Scontro di cavalieri, siglato o l’Assalto ad un castello con trombettiere.
Una tela quasi identica (fig.6) partecipò nel 2008 alla mostra Pugnae (catalogo, pag.38-39) ed è pubblicata sulla mia monografia (pag.43 – tav.21)
Come sempre i combattimenti vengono rappresentati con grande accanimento, con le urla di dolore e di rabbia dei contendenti che sembrano travalicare dalla superficie della tela, per farci sentire il gemito dei feriti e dei moribondi.
Mischie furiose con l’odio che sgorga dai volti corrucciati, cavalieri che si inseguono, bardati guerrieri in groppa a focosi destrieri, morti e feriti, bestemmie e gemiti e spesso anche le nuvole grigio scure e cariche di pioggia, che annunciano tempesta e sembrano partecipare dell’aria funesta che ovunque si respira.

Achille della Ragione

lunedì 13 febbraio 2017

Tre capolavori di Giordano di una raccolta napoletana

fig.1 - Giordano - Crocefissione di San Pietro

Cominciamo con una Crocifissione di San Pietro (fig.1) eseguita da Luca Giordano intorno al 1660, un momento in cui palpabile è l’influsso sul giovane, ma già valente artista, della lezione di Mattia Preti nella definizione serrata delle figure in primo piano e nella tavolozza in cui prevalgono colori scuri. Il dipinto è accuratamente descritto nella monumentale monografia sul Giordano di Ferrari e Scavizzi. (vol. I, pag.268–269).
Il pittore aveva già trattato il tema in un Martirio di San Pietro (tav. 38) del museo di Ajaccio che si trovava nella collezione del cardinale Fesch. Esso appartiene alla vena riberiana, più tenebrista del Giordano, caratterizzata da una predominanza di toni scuri, di rossi violacei e bruni terrosi e da una fattura che mantiene visibili le pennellate, in particolare sul corpo del santo, sulla barba e sui capelli resi con piccoli tocchi. Alcune figure riprendono prototipi riberiani, dal boia che sostiene la croce a quello di destra dalle rughe molto marcate, il cromatismo viceversa è più giordanesco, con il rosso delle carni che assume un aspetto vinoso, dominato da toni stridenti e non ha la luminosità del
pennello del valenzano. Il dipinto in via ipotetica può essere datato intorno al 1650.
 
fig.2 - Giordano - Diogene

Passiamo ora ad un Diogene (fig.2) il cui autore va identificato, con ogni certezza, nel caposcuola della pittura napoletana seicentesca Luca Giordano e  va collocato fra le realizzazioni degli anni giovanili, accanto alle celebri serie di Filosofi eseguite quand'era ancora sotto il forte ascendente di Jusepe Ribera, del quale era stato allievo precocissimo e versatile. 
L'opera mostra una somiglianza sorprendente con il Diogene che fu esposto a Napoli alla grande mostra del 2001 (catalogo, 76 – 77).
E' importante rilevare che al paragone dei più tenebristici e affumati tra questi Filosofi e Scienziati, il Diogene si va già aprendo a una stesura apprezzabilmente più morbida e luminosa, che per un verso mostra di essersi accostata al chiaro e intriso pittoricismo naturalistico venuto in voga a Napoli per opera dei maestri attivi negli anni successivi al quinquennio cruciale 1635-1640, per un altro appare già avviato alla luminosa fragranza coloristica, neo-tizianesca e rubensiana, che caratterizzerà i dipinti del Giordano "da camera" e specialmente le grandi pale "dorate" degli anni intorno al 1657.
L'opera, che è in eccellente stato di conservazione, si fa apprezzare per una fluente e vividissima condotta pittorica, che a tratti si rischiara nel roseo inatteso degli incarnati e della mano, in altri si ricarica di una lucidissima verità, com'è sul metallo della lanterna."
fig.3 - Giordano - Trionfo di Galatea

Sempre di Luca Giordano è un Trionfo di Galatea (fig.3) pubblicato da Vincenzo Pacelli prima sul n. 17 della rivista Studi di Storia dell’Arte, scritto ripreso poi in Luca Giordano. Inediti e considerazioni – Ediart 2007
“All’attività laica e segnatamente mitologica di Luca Giordano appartengono due inediti bozzetti, il primo raffigurante un Ratto di Europa, l’altro più tardo il Trionfo di Galatea.
Tra il 1682 e il 1685 va datato questo secondo bozzetto del quale esiste una redazione pendant del Ratto di Deianira a Palazzo Pitti. Il dipinto raffigura il momento in cui Galatea trionfa sul ciclope Polifemo ed è ritratta su una gigantesca conchiglia trasportata da tritoni e delfini mentre putti dalle ali di farfalla la circondano recando evidenti simboli marini, uno un prezioso rametto di corallo, l’altro il tridente di Nettuno. Al centro languidamente appoggiata sulla valva della bianchissima conchiglia, Galatea avvolta nella sua esuberante nudità da lembi di un mantello azzurrissimo e agitato dal vento che ricorda quello più famoso della Galatea dei bolognesi, volge verso destra il suo volto purissimo.
I riflessi del corallo e la spuma di mare prodotta dal nuoto dei delfini, trovano una corrispondenza nella luminosità trasparente dell’incarnato di Galatea e nell’azzurro del panneggio.
Quasi certamente, l’opera raffigura Galatea ormai rasserenata dopo l’uccisione del suo amato Aci che lei è riuscita a far rivivere trasformandolo nel fiume sotterraneo dell’Etna. Così il dipinto segnerebbe non solo il trionfo della dea su Polifemo, ma anche allegoricamente il trionfo dell’amore sulla morte.   
Achille della Ragione